16 Luglio 2020 | Recensioni

Manuale di metodologia per le terapie non farmacologiche con le persone affette da demenza. L’esempio concreto della terapia della bambola empatica

Manuale di metodologia per le terapie non farmacologiche con le persone affette da demenza. L’esempio concreto della terapia della bambola empatica

Recensione

Manuale di metodologia per le terapie non farmacologiche con le persone affette da demenza. L’esempio concreto della Terapia della Bambola Empatica, a cura di Rita Pezzati, Valentina Molteni, Roberta Ballabio, Laura Ceppi, Roberta Vaccaro, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN), 2020.

 

 

La varietà è la verità della vita
James Hillman
Da “Il tocco finale”, ne “La forza del carattere”

 

 

 

Introduzione

C’era bisogno di una opera simile, che compendiasse e facesse chiarezza su un argomento – quello sul “che fare” per le persone con demenza – che, per qualità e quantità, coinvolge così tante situazioni, nelle famiglie come nei luoghi istituzionali di cura. E proprio la sistematicità e la fruibilità costituiscono due pregi salienti del libro. Come chiaramente indicato nel capitolo di guida alla lettura – ad opera di Anna De Benedetti -, e come appare evidente dall’indice, il testo copre il ventaglio dei passaggi dagli aspetti teorici a quelli pratici, avendo sempre la persona con demenza come elemento focale.

 

Non a caso, la prima parte del libro comincia con una disanima dei problemi etici; poi, il testo inquadra la relazione tra persona ed ambiente nel corso della evoluzione della malattia; quindi distingue gli interventi dalle terapie non-farmacologiche; prosegue verso la cura centrata sulla persona, vista nei fondamenti teorici, prima di aprire un ampio spazio sulla gamma dei modelli, dei metodi, delle metodologie e degli interventi – compresi gli interventi rivolti a chi si assume il faticoso onere della assistenza.

 

La seconda parte del libro, nel settimo capitolo, espone con dovizia di informazioni l’esperienza della “bambola terapeutica”: anche qui si ripercorre una sequenza espositiva su una falsariga simile a quella della prima parte del testo. Si parte nuovamente dalla persona con demenza, che si vuole esplicitamente valorizzare, per illustrare poi lo strumento, la bambola, ed i relativi ancoraggi concettuali, quindi la traduzione di modelli e metodologia in esperienze concrete relative a casi clinici. Nuovamente, viene riproposta l’attenzione anche a chi cura, con espliciti richiami, in sottocapitoli dedicati, per la “squadra” da supervisionare, al fine di condividere una esperienza di cura: quest’ultima – proprio per il rigore e lo slancio con cui viene concepita, costruita ed applicata – può essere oggetto di ricerca scientifica, in un circolo virtuoso di stimoli reciproci tra prassi e teoria.

 

Prima della post-fazione, e della nutrita serie di allegati e riferimenti bibliografici (aggiornati al 2020), proprio per sottolineare il richiamo alla solidità delle proposte, la seconda parte del manuale si chiude con indicazioni su come concretamente applicare le proposte.

 

 

In maggiore dettaglio, secondo sezioni e capitoli

Trovo notevole che, nella prima parte del libro, il capitolo sull’etica delle cure non farmacologiche per la demenza (il primo) parta dalla constatazione che le cure palliative in questo settore tendano ad essere più tardive e meno efficaci rispetto a quelle per pazienti con altri tipi di patologie. Non a caso la matrice professionale dell’autrice del capitolo (Valentina Di Bernardo) implica un coinvolgimento diretto nella pianificazione della cura, dove non si può far altro che mediare tra principi etici potenzialmente confliggenti: infezioni e disfagia esemplificano concretamente la necessità di bilanciarsi tra appropriatezza e proporzionalità delle cure, collegate ai principi di beneficienza e non-maleficenza.

 

La demenza può modificare il concetto stesso di “autonomia”, portandolo dalla accezione individualistica, concernente “intenzionalità, comprensione e indipendenza”, ad una visione relazionale ed intersoggettiva, che coinvolge anche e fortemente il familiare curante. Si va ben oltre al dilemma tradizionale tra rispetto della autonomia e tensione alla tutela: il paradigma muta dalle “direttive anticipate”, legate all’“attuale miglior interesse”, e potenzialmente restrittive in quanto orientate verso il non-fare, ad una visione più fluida e mutevole. Tale elasticità deriva della constatazione che talvolta la persona con demenza sembra ancora provare piacere dalla vita, mettendo in atto comportamenti – ed apparentemente provando sensazioni – contrastanti rispetto ai desideri espressi in precedenza. E qui conviene recuperare la etimologia più piena del termine “terapia”, che implica “conforto, identità, attaccamento, occupazione e appartenenza”.

 

Allora adoperare una “bambola empatica” si inserirà nella linea del “continuare a fare”, nella scia di una cura che consenta alla persona con demenza di manifestare ancora la propria personalità, dotandoci degli opportuni antidoti verso quell’atteggiamento che nel quarto capitolo verrà chiamato “psicologia maligna”. Il rispetto e la autenticità garantiranno come “eventi positivi” riguardo ai comportamenti degradanti rispettivamente della infantilizzazione e dell’inganno, secondo la stessa etica della responsabilità che sostiene, in un rapporto di fiducia, l’evidente “insanabile” asimmetria connaturata in altre attività assistenziali che entrano nella sfera intima, quali lavare, cambiare, vestire, nutrire. Jaspers e Confucio ci aiutano a capire l’equivalenza nell’essenzialità dei bisogni presi in carico.

 

Nel secondo capitolo, Antonio Guaita fornisce coordinate preziose per la costruzione della cura, ponendo l’accento sulla “relazione fra persona e ambiente nella evoluzione del quadro clinico della demenza”, a partire dalla necessità di spalmare ed adattare tale relazione su un orizzonte temporale che si è progressivamente esteso alla decade. Dobbiamo evitare il cortocircuito che traduce il comportamento della persona con demenza come derivante strettamente dalla traduzione di deficit in sintomi: tale concezione rigidamente clinica vede solo una parte – pur necessaria ma non sufficiente – del problema, come ogni iper-semplificazione, trascurando il ruolo determinante dell’ambiente – fisico ed umano – che costituisce un pilastro dell’approccio “protesico”, sviluppato ad Abbiategrasso secondo il modello “GentleCare1.

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L’applicazione di un modello analitico concettualmente angusto si scontra sul versante terapeutico con i limiti della stimolazione cognitiva, in termini di applicabilità, di risultati specifici, di ricadute nella vita quotidiana. Invece, re-interpretare il comportamento della persona con demenza come discrepanza tra il detrimento addotto dalla malattia – di per se ben poco modificabile – e la richiesta, sbilanciata, da parte di un ambiente che possiamo almeno in parte modificare, apre spazi di intervento talora persino contro-intuitivi, specialmente se vengono tenuti in conto i cambiamenti che la malattia – ancor più che l’invecchiamento in sé stesso – porta al nostro apparato senso-percettivo, il cui rilievo magari non siamo portati a tenere nel debito conto.

 

Viceversa, occorre tenere presente le distorsioni in quelle “mappe mentali” – la cui individuazione è valsa un premio Nobel nel 2014 … – che costituiscono lo scenario in cui il paziente si rappresenta; se tale panorama è ristretto ad un “qui ed ora”, la persona con demenza verosimilmente potrà ribaltare il senso di un rimprovero quando riportato a casa dopo una fuga: dimenticata quest’ultima, la sgridata, per lui/lei, sarebbe avvenuta per il fatto di essere (tornato) a casa! … Ritornando alla fisiopatologia, l’uso accorto della illuminazione, dei colori e soprattutto dei contrasti può portare a giovamento sia rispetto alla visione – prevenendo reazioni comportamentali – sia rispetto agli apporti alimentari: argomento particolarmente delicato specie negli stati avanzati della demenza. Censurarsi dal gridare non costituisce solo una educata pratica di buona assistenza: significa anche attenersi alla fisiopatologia dell’udito.

 

Il terzo breve capitolo definisce e distingue, a scanso di equivoci, gli interventi e le terapie non farmacologiche; in un’utilissima tabella vengono riportati ed esemplificati i requisiti che debbono essere contemporaneamente presenti perché si possa parlare di “terapie”:

  • una teoria di riferimento, che possa spiegare i comportamenti
  • un modello, che definisca l’intervento in base alla teoria
  • un metodo, che descriva la realizzazione dell’intervento
  • una metodologia, che ne indichi gli strumenti
  • per finire con una valutazione degli esiti rispetto agli obiettivi specifici. In sostanza, gli aspetti qualitativi di una terapia non farmacologica implicano un coinvolgimento attivo e replicabile, della persona con demenza, personalizzato in ragione delle sue capacità, costruito all’interno di una radice teorica.

 

Le guide teoriche alla centralità della persona – riportate nel quarto capitolo – dove si avverte un certo “salto” nel linguaggio – si rifanno esplicitamente ad “intuizioni geniali” che, nella seconda metà del secolo scorso, hanno fondato, nella complessità dello “approccio bio-psico-sociale”, in un’ottica evoluzionistica di sistema, lo “scenario epistemologico” per una “medicina relazionale”. Seguendo percorsi diversi, i tre autori di riferimento, Kitwood (ispirandosi a Buber), Miesen e Ploton, convergono sull’importanza fondamentale della relazione terapeutica, di fronte ad un cambiamento inevitabile nella prospettiva di vita, per una diagnosi oggi temuta ancora più del cancro.

 

Applicando anche qui il tema ricorrente in gerontologia della diversità inter-individuale, occorre saper leggere, come in una esegesi, negli antecedenti delle storie biografiche personali, gli stili di attaccamento che ciascuno ha sviluppato. Ciò consentirà di attuare una forma di “assistenza-accompagnamento”, che recuperi un “pensiero affettivo”, superando gli irrigidimenti portati dal progredire della demenza nelle “memorie implicite”, che hanno orientato i comportamenti di tutta una vita. Man mano che il misconoscimento delle persone e l’inversione dei ruoli familiari avanza nei tre stadi della “fissazione genitoriale”, occorre che chi assiste sappia levare la “maschera per reazione” indossata dalla persona con demenza, che può ingenerare svalorizzazione e rifiuto.

 

La consapevolezza che per la persona con demenza “essere riconosciuto come persona cambia tutto”, porta a chi la assiste l’energia per implicarsi in attenzioni comunicative, a mettere in atto gli “intensificatori” di una “psicologia sociale benigna”, offrendo – mediante “riflessione, anticipazione, aspettativa e creatività” – “risposte altamente personalizzate, che cambiano continuamente”. Passare dalla visione della demenza solo come “perdita di sé”, soprattutto in termini di autonomia ed indipendenza (vedi primo capitolo), ad una “antropologia dialogica”, può farci sentire maggiormente interdipendenti, e magari consolati, nel “dare e ricevere cura”.

 

Il quinto ampio capitolo descrive la traduzione in pratica degli elementi esposti nel terzo, interventi basati “sull’approfondita conoscenza della persona e sulla formulazione di una nostra ipotesi circa il significato di quel comportamento, in quella specifica persona con la sua storia, in quella speci¬fica fase di malattia e in quello specifico contesto”, per “fornire rispettosamente attività signifi¬cative incentrate su punti di forza e interessi mantenuti piuttosto che per¬dite”. Coerentemente con le premesse teoriche, la scelta è caduta su quattro modelli di riferimento: quello “centrato sulla persona” di Tom Kitwood, il “GentleCare” (importato ad Abbiategrasso, dalla esperienza di Moyra Jones nella Columbia Britannica), il programma Montessori adattato da Cameron Camp per la demenza, ed infine sullo “stress model process” che Pearlin e Collaboratori hanno focalizzato sui familiari. Il capitolo si chiude, conseguentemente, con l’invito a personalizzare di volta in volta (tra persone diverse, ed in diversi momenti per il medesimo soggetto e contesto) la stima dei risultati dell’intervento o terapia.

 

Il capitolo dedicato agli interventi (sesto) esprime emblematicamente la fruibilità del manuale. Dopo poche righe introduttive, gli interventi vengono dapprima divisi in una tabella sinottica per destinatario (persona affetta da demenza / persona che la assiste); gli interventi rivolti alla persona con demenza sono poi elencati secondo la dimensione interessata: cognitiva, psicosociale, sensoriale. I singoli interventi maggiormente utilizzati nella pratica clinica, secondo ciascuna dimensione, prima di venire descritti, sono presentati in un’utilissima tabella riassuntiva, che sistematicamente espone le caratteristiche dell’intervento, le fasi della demenza cui è rivolto, le prospettive storiche in cui si è sviluppato, l’efficacia riportata in letteratura, e per converso i limiti (esempio di onestà intellettuale).

 

La seconda parte del manuale, che inizia con il settimo capitolo, presenta la “bambola empatica” come esempio concreto di intervento non farmacologico. Tale sezione del testo ripercorre, condensandoli, i passaggi della prima parte, focalizzandoli su una forma di terapia non farmacologica finalizzata a portare benessere alla diade persona con demenza / assistente. Gli autori da subito mettono dichiaratamente in guardia tale terapia, destinata a situazioni di malattia moderata – severa, dal rischio di infantilizzazione: le premesse psicologiche su cui si fonda (mentalizzazione, risonanza, “sistema della ricerca”, “sistema dell’accudimento”) riposano nella struttura morfo-funzionale del nostro sistema nervoso centrale, per come si è evoluto.

 

Una serie di “disturbi del comportamento” – che minacciano sia il paziente che chi l’assiste – possono venire ri-letti alla luce della perdita continua ed ingravescente nelle capacità di controllo e nel conseguente senso di sicurezza, venendo meno il significato attribuibile agli oggetti ed agli eventi. La terapia con la bambola empatica cerca di rispettare ed avvalorare la persona con demenza, rigenerando senso ai suoi comportamenti, fino ad ottenere possibili capovolgimenti di ruoli: dalla ricerca “disturbante” (rivolta a chi assiste) di attaccamento, alla capacità di accudimento (verso la bambola), di cui sono capaci individui anche particolarmente anziani, e cognitivamente compromessi, di entrambi i generi. Di questo apparente controsenso nel passaggio dalla richiesta di attenzione e protezione per sé, talora assillante e frustrante, al dare rassicurazione (alla bambola, a prescindere dal fatto che venga riconosciuta come tale piuttosto che identificata in una figura umana significativa), vengono cercate ipotesi interpretative: la bambola può riattivare lontane esperienze di accudimento dato o ricevuto, oppure può fungere da mediatore per una relazione di cura che rompe l’isolamento, e favorire la costruzione di un significato comune condiviso nel “qui ed ora” del rapporto con chi assiste – sotto condizione che quest’ultimo non anteponga le proprie aspettative, ma sappia consapevolmente leggere le situazioni.

 

L’insistenza sul rigore nella metodologia potrà portare – nella esperienze riportate emblematicamente – la persona con demenza grave a percepire la sensazione di venire rispettata; specularmente, chi assiste potrà essere indotto, con vantaggio, alla solerzia nella “somministrazione” (termine usato esplicitamente sulle schede di lavoro), persino a letto, fino alle soglie del decesso. Ancora, un solido ancoraggio ai riferimenti teorici dell’intervento può sostenerne la motivazione nei momenti di difficoltà. Vengono presentati nove casi clinici, scelti in modo da inquadrare un’ampia gamma di problemi che coinvolgono la persona con demenza e chi la cura in modo formale ed informale. In più occasioni, il comportamento agito dal paziente su cui si è inteso intervenire sembra configgere con le caratteristiche della persona ricavate dalla anamnesi: l’esempio del “giovane anziano” ex volontario presso il medesimo centro dove è stato ricoverato, e dove vi agisce oppositivamente, è emblematico.

 

I casi vengono presentati secondo uno schema costante: età e sesso, diagnosi, durata del ricovero, diagnosi, livello cognitivo e funzionale, modalità e motivo della scelta del caso, valutazione comportamentale, farmacoterapia, anamnesi remota e recente, obiettivi di lavoro (previa valutazione ed osservazione collegiali), scelta del tipo di bambola e modalità della prima somministrazione, valutazione a 30 giorni e relazione con la bambola, prosieguo e descrizione dei risultati nel tempo, reazioni da parte di familiari, amici, medico di riferimento. Segue una riflessione rispetto agli obietti raggiunti, al benessere del residente e alle eventuali modifiche nella relazione con i prestatori di assistenza professionali e con gli altri residenti, prima delle conclusioni.

 

Il capitolo procede con una serie di indicazioni dettagliate dedicate alla formazione, precedute dalla disanima di 23 domande ricorrenti frequentemente. L’attenzione agli aspetti organizzativi viene proposta sia all’interno della sezione dedicata alla bambola empatica che nel seguente capitolo, a sé stante. Proprio tale attenzione al rigore nel metodo e nella organizzazione ha consentito di pubblicare gli aspetti metodologici della ricerca sull’intervento terapeutico su una rivista indicizzata del livello di “Trials” (fattore di impatto 1,975). Quanto ai risultati, già la analisi preliminare parla nettamente a favore del gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo, a vantaggio sia dei pazienti, che, specularmente, della squadra che assiste.

 

L’ottavo ed ultimo capitolo è dedicato agli aspetti organizzativi, che costituiscono il presupposto indispensabile su cui l’esperienza della bambola empatica è stata condotta (parallelamente in 26 strutture). La sagacia e la esperienza della autrice (Luisa Lomazzi) l’hanno portata a dedicare attenzione sia alle potenzialità degli individui (per esempio le candidature volontarie) che alle strategie che garantiscano al progetto formativo rigore, fattibilità e continuità (per esempio: cominciare illustrando pochi casi al maggior numero possibile di operatori); pianificazione (cosa, quando, perché, come, con cosa, per chi, chi fa, con quali frequenza e risultati, consegne quotidiane, riscontri settimanali, verbali; coinvolgimento di tutti i servizi con obbligo di presenza, formalizzazione del piano di formazione con ore dedicate).

 

Il risultato di una simile impostazione si misura nel miglioramento della qualità di vita di tutti gli attori del servizio: persone residenti, familiari ed operatori, dei quali è stata constatata una crescita in consapevolezza, responsabilizzazione e riconoscimento. Nella post-fazione, tra l’altro, Guaita delinea l’evoluzione dei paradigmi di cura da quello clinico tradizionale, a quello riabilitativo (ispirato alla medicina “funzionale” – proposta da Gadamer, aperta a nuovi equilibri eterodossi purché utili), infine a quello “protesico”, proprio dello “approccio psico-sociale”.

 

 

Conclusioni

Qualche considerazione conclusiva, per richiamare la fruibilità citata in apertura. Il testo è dichiaratamente destinato alla universalità degli utenti, ai quali offre (all’interno del quinto capitolo e negli allegati) un ampio ventaglio di strumenti validati, in modo da poter personalizzare la valutazione, ed una bibliografia ampia, diversificata ed aggiornata. Anche il linguaggio – che a volte si propone dichiaratamente come glossario – è volutamente piano, pur con lo stacco, necessario, nel quarto capitolo. D’altra parte, come dichiarato in post-fazione, l’approccio protesico, in “malattie che durano anni ed entrano nella vita non solo del malato ma di tutta la sua rete relazionale” richiede una quota indispensabile di teoresi, per rendere conto del proprio spessore, che non si limita ad una collezione di espedienti e tecniche senza “respiro metodologico”. Anzi, si potrebbe dire che il titolo, con quel suo sapore “tecnico” insito nel termine “manuale”, non rende sufficiente merito al contenuto, che si presenta “in negativo”, per contrapposizione alla terapia “per eccellenza”: quella farmacologica.

 

Credo però che la scelta dei termini del titolo non sia casuale, ma piuttosto voglia da subito dichiarare la “fruibilità” del testo: invogliati alla lettura, scopriremo orizzonti ben più ampi. Già dal primo capitolo ci viene dichiarato che: “… ogni volta che attraverso i nostri comportamenti offendiamo la dignità di qualcuno – soprattutto di chi è più fragile e indifeso – lediamo la nostra integrità (personale e professionale) e feriamo la nostra stessa dignità”; viceversa, in positivo, dalla post-fazione leggiamo che “Il benessere è infatti un obiettivo inevitabilmente sistemico, esiste se lo si può condividere, ma soprattutto non è possibile dare via quello che non si ha, per cui preoccuparsi del benessere degli operatori e dei familiari non è diverso dell’occuparsi del malato.” Chiari esempi di quel connubio tra personale e professionale al cuore della “etica della relianza”, sostenuta da Edgar Morin, proposta dalla pedagogia più avveduta.

 

Note

  1. Il modello GentleCare, sviluppato originariamente nella Columbia Britannica dalla terapista occupazionale Moyra Jones, si inquadra tra i modelli centrati sulla persona. E’ concepito per aiutare chi sostiene la persona con demenza a sviluppare una visione “protesica” della cura, che compensi il deficit dell’assistito – attraverso la significatività di persone, attività quotidiane ed ambiente fisico – in modo da far esperire all’assistito la migliore qualità di vita possibile, intesa come massima funzionalità relativa in assenza di stress. La diffusione delle protesi nella vita quotidiana di ciascuno di noi può facilitare una comprensione immediata del concetto di fondo: si pensi all’esempio più banale degli occhiali per la vista

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