4 Novembre 2020 | Domiciliarità

Il Caffè Alzheimer e la relazione coi malati: risultati positivi e criticità

La persona con demenza sarà sempre più spesso la protagonista del percorso di cura. I Caffè Alzheimer si collocano tra i servizi che offrono un palcoscenico adatto ad ospitarla, poiché propongono una cura personalizzata. La loro frequentazione, oltre a garantire un maggior benessere al caregiver, sembra avere un impatto positivo sui sintomi neuropsicologici dei malati.

Il Caffè Alzheimer e la relazione coi malati: risultati positivi e criticità

A massive amount of personalized care1è uno slogan lanciato al fine di spiegare l’atmosfera generale nella quale si dovrà svolgere nei prossimi anni la cura delle persone anziane, in particolare quelle affette da alterazioni della cognitività (Trabucchi, 2016 – Introduzione al Manuale operativo del Coordinamento degli Alzheimer Caffè della Lombardia Orientale).

 

I servizi territoriali dovranno porre sempre di più l’ammalato nel ruolo di attore primario al centro di un contesto di cura personalizzata, ed i Caffè Alzheimer si collocano tra i servizi che, forse più di altri, offrono un palcoscenico adatto ad ospitare questi attori. Una cura personalizzata implica ascolto attento e risposte adeguate alle richieste della persona e della sua famiglia, ma con un’impostazione personalizzata tecnico-clinica, che analizza da vicino la situazione del singolo individuo, prendendo in considerazione la condizione di malattia ed il grado di compromissione dell’indipendenza cognitiva e funzionale.

 

I Caffè Alzheimer cercano di tradurre operativamente questo concetto di cura. Infatti, come sottolinea il Professore Marco Trabucchi (Trabucchi, 2016), il confine tra essere “contenitori di sofferenza” o “ambiti di cura” è molto sottile: il contenitore può essere chiuso, la cura invece richiede apertura, rispetto, relazione.

 

La mission

I Caffè Alzheimer si collocano all’interno della rete di servizi di presa in carico di persone affette da decadimento cognitivo lieve o moderato: sono luoghi sicuri dove i malati possono trovare, insieme ai propri familiari, conforto e supporto al vissuto di isolamento e di solitudine, che spesso emerge dopo aver ricevuto la diagnosi di malattia neurodegenerativa. Il Caffè Alzheimer è il luogo dove familiari e malati possono recarsi, acquisire conoscenze e strategie per meglio affrontare e gestire la malattia, condividere risultati e difficoltà, supportarsi vicendevolmente, trovare professionisti esperti con cui potersi confrontare. Un luogo, inoltre, dove poter esperire un sentimento di appartenenza e poter trovare riconoscimento ed accettazione (Miesen, 2004).

 

Tre gli obiettivi principali che, secondo l’ideatore olandese Bere Miesen, l’Alzheimer Caffè deve perseguire:

  1. fornire informazioni sugli aspetti medici e psicosociali della demenza
  2. enfatizzare l’importanza del parlare liberamente dei problemi che il malato e la sua famiglia vivono nel quotidiano (riconoscimento e accettazione sociale)
  3. promuovere l’emancipazione delle persone con demenza e delle loro famiglie al fine di prevenire l’isolamento.

 

Il focus sul malato

L’intervento psicosociale dell’Alzheimer Caffè nasce dunque dalla intuizione dello psicologo Bere Miesen (specializzato nell’ambito dell’invecchiamento al Marienhaven Psychogeriatric Center, Warmond, Olanda), di creare un luogo dove i malati e i propri familiari potessero incontrarsi, uscendo da una sfera di solitudine e che permettesse loro di sentirsi riconosciuti come individui, oltre la malattia (Miesen, 2004).  Seppur con un obiettivo chiaro, questo intervento non si prefigura di riuscire ad assolvere completamente tutte le necessità del paziente e della famiglia, che è portatrice di un carico che non si estingue mai totalmente (Trabucchi, 2012).

 

Certamente, la persona affetta da demenza non si esaurisce nella malattia: è necessario promuovere la sua identità e il suo valore di persona che, nonostante il decadimento cognitivo, possiede ancora delle risorse che devono essere valorizzate per consentirne la massima espressione. I tre obiettivi proposti da Miesen cercano infatti di rispondere al bisogno di ascolto, di inclusione e di emancipazione del malato, prendendo in considerazione una necessità sociale; all’inizio forse le attività trascurano il bisogno di stimolazione cognitiva e funzionale che orienta successivamente il servizio all’utilizzo di tecniche, strategie e terapie che favoriscono l’attivazione della persona, la valorizzazione delle risorse ed il rallentamento del decadimento funzionale.

 

Alla luce di questa considerazione è possibile individuare e comprendere gli obiettivi principali che si manifestano nelle attività proposte ai pazienti all’interno del Caffè Alzheimer, che si prefigurano di sollecitare e mantenere le capacità cognitive residue, promuovere l’interazione e proporre contenuti utili ,ma nel contempo gratificanti per il paziente (Boffelli et al, 2019).

 

Le attività proposte ai pazienti riguardano principalmente le più conosciute terapie non farmacologiche, che possono essere svolte singolarmente, oppure in piccolo gruppo; queste ultime, in particolare, mirano ad un benessere psicofisico della persona, che è chiamata a relazionarsi con gli altri, uscendo dalla sfera domiciliare. È importante considerare, nella preparazione delle attività, che vi sia un richiamo agli interessi personali delle persone che partecipano, seppur all’interno di protocolli elaborati sulla base di ricerche scientifiche che ne sostengono l’efficacia. La conoscenza della persona, che si deve ottenere prima di proporre qualsiasi trattamento, è certo un dovere alla cura personalizzata.

 

Gli interventi non farmacologici ritenuti funzionali nel contrastare i disturbi psico-comportamentali sono numerosi: essi sembrano essere implicati positivamente nel miglioramento di aspetti cognitivi, psicologici e comportamentali (Giebel, Challis, 2015; Abraha et al., 2016). Inoltre, ci sono evidenze scientifiche che supportano il miglioramento da un punto di vista neurofisiologico e neuropsicologico; numerosi studi approfondiscono questi aspetti, ponendo l’attenzione anche sulle ricadute positive in termini funzionali e nello stato di benessere globale del soggetto che partecipa agli interventi psicosociali.

 

Oltre alla stimolazione cognitiva, entrano a far parte del ventaglio delle cure proponibili le attività ludico socializzanti, l’attività motoria condotta da un fisioterapista, i laboratori creativi, di cucina e musicali, le attività assistite da animali, ed in alcuni Caffè l’attività di Yoga della Risata. Quest’ultima, diffusa come metodo generalizzato di promozione del benessere attraverso la risata, è stato rivisitata e adattata al Caffè Alzheimer; è risultata funzionale in termini di osservazione qualitativa e permette di creare momenti emozionanti e altamente socializzanti, dove non ci sono distinzioni diagnostiche, ma consente di “utilizzare il linguaggio delle emozioni che è universale” (Kataria, 2014).

 

Tra le attività occupazionali più utilizzate è stato selezionato il metodo Montessori, già noto nell’approccio con i bambini, per favorire momenti di autoeducazione e di ricerca all’interno dell’ambiente e del contesto di vita. In comune con il mondo dell’infanzia, un aspetto importante riguarda l’autonomia del soggetto, che nel caso della persona con demenza, diviene centrale nella ricerca di una nuova forma di autonomia nella malattia; i benefici di questo approccio emergono maggiormente in campo comportamentale, in particolare per quanto riguarda la condotta alimentare, riportando evidenze meno significative sulla cognitività, ma fornendo un valido aiuto per le attività della vita quotidiana. (Sheppard et al., 2016).

 

Tutte le attività sono state condivise dai coordinatori dei Caffè Alzheimer afferenti al Coordinamento della Lombardia orientale, che trovano nel manuale operativo dei Caffè Alzheimer un punto di riferimento.

 

I Caffè Alzheimer e i malati: i risultati

Il gruppo di coordinamento degli Alzheimer Caffè della Lombardia orientale si è riunito a partire da aprile 2013, sotto la supervisione del Professor Trabucchi del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia. Partendo da una filosofia comune di intervento e di condivisione, che deriva dalle linee guida proposte da Bere Miesen, ma adattate al contesto italiano, il gruppo di coordinamento prevede la raccolta semestrale di dati mediante scale dedicate, sia per i caregiver che i malati.

 

All’ingresso viene somministrata una breve valutazione multidimensionale, per approfondire il quadro cognitivo globale (MMSE, Mini Mental State Examination), funzionale (IADL e BADL, attività strumentali e di base della vita quotidiana), la presenza e l’intensità dei sintomi depressivi (GDS-15, Geriatric Depression Scale-15 item), sintomi neuropsicologici (NPI, Neuropsychiatric Inventory) e stress del caregiver (NPI, Neuropsychiatric Inventory e CBI, Caregiver Burden Inventory).

 

Sono stati valutati 106 gruppi familiari, con pazienti affetti da demenza prevalentemente di sesso femminile (58%) e di età elevata (79.2±6.7 anni). Il decadimento cognitivo è di grado moderato (Mini Mental State Examination 15.8±8.0), con conseguente perdita funzionale (IADL perse 5.3±2.7; BADL perse 2.3±1.9). I disturbi comportamentali ed i sintomi depressivi sono di grado lieve-moderato (UCLA NPI 22.4±16.2; GDS 4.5± 3.8). I familiari sono per la maggior parte rappresentati dai coniugi (42%) e dai figli (43%), con una età media di 66 anni. Riferiscono una condizione moderata di stress (UCLA NPI stress pari a 13.3 ± 9.0) e di burden della cura (CBI 36.4±15.1).

 

Ciò che è emerso dall’analisi dei dati è una correlazione tra il livello di stress e la gravità del decadimento cognitivo, unito ai sintomi comportamentali; il “peso” assistenziale correla con l’età del caregiver, il grado di dipendenza del proprio familiare malato in termini funzionali, e la gravità dei disturbi comportamentali e cognitivi.  Nei controlli successivi di follow up rimangono all’Alzheimer Caffè 61 soggetti, circa il 58%, prevalentemente di sesso femminile e di un’età media di 78 anni.

 

Nei follow up emerge una riduzione dei sintomi neuropsicologici dei malati e dello stress del caregiver, a fronte di un mancato miglioramento dello stato cognitivo e funzionale dei pazienti. La permanenza delle famiglie all’Alzheimer Caffè è più agevole e fattibile per i malati con un numero inferiore di anni di malattia e disabilità; al contrario, i malati persi al follow up rappresentavano il gruppo con maggiore decadimento cognitivo e funzionale, che probabilmente hanno richiesto una presa in carico assistenziale più complessa (centro diurno integrato o residenza sanitaria). Pertanto, l’intervento degli Alzheimer Caffè risulta funzionale nel tempo, in particolare per pazienti con moderati sintomi comportamentali e familiari, con un moderato burden assistenziale e che gestiscono meglio lo stress. Quest’ultimo, come emerge dai dati (Tabella1), sembra ridursi dopo un periodo lungo di frequentazione (1 anno), per quanto il burden della cura non si modifichi rimanendo pressoché invariato, se non con un picco a sei mesi in cui il punteggio incrementa anziché decrescere.

 Risultati di gestione dello stress in seguito alla frequenza ai Caffè Alzheimer
Tabella 1 – Risultati di gestione dello stress in seguito alla frequenza ai Caffè Alzheimer

Alla luce di questi dati è stato condotto un approfondimento nel 2019, su un sottogruppo di caregiver e pazienti afferenti ad un Caffè Alzheimer. Oltre alle scale previste e somministrate ogni sei mesi, è stata inserita la Perceived Stress Scale – PSS (Cohen et al, 1983) per analizzare l’effettiva riduzione del valore di stress percepito nei caregiver. Analizzando il gruppo dei familiari con stress elevato, si rileva che il carico assistenziale è il principale determinante dello stress del caregiver (Tabella 2). Fenomeno che è in relazione all’aggravarsi della malattia stessa, non destinato ad abbassarsi bensì a crescere.

 Lo stress del caregiver dei malati di demenza
Tabella 2 – Lo stress del caregiver dei malati di demenza

Dall’analisi dai dati emerge una differenza di genere rispetto all’assistenza: i caregiver di sesso maschile sembrano più affaticati nel gestire le proprie mogli affette da demenza; questo aspetto, seppur non sia stato dimostrato in termini scientifici, potrebbe riferirsi alla tradizione tipicamente femminile della cura e dell’accudimento, soprattutto considerando l’età dei caregiver al quale è stato somministrato il protocollo. Inoltre, ad un’età più avanzata del caregiver corrisponde una minor tolleranza verso il proprio familiare malato, a fronte di una condizione di invecchiamento e di fatica. In sintesi, il caregiver con un’età più avanzata, a fronte della percezione di uno stress maggiore, avrà maggiore bisogno di sostegno all’Alzheimer Caffè.

 

Da un punto di vista qualitativo, dalle interviste condotte a familiari e operatori interni all’Alzheimer Caffè, emerge una conferma dell’efficacia e della funzionalità di questo intervento: l’intero gruppo dei caregiver ha affermato di sentirsi meglio al ritorno a casa dopo un incontro (“più sollevato, sereno e motivato” sono state le risposte più frequenti). All’item che indagava in che misura il caregiver ritenesse utile il servizio, le risposte sono state totalmente affermative a differenza della domanda “ritiene che possa beneficiarne anche il suo caro?” dove le risposte sono state più disomogenee e non evidenziano significativi benefici. Questo dimostra ulteriormente come l’intervento psicosociale dell’Alzheimer Caffè sia utile anche per i caregiver.

 

Per i malati, la frequentazione al Caffè Alzheimer sembra avere un impatto positivo non sugli aspetti cognitivi quanto sui sintomi neuropsicologici, riducendone la manifestazione a distanza di un anno. Quest’ultimo dato, seppur significativo in termini statistici, ci spinge a comprendere come i sintomi neuropsicologici siano la risultante di numerosi fattori: età, genere, personalità premorbosa, tipo e stadio della malattia, aspetti abitativi, familiari, economici e sociali sono stati evidenziati in letteratura come fattori in grado di spiegare la diversa comparsa ed evoluzione dei sintomi neuropsicologici nel tempo.

 

La letteratura riporta, inoltre, scarsi benefici a lungo termine delle terapie non farmacologiche utilizzate con le persone affette da demenza. Tuttavia, come ribadito dalla letteratura, una maggiore ‘salute’ del caregiver, sia in termini fisici che psicologici, produce una cura più funzionale nei confronti del proprio caro, che ne risente positivamente per quanto concerne i sintomi neuropsicologici e una riduzione del ricorso all’istituzionalizzazione. Minore stress percepito dal caregiver, condizioni psico-fisiche migliori favoriscono la riduzione dei sintomi psico-comportamentali manifestati dalla persona malata (Merlo et al., 2018).

 

Tra vincoli e risorse

L’attività di coordinamento, finalizzata a migliorare il servizio e renderlo più adeguato ai bisogni e alle richieste delle famiglie, prevede un monitoraggio costante degli Alzheimer Caffè, ed in particolare delle attività proposte, del loro effetto sui malati, delle criticità che emergono dalla pratica quotidiana. Nasce così anche l’esigenza di esplorare le dinamiche che si vengono a creare, di sostenere i legami che prendono forma all’interno del servizio e di promuovere l’espressione delle risorse tipiche di ogni sistema, superando, laddove necessario, i vincoli ambientali e contestuali che sono presenti.

 

Mai come negli scorsi mesi la mission del Caffè Alzheimer è divenuta una priorità nell’assistenza delle famiglie che convivono con la demenza.  In un tempo di emergenza sanitaria, di chiusura e limitazioni, durante il quale molti fondamentali servizi territoriali (quali ad esempio i CDI, le attività di assistenza domiciliare integrata, etc.) sono stati sospesi, ed ora funzionano a regime ridotto, il Caffè Alzheimer ha continuato a giocare un ruolo importante. Il servizio va tuttavia ripensato.  L’emergenza sanitaria e le relative misure predisposte per contenere la diffusione del Covid-19 hanno richiesto una profonda riorganizzazione generale ed in particolare di servizi psico-sociali come i Caffè Alzheimer.

 

Prima dell’emergenza il Caffè Alzheimer garantiva presenza. Una presenza fisica in un luogo fatto di persone e di contatti. Parte delle attività organizzate nell’ambito del Caffè per pazienti e familiari si svolgevano in gruppo. Alcune realtà prevedevano anche interventi domiciliari che favorivano l’esplorazione e l’approfondimento delle singole situazioni in un contesto ‘casalingo’, un’occasione per ascoltare e dare conforto, ma anche per analizzare col caregiver possibili soluzioni pratiche e atteggiamenti comportamentali più utili o adeguati. L’intervento a domicilio facilitava inoltre la proposta e l’efficacia di diversi interventi non farmacologici (come la stimolazione cognitiva individuale), poiché svolti in un clima più familiare ed ecologico.

 

Il distanziamento sociale ha reso impossibile l’incontro nelle diverse realtà territoriali secondo le modalità abituali e ciò ha fatto emergere ulteriormente un bisogno di supporto e condivisione soprattutto in un periodo così complesso e incerto. Le famiglie si sono trovate a far fronte alle difficoltà presenti a causa della patologia in un contesto ancor più alienante e difficile da gestire. Da qui è scaturita l’esigenza di ripensare tutti gli interventi alla luce delle possibilità date dal periodo, usufruendo di risorse quali contatti telefonici, videochiamate e piattaforme digitali, che permettessero all’équipe dei Caffè di mantenere aperto il dialogo con le famiglie. La tecnologia ci ha consentito di garantire continuità e, nonostante le modalità diverse, gli obiettivi sono rimasti quelli stabiliti prima dell’emergenza sanitaria, ossia sostenere i familiari e i loro cari, aiutandoli a mantenere i contatti con il gruppo di riferimento e allontanare il sentimento di solitudine.

 

I diversi referenti dei Caffè Alzheimer afferenti al gruppo di coordinamento dei Caffè della Lombardia Orientale, così come molte altre realtà presenti sul territorio nazionale, hanno dunque individuato diverse modalità di connessione, prediligendo quelle più adeguate all’utenza, così da offrire opportunità di presenza e contatto, seppur virtuale, in un periodo dove le due parole più diffuse, centrali per una questione sanitaria, sono state “distanziamento sociale”.

 

Ci siamo confrontati con la chiusura, con la non-presenza fisica. Il Caffè è divenuto un non-luogo. La possibilità di interventi domiciliari si è trasformata in impossibilità. Diviene dunque importante l’idea di sfruttare i problemi cogenti e partire da essi per strutturare un intervento efficace e funzionale, che favorisca la rete con e tra le famiglie e tra i servizi territoriali.

 

Alla luce del periodo storico che stiamo attraversando, si è rivelato dunque ancor più centrale il ruolo svolto dai Caffè Alzheimer e dai suoi operatori sul territorio. La rete ha permesso di tenere le fila e i contatti fra le famiglie, rilevando i bisogni e cercando di fornire delle risposte più o meno formali per soddisfarli.

 

Da qui si evince l’esigenza di continuare a supportare, con i mezzi a disposizione, i malati e i loro caregiver, aiutando le famiglie ad affrontare la malattia e ciò che ad essa è legato. Oggi è ancor più doverosa l’attenzione al processo di presa in carico/cura di una persona con demenza e della sua famiglia. Ripristinare lo stato di salute pre-morboso, nella logica tipica del paradigma di cura, non rappresenta un obiettivo percorribile per la demenza, ma non ci si deve arrestare nell’attesa di un periodo più favorevole. È richiesto agli operatori e a coloro che sono coinvolti in questi interventi, di prendersi cura delle famiglie, supportandole, accompagnandole durante il lungo viaggio della malattia e trovando modalità e strumenti che di volta in volta divengano più efficaci, utili e funzionali.

 

Il nostro “prendersi cura” si caratterizza come “professionalità unita al sentimento di compassione”. Termine che nella nostra Società spesso viene frainteso o mal utilizzato, ma che a livello etimologico esprime il paradigma di base di questo servizio. Compassione deriva dal latino “compassio-onis, derivato di compăti, sentimento di vicinanza alle sofferenze altrui”, e rappresenta la volontà di incoraggiare e sostenere emotivamente. Sentimento che pervade il gruppo degli operatori, e rappresenta la volontà di incoraggiare e sostenere emotivamente i malati ed i loro familiari, senza interruzioni, sfruttando i problemi cogenti per trasformare i vincoli in risorse.

Note

  1. “una grande quantità di cure personalizzate”

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