18 Febbraio 2021 | Professioni

Il social work con le persone non autosufficienti: riflessioni a partire da una ricerca in Lombardia

L’assistente sociale svolge una funzione di intermediazione socio-assistenziale: si occupa di individuare le prestazioni necessarie, di aiutare le persone a decidere cosa fare, di organizzare concretamente il tutto. La sua posizione è quella di chi si trova a lavorare non solo tra i cittadini e il proprio Ente, ma anche tra i cittadini e altri enti, servizi, organizzazioni e, spesso, tra i cittadini e le comunità locali.

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Secondo uno degli ultimi studi disponibili (Facchini, 2010), circa un quarto degli assistenti sociali italiani si occupa di persone anziane, e il 6% si occupa di disabilità: l’area della non autosufficienza impiega quindi circa un terzo del totale degli assistenti sociali. Questa figura professionale rappresenta un nodo centrale nel multiforme sistema di welfare italiano (Burgalassi, 2012), collocandosi al crocevia tra la domanda di interventi e prestazioni proveniente dai cittadini e l’offerta assistenziale degli Enti e dei Servizi.

 

La presenza del servizio sociale professionale è prevista dalla Legge 328/2000 tra i livelli essenziali dell’assistenza, proprio perché questi professionisti sono chiamati a decodificare le differenti situazioni e a far pervenire ai singoli individui o nuclei familiari, nella maniera più flessibile e personalizzata possibile, le molteplici provvidenze previste dal sistema assistenziale. Per far questo è necessario l’esercizio di una elevata discrezionalità professionale, pur da esercitarsi all’interno delle previsioni normative e dei regolamenti istituzionali (Raineri e Corradini, 2019).

 

Tuttavia, nell’immaginario collettivo, le funzioni dell’assistente sociale, che lavora con le persone e le loro famiglie, vengono spesso assimilate a meri compiti di natura amministrativa, finalizzati a far combaciare la richiesta di prestazioni e servizi proveniente dalle famiglie, con l’erogazione di un prodotto standardizzato presente nel sistema del welfare.

 

Non autosufficienza: un’area di lavoro poco desiderabile e scarsamente definita

Alcune ricerche, svolte prevalentemente in un contesto internazionale, ci dicono che gli assistenti sociali alla prima esperienza e gli studenti dei corsi di laurea in servizio sociale non desiderano lavorare nell’area della non autosufficienza, perché la ritengono troppo semplice, poco stimolante e routinaria. Questi dati di ricerca possono essere confermati dalla diretta esperienza di docenti e supervisori, cui gli studenti, nella maggior parte dei casi, richiedono di potersi sperimentare nel lavoro coi minori e le famiglie, dove ritengono di poter acquisire maggiori competenze, sia in termini di capacità di valutazione, che di progettazione.

 

In una ricerca condotta negli USA (Webb et al., 2016), il lavoro sociale con le persone non autosufficienti è stato definito “deprimente”, evidenziando quanto siano presenti stereotipi che portano a considerare l’invecchiamento e la malattia come un disvalore, da nascondere o procrastinare il più possibile. Le persone anziane sono, stereotipicamente, dipinte come fragili, ammalate, sporche, testarde e le funzioni di supporto e assistenza, in particolare quelle relative all’accudimento fisico, sono ritenute adatte a personale poco qualificato e scarsamente retribuito (Lymbery et al., 2007; Chonody, Wang, 2014).

 

A queste considerazioni si può aggiungere che l’area della non autosufficienza, rispetto ad altri ambiti di servizio sociale, si caratterizza per una più elevata componente sanitaria, dettata dalla necessità di far fronte alle numerose patologie che affliggono le persone anziane e con disabilità. L’integrazione tra il campo sociale e il campo sanitario tocca svariati e delicati aspetti, legati, ad esempio, alla definizione delle competenze tra i diversi professionisti, alle funzioni di coordinamento dei progetti e, più in generale, alle responsabilità gerarchiche, alla suddivisione della spesa tra gli enti, al concetto stesso di “cura” (Folgheraiter, 2006). Risulta quindi piuttosto difficile, dall’esterno, individuare le specificità delle funzioni dell’assistente sociale, spesso assimilato alle figure socio-sanitarie, oppure ai funzionari amministrativi.

 

Uno sguardo approfondito a partire da una ricerca qualitativa

Per poter gettare uno sguardo maggiormente approfondito sul tema del social work nell’area della non autosufficienza, tra marzo 2016 e aprile 2018, il Centro di Ricerca Relational Social Work dell’Università Cattolica di Milano ha condotto una ricerca1nell’ambito del Distretto di Rozzano, composto da quattro Comuni, con un totale di circa 72.000 abitanti.  La finalità della ricerca è stata quella di descrivere il lavoro degli assistenti sociali con le persone non-autosufficienti e i loro caregiver e le logiche che lo orientano. Questo per arrivare a definire quali aspetti di tale lavoro appaiono più rilevanti nel migliorare la qualità della vita delle famiglie, e andrebbero quindi valorizzati e quali aspetti, invece, andrebbero ridefiniti.

 

La ricerca, di stampo qualitativo, ha visto l’iniziale coinvolgimento delle cinque assistenti sociali del territorio occupate nel lavoro con persone non autosufficienti, cui è stato chiesto di descrivere alcune recenti situazioni in cui hanno visto un significativo miglioramento delle condizioni di partenza, in gergo definiti “casi andati bene”. Sono state raccolte e analizzate 32 situazioni, sia relative a persone anziane che a persone adulte con disabilità.

 

Nella seconda parte della ricerca, insieme alle assistenti sociali, sono stati scelti 8 casi tra quelli descritti in precedenza e si è scelto di ricostruire il percorso attraverso dei focus group a cui sono state invitate a partecipare tutte le persone – professionisti e non – che l’utente e/o i caregiver hanno ritenuto significative nel proprio percorso assistenziale. La scelta dei partecipanti è stata effettuata dai cittadini-utenti, senza prevedere obbligatoriamente la presenza dei professionisti, tanto che in una situazione si è scelto di non invitare l’assistente sociale all’incontro. Pur nella consapevolezza dei limiti di una ricerca qualitativa, che quindi non consente una generalizzazione degli esiti, si ritiene che siano state numerose le suggestioni operative.

 

 

I casi andati bene: situazioni complesse

Il primo aspetto e il più evidente è l’estrema complessità e la gravità delle situazioni in cui si muovono gli assistenti sociali. La ricerca ha avuto origine dalla descrizione di quelli che gli assistenti sociali hanno definito “casi andati bene”. Ma il primo dato evidente è che “caso andato bene” non significa “caso semplice”: la maggior parte delle persone non autosufficienti presenta patologie fisiche, decadimento cognitivo o problemi di salute mentale. Spesso sono persone sole, prive di riferimenti familiari, oppure con figli che, a loro volta, presentano gravi difficoltà, come dipendenza da sostanze o da alcolici, o disagio mentale. Si tratta sovente di persone che hanno necessità di assistenza, ma che non hanno la disponibilità economica per utilizzare aiuti a pagamento. In molte situazioni descritte, le persone anziane sono state vittime di inganni, truffe, raggiri economici, o addirittura di violenze fisiche o psicologiche da parte di altri familiari o di persone che avrebbero dovuto prendersi cura di loro. Quando sono presenti dei caregiver, questi spesso si trovano a dover affrontare un carico molto pesante, anche perché si tratta spesso di persone a loro volta anziane, o impegnate in altre attività di cura.

 

Quindi una prima riflessione emergente è relativa al tema della multiproblematicità. L’etichetta di “multiproblematicità” solitamente viene attribuita alle famiglie con minori nell’ambito della tutela. E’ invece evidente che anche chi si occupa di persone anziane o con adulte con disabilità deve far fronte alle esigenze connesse alla valutazione e alla progettazione insite in situazioni estremamente complesse, dove occorre essere preparati anche nella gestione del rischio e del pregiudizio a carico delle persone più fragili. La situazione appare ancora più delicata, dal momento che ci si relaziona con persone adulte, che conservano integro il loro diritto a decidere per sé. E’ emerso da diverse interviste quanto sia complicato trovare un equilibrio tra il dovere, previsto dal codice deontologico degli assistenti sociali, di rispettare l’autodeterminazione delle persone e il dovere, umano ancor prima che professionale, di agire per proteggere le persone deboli, anche in maniera coercitiva.

 

La costruzione del percorso di aiuto

Osservando le descrizioni dei “casi andati bene” effettuate dalle assistenti sociali si nota come, nella maggior parte delle situazioni, si parta dalla richiesta di una specifica prestazione assistenziale presentata dall’interessato e/o dalla sua famiglia, per arrivare a un percorso di aiuto costruito insieme agli operatori. La richiesta delle persone viene integrata alla valutazione professionale dell’assistente sociale, che tiene conto dell’importanza di rispettare i desideri e i tempi dei suoi interlocutori. In questo modo, l’assistente sociale non impone la propria visione della situazione, nemmeno nei casi in cui è discordante rispetto agli altri, ma accoglie i punti di vista delle persone interessate, in modo che queste si sentano coinvolte nel miglioramento della situazione.

 

Questa tematica emerge chiaramente anche dalle parole dei familiari: il primo contatto col servizio sociale avviene quasi sempre in seguito ad un evento ben preciso, nella maggior parte dei casi un problema sanitario, che porta gli interessati a richiedere un intervento da parte del servizio. Solitamente le persone hanno in mente una prestazione ben definita, che, a loro parere, dovrebbe risolvere o comunque migliorare in maniera significativa la problematica. Non sempre, però, il percorso ipotizzato dagli interessati è percorribile o risolutivo. Tuttavia, nelle situazioni descritte, è evidente come, a partire dalla prima richiesta, sia iniziata una relazione di aiuto, che è andata oltre la concessione o il diniego della prestazione ipotizzata e ha portato ad una definizione condivisa del progetto di supporto.

 

Un aspetto estremamente significativo, evidente in quasi tutte le descrizioni, è la difficoltà da parte delle persone non autosufficienti a riconoscere di aver bisogno di aiuto o, comunque, ad accettare il supporto da parte dell’esterno. Le persone si sentono umiliate dal dover chiedere aiuto, oppure hanno sensi di colpa e vivono la loro condizione come “un peso” per i familiari. Questo ha condotto, in tante situazioni, a rifiutare le proposte di supporto o addirittura a negare la presenza di disagio, pur a fronte di un’evidente condizione di difficoltà.

 

L’accettazione dell’aiuto è frutto, quasi sempre, di un percorso graduale, in cui i familiari e gli operatori dei servizi (l’assistente sociale, ma talora anche altri operatori), accanto ad un avvio dell’assistenza, per così dire, a piccoli passi (ad esempio attraverso l’erogazione del pasto a domicilio, di un intervento per l’igiene della persona, del servizio infermieristico) condividono strategie e riflessioni che, da un lato, aiutano la persona non autosufficiente ad acquisire consapevolezza del bisogno, dall’altro, accompagnano il familiare ad accettare un percorso in cui non sempre è possibile “governare” tutto e in cui talvolta è necessario compiere scelte difficili.

 

Una progettazione individualizzata al di là delle prestazioni

All’interno di questo contesto, l’assistente sociale svolge spesso una funzione che si potrebbe definire di intermediazione socio-assistenziale. Si occupa di individuare le varie prestazioni necessarie, di aiutare le persone a decidere cosa fare e di organizzare concretamente il tutto. Promuove e connette gli interventi a favore del nucleo familiare, sia quelli erogati dal servizio sociale, sia quelli erogati da altri servizi, ad esempio le visite mediche, le pensioni, la documentazione necessaria per ottenere prestazioni specifiche, e mette in comunicazione persone e servizi differenti. Però, dalla descrizione che emerge dalle interviste, l’assistente sociale non si limita a seguire le procedure secondo un approccio burocratico. Ogni intervento “andato bene”, infatti, parte da un’attenta riflessione sulla specifica situazione e viene progettato in maniera individualizzata e il più possibile condivisa con l’interessato e i suoi familiari.

 

In numerose descrizioni, emerge come sia stata la disponibilità dell’assistente sociale a muoversi in maniera flessibile a consentire un esito positivo. Una flessibilità che è andata al di là dei compiti previsti dalle procedure, alle volte l’impegno è andato anche oltre l’orario di lavoro. Questo perché, secondo le intervistate, era necessario non farsi bloccare dalla burocrazia, che poteva condizionare gli interventi al punto da non rispondere in maniera adeguata e tempestiva alle esigenze delle persone.

 

Questo tipo di approccio è ben evidente anche nella descrizione dei percorsi effettuata dalle persone non autosufficienti e dai loro familiari: per loro l’aiuto non corrisponde solo all’erogazione delle prestazioni, sia pure ritenute fondamentali. Soprattutto nel momento iniziale, il vissuto prevalente delle persone è quello della confusione, in quanto non sono chiare le scelte da compiere, i familiari si sentono soli di fronte a una situazione “enorme, ingestibile”, alcuni si definiscono “disperati”. L’intervento dell’assistente sociale si configura come un affiancamento nel decodificare la situazione e nell’individuare tutte le possibili strade, da cui poi avrà origine il progetto vero e proprio. L’assistente sociale viene indicato come qualcuno che aiuta a mettere in fila le cose, a decidere le priorità, a capire quali possono essere i percorsi utili, a farsi strada “nella giungla”, per utilizzare le parole di un intervistato.

 

Anche nelle fasi successive, l’assistente sociale è una presenza di supporto costante: soprattutto per le persone non autonome che vivono sole, il sostegno nella gestione degli aspetti “burocratici” e nelle relazioni con gli altri servizi, principalmente i servizi sanitari, è fondamentale. Gli interessati e i familiari descrivono l’assistente sociale come il volto del servizio: la figura professionale che consente l’accesso alle prestazioni, colui (quasi sempre colei) che veicola “gli aiuti concreti”. Tuttavia, accanto a quelli che si potrebbero definire aiuti materiali o prestazioni, emerge anche l’importanza di trovare un sostegno differente: sentirsi accolti, accompagnati, sostenuti nelle scelte e nella fatica che comporta la propria condizione.

 

La relazione di aiuto: fiducia e cooperazione

Il termine maggiormente ricorrente, nella descrizione dei “casi andati bene”, è fiducia. Un clima di fiducia è ciò che, secondo le assistenti sociali, consente alle persone di far emergere le proprie difficoltà, di sentirsi accolte e quindi di collaborare attivamente. Permette inoltre agli operatori di acquisire una visione più profonda della situazione e di fare ipotesi a lungo termine condivise con l’interessato e i suoi familiari. Dalle interviste è emerso che il percorso di costruzione della fiducia è complesso ed è necessario, per gli assistenti sociali, essere credibili, trasparenti e porsi in una posizione di ascolto. L’iniziativa per costruire un rapporto di fiducia parte dall’assistente sociale, che si sente responsabile della qualità della relazione instaurata con le persone.

 

Non si tratta di un percorso scontato: come già evidenziato, spesso gli operatori si trovano di fronte al dilemma dettato dalla scelta tra il rispetto della volontà dell’utente (che, in molti casi, rifiuta l’intervento) e il dovere di tutelare una persona fragile. Le assistenti sociali ci hanno descritto un paziente lavoro di mediazione tra posizioni differenti assunte dai diversi familiari o anche dai diversi professionisti. E’ un percorso lungo e difficile, che comporta la necessità di valutare attentamente i fattori di rischio e gli elementi di protezione e di considerare diversi aspetti, non ultimo quello economico. Gli assistenti sociali ritengono, tuttavia, che questo atteggiamento dialogico sia imprescindibile e soprattutto coerente col principio professionale dell’autodeterminazione.

 

Dagli incontri condivisi, è risultato evidente come la capacità di lavorare in rete tra famiglia e servizi, sia stato il punto di forza di tante situazioni andate bene: per lavoro in rete si intende la capacità di tutti (famiglie, servizio sociale, volontari, altri servizi) di mettere in campo le proprie risorse per raggiungere un obiettivo condiviso. Ciascuno porta il suo contributo, ma nella consapevolezza di costituire “un tassello” di un quadro più grande e composito. In questa ottica di reciprocità, emerge un tema fondamentale, che è quello della corresponsabilità: nei casi andati bene tutte le persone coinvolte si sentono ugualmente responsabili del percorso progettuale. L’impegno personale e professionale, come già evidenziato, assume una forte connotazione sul piano etico e l’esito dei percorsi riguarda tutti allo stesso modo. In tal senso è particolarmente calzante l’immagine dell’assistente sociale che afferma di avere lavorato “in simbiosi” con i familiari per fronteggiare una situazione particolarmente complessa.

 

Spunti conclusivi: l’assistente sociale tra cittadini e istituzioni

Pur con l’indispensabile premessa che l’aiuto è tale solo se inserito in un’autentica relazione, è utile sottolineare che, pressoché in tutte le interviste, è stata messa in evidenza l’importanza, per le famiglie, di poter ottenere prestazioni e servizi: supporto economico, aiuti domiciliari, inserimento in strutture ecc. Dalla ricerca emerge chiaramente il ruolo di gatekeeping dell’assistente sociale, che tuttavia appare solo parzialmente autonomo nella decisione circa l’erogazione delle prestazioni più adeguate.

 

Nonostante l’analisi si sia concentrata sui “casi andati bene”, sono comunque emersi elementi di criticità, legati alla scarsa disponibilità di alcune risorse, ai vincoli formali che limitano l’accesso, alla rigidità di alcune procedure o regolamenti. In un periodo di ripensamento dei percorsi assistenziali e di tagli alle prestazioni, per gli operatori risulta fondamentale riflettere su come ottimizzare le scarse risorse, pur continuando a garantire alle persone ciò che spetta loro di diritto.

 

Nelle situazioni multiproblematiche, l’assistente sociale effettua una valutazione estremamente complessa, che tiene conto delle risorse dell’Ente da un lato, delle risorse e delle capacità della famiglia dall’altro. Inoltre, non siamo di fronte a una valutazione effettuata dall’esterno e in modo statico: l’operatore ha presente la dimensione progettuale ed evolutiva delle situazioni, in cui egli stesso gioca un ruolo attivo. In altri termini, la predisposizione del piano di intervento avviene a partire dalle richieste delle persone, integrandole con la valutazione professionale, con le risorse disponibili, sia dell’Ente sia di altri soggetti del territorio, e con l’opinione degli altri professionisti eventualmente coinvolti. La progettazione assume una dimensione temporale e si modifica in base ai cambiamenti intervenuti.

 

L’assistente sociale, quindi, non si schiera aprioristicamente dalla parte del cittadino, come un advocate, ma riveste una funzione di mediazione tra le richieste delle persone, i bisogni sottesi alle richieste, le risorse disponibili e le procedure per ottenerle. Questa funzione di mediazione pone gli assistenti sociali in una posizione intermedia tra i cittadini e l’istituzione, istituzione di cui gli assistenti sociali sono parte, ma con cui non si identificano in maniera acritica.

 

Lavoro in rete e integrazione tra servizi

Si potrebbe quindi vedere l’assistente sociale come una sorta di intermediario con lo sguardo rivolto “all’interno”, cioè come colui che accompagna le famiglie a scegliere le prestazioni più adatte e ad organizzare il piano di intervento, combinando assieme le risorse “private” presenti in ciascuna situazione e gli aiuti offerti dall’Ente nei singoli casi. Tuttavia, questa funzione di “intermediazione” è più ampia e la posizione dell’assistente sociale è quella di chi si trova a lavorare non solo tra i cittadini e il proprio Ente, ma anche tra i cittadini e altri enti/servizi/organizzazioni e, spesso, tra i cittadini e le comunità locali. È un compito complesso e faticoso, non sempre visibile dall’esterno, ma fondamentale per costruire percorsi realmente efficaci, come testimoniano tutte le descrizioni raccolte.

 

A volte la collaborazione, sia nell’azione che nella riflessione, si origina in maniera abbastanza spontanea, più spesso deve essere sollecitata e accompagnata dall’assistente sociale, che si trova così a coinvolgere soggetti istituzionali insieme alle reti informali, composte da volontari, amici, vicini di casa, referenti di associazioni,… Favorire una presa in carico condivisa e un lavoro in rete comporta indubbiamente una richiesta di tempo e attenzione superiore rispetto a una progettazione centrata esclusivamente sulle azioni e le risposte istituzionali. D’altro canto, è molto chiaro come le persone siano maggiormente tutelate, gli interventi siano più efficaci e gli stessi professionisti sentano di poter condividere le responsabilità decisionali (Folgheraiter, 1994).

 

All’interno di questo quadro, si segnala come anello debole la collaborazione con gli operatori dei servizi sanitari, frequentemente indicati come poco propensi a entrare in una progettazione che tenga conto anche degli aspetti sociali. Spesso le famiglie indicano come il supporto dell’assistente sociale sia stato fondamentale per aiutarle a relazionarsi con la componente sanitaria dell’intervento. Il tema dell’integrazione socio-sanitaria è molto vasto, qui si può soltanto accennare ad uno spunto di riflessione, emerso da quanto raccolto: la logica clinica, secondo gli operatori intervistati e secondo le famiglie, può e deve convivere accanto alla logica sociale e la cura della salute delle persone vulnerabili passa attraverso la cura dei legami interpersonali.

 

In un contesto in cui, sempre più spesso, il lavoro con la non autosufficienza pone di fronte alla necessità di tutelare la sicurezza delle persone più fragili e di proteggerle da rischi sanitari o da abusi fisici, psicologici o economici, i percorsi più efficaci sono quelli in cui si riesce ad ascoltare il punto di vista degli interessati e dei caregivers, agendo con delicatezza, rispetto e sensibilità. In sostanza, la care, cioè il prendersi a cuore le persone, risulta importante tanto quanto assicurare loro l’assistenza sanitaria e le prestazioni tecniche di tipo sociale, poiché anche le cure mediche e l’assistenza di base alla persona sono maggiormente efficaci se passano attraverso una autentica relazione di aiuto.

Note

  1. La ricerca è descritta nel dettaglio nel volume: Corradini F., Avancini G., Raineri M.L., (2019), Il social work con le persone non autosufficienti. Una ricerca qualitativa sui “casi andati bene”, Erickson

Bibliografia

Burgalassi M. (2012), Promuovere il benessere in tempo di crisi: una ricerca sugli assistenti sociali nel Lazio, Carocci.

Chonody, J. M., Wang, D. (2014), Predicting social work students’ interest in gerontology: Results from an international sample, in Journal of gerontological social work, 57(8), 773-789.

Corradini F., Avancini G., Raineri M.L. (2019), Il social work con le persone non autosufficienti. Una ricerca qualitativa sui “casi andati bene”, Erickson.

Facchini C., a cura di, (2010), Tra impegno e professione. Gli assistenti sociali come soggetti del welfare, Il Mulino.

Folgheraiter F. (1994), L’intreccio fra servizi formali e informali nell’assistenza agli anziani, in Operatori sociali e lavoro di rete, Erickson.

Folgheraiter, F. (2006), La cura delle reti. Nel welfare delle relazioni (oltre i Piani di zona), Erickson.

Raineri M. L., Corradini F. (2019), Linee guida e procedure di servizio sociale. Manuale ragionato per lo studio e la consultazione. Terza Edizione aggiornata, Edizioni Erickson.

Lymbery M., Lawson J., MacCallum H., McCoy P., Pidgeon J., Ward, K. (2007), The social work role with older people, in Practice, 19(2), 97-113.

Webb S., Chonody J., Ranzijn R., Bryan J., Owen M. (2016), A Qualitative Investigation of Gerontological Practice: The Views of Social Work and Psychology Students, Faculty, and Practitioners, in Gerontology & Geriatrics Education, 37(4), 402-422.

 

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