23 Novembre 2021 | Professioni

Dopo la pandemia, la sofferenza e la società che rifiuta il dolore

La medicina, negli anni recenti, è andata occupandosi sempre più del benessere e della felicità dell’uomo, mettendo progressivamente al bando il dolore e contribuendo a rinforzare attese irrealistiche nei confronti della sofferenza. La pandemia ha fatto irruzione in modo inaspettato e devastante, portando alla luce nodi irrisolti e inconsciamente oscurati, già presenti in precedenza, che dopo quanto accaduto non possono più essere ignorati.

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“Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri. Se noi ora cerchiamo cosa significa, è chiaro che non andiamo in cerca d’un tema di psicologia o di psichiatria; appartiene ad un ordine, di natura sua, spirituale. Noi la riteniamo intimamente connessa con la profondità della nostra essenza umana”. Inizia in questo modo il libro straordinario di Romano Guardini dal titolo “Ritratto della malinconia” (Guardini, 1993).

 

Se volessimo ispirarci alle parole del grande teologo per parlare del dolore dovuto alla pandemia Covid-19 potremmo dire che è stato totale, intimamente connesso con la profondità dell’essere uomini, connaturato nel vivere e troppo pervasivo per poterlo lasciare solo nelle mani dei medici. Ugualmente noi medici non possiamo esimerci dal domandarci che ricadute potrà avere sulla professione un evento così drammatico e inatteso, quanto potrà modificare i nostri obiettivi di cura, i nostri atteggiamenti terapeutici, la nostra attitudine con i pazienti.

 

La pandemia è ora arretrata, speriamo in modo definitivo, la quasi totalità delle corsie riservate ai pazienti Covid si sono svuotate e l’ospedale ha ripreso il funzionamento ordinario cercando di riparare ai danni di cui involontariamente si è reso responsabile avendo escluso dalle cure molti pazienti non affetti dalla malattia infettiva, malati con diabete mellito, malattia di Alzheimer, malattie respiratorie croniche e cardiopatia, trattati per troppo tempo come pazienti di serie B (“I pazienti dimenticati”). I medici che hanno ricominciato il lavoro consueto dopo l’impegno nelle aree Covid lo fanno con ferite non completamente rimarginate, ma soprattutto con una disposizione alla cura potenzialmente deformata.

 

Prima della pandemia

Con la disponibilità di una diagnostica sempre più sofisticata e con una tecnologia altrettanto complessa la medicina non solo ha esteso le indicazioni dei trattamenti a condizioni cliniche un tempo neglette (in taluni casi con effetti discutibili sullo “stato di salute”), ma si è caratterizzata sempre più per un alto numero di prestazioni dette “atipiche”, quelle pratiche che non hanno come fine primario il superamento di uno stato di malattia e di sofferenza, ma che hanno a che fare con la valorizzazione della prestazione e della bellezza, l’estetica, la esaltazione della individualità. Atipiche sono le pratiche inerenti alla procreazione (inseminazione artificiale, utero in affitto, etc.), il doping sportivo, ma anche intellettuale (che esaltano l’efficienza ai livelli più alti e esasperano la competitività fra le persone) e quello sessuale, la chirurgia estetica (tranne quella “riparativa” rivolta agli esiti di traumi e di interventi chirurgici). Grazie ad alcune specializzazioni mediche, travalicando la linea che demarca il campo della necessità vitale (opporsi alla malattia) e sconfinando nell’esercizio di potere sul proprio corpo e sulla natura, l’uomo può modellare il suo corpo e anche la sua vita (o illudersi di farlo) oltrepassando la propria individuale umanità e la propria finitezza (Asioli, 2019).

 

Contemporaneamente e in progressivo crescendo, la medicina e la comunità hanno celato il problema della morte: da un lato l’ospedale ha estromesso i morenti, confinandoli in luoghi oggettivamente più attrezzati ad assistere i malati terminali, ma in questo modo abolendo in chi ci lavora la consuetudine col morire e ingenerando l’idea di una medicina onnipotente; ugualmente la società: non si muore nella propria abitazione, si va a morire in reparti dedicati e la “casa” che accoglie i defunti è quella del commiato.

 

Dolore e sofferenza sono stati altrettanto banditi: l’ospedale deve essere senza dolore. Il dolore è visto come fallimento o incapacità del medico, non come conseguenza della malattia. La soglia del dolore è crollata: farmaci originariamente utilizzati nella medicina palliativa vengono diffusamente impiegati su persone sane.

 

Anche psicologicamente si è diffusa la convinzione che tutto possa essere superato, che la capacità di reagire (resilienza) dipenda da noi (“dipende da te”), che si debbano trasformare le esperienze traumatiche in catalizzatori di prestazione. La felicità, l’esistenza priva di dolore, è pensata come una sorta di diritto e “la sofferenze uno scandalo”. Il dolore è interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione, delle performance e privato di qualsiasi possibilità di espressione: viene evitato (lo si evita ai nostri figli, ai nostri cari), condannato a tacere (Han, 2021). Ciò che è negativo deve essere eliminato.

 

Attraverso questa strada, la medicina (occupandosi sempre più del benessere, della felicità e dell’ottimismo) ha contribuito a rinforzare attese irrealistiche e immagini deformate, sia nei confronti della medicina stessa che nei confronti della sofferenza.

 

La pandemia

Per meglio ricordare cosa sia stata trascrivo alcuni appunti del mio diario (Rozzini, 2020):

  • “La sindrome da distress respiratorio acuto da SARS-COV-19 è mortale. Per il 50% delle persone anziane la malattia è terminale e lo è nel 100% nei casi di ultra 85enni con demenza (nella seconda e terza ondata la mortalità si è ridotta, ma ugualmente è rimasta superiore al 30%)”.
  • “Nel mio ospedale non è mancato nulla e sono stati attivati sino a 80 letti di terapia intensiva. Ma di Covid sono morte 339 persone (nella seconda ondata, dai primi di ottobre 2020 alla fine di maggio 2021 i morti saranno 310)”.
  • “L’epidemia ha messo di fronte tutta la nostra impotenza medica al cospetto della potenza sbaragliante della morte. Fra la vita e la morte non esiste competizione: siamo mortali. Eppure, molti, anche oggi, pensano che la morte sia il fallimento della cura, o la conseguenza delle mancate cure. La verità è che anche la medicina “migliore” non sarà mai in grado di sconfiggere, definitivamente, la morte. Perché le malattie mortali esistono e anche le reti socio-sanitarie più evolute e le strategie di cura più sofisticate non sono e non saranno mai in grado di produrre immortalità. La morte non si può sconfiggere”.
  • “In mezzo a tanto disorientamento, talora mi capita di sentirmi presuntuosamente avvantaggiato, credo di avere le nozioni per sapere chi ha probabilità di sopravvivere se riceve le cure adeguate e chi non ce la farà pur con le cure più intensive, che fortunatamente finora non sono mai mancate; credo anche di conoscere quanta salute potrà residuare quando un paziente ce l’avrà fatta. Questa sicurezza però talora va in crisi e i dubbi diventano prepotenti”.
  • “In tre giorni, sono morte 56 persone. In obitorio, dove ogni cadavere rimane almeno 48 ore si sono contate circa 40 salme. La maggior parte già deposto nelle bare, chiuse, in terra, nelle camere mortuarie. Impressionante la fila di barelle con i cadaveri della notte. Sulle bianche lenzuola che li avvolgono, sacchi di plastica nera con i pochi effetti personali. Attendono di entrare nella stanza in fondo al corridoio, dove due addetti delle onoranze funebri li metteranno nelle bare. Non l’abito bello, non una corona tra le dita, non un fiore. Li avvolgerà il sacco verde del recupero salme. Queste persone sono morte lontano dai cari, questi cadaveri, nessun familiare li vedrà più”.
  • “Sono angosciato dall’idea che quando questo tempo finirà la “mia medicina, la geriatria” non avrà più medici che la vorranno o sapranno fare. Dopo aver visto quello che stiamo vedendo, temo che un paziente che verrà da noi con un problema minore (ad es. la perdita della memoria, o il cambio di un farmaco per il colesterolo) non potrà avvalersi della nostra attenzione, o per lo meno di quella necessaria. E poi, chi avrà l’umana pietà di provare dolore per la morte di qualche vecchio in casa di riposo dopo aver visto il decesso di giovani, e di molte persone attive e robuste?”

 

Nodi irrisolti

La pandemia ha portato alla luce nodi irrisolti e inconsciamente oscurati, già presenti nel periodo pre Covid, che devono essere sbrogliati.

 

Il primo riguarda la finitudine del vivere. Durante la pandemia, ogni giorno ci è stata sbattuta in faccia la fragilità del corpo umano e la mortalità che si nasconde dietro l’angolo (non l’immortalità!). Siamo stati costretti a stare nel caos e a comprendere più profondamente le esperienze dei pazienti con malattia grave. Questi mesi hanno ricordato a tutti che la morte e la malattia sono aspetti inevitabili della vita.

 

Per più di un anno la sopravvivenza ha assunto un valore assoluto e tutte le energie sono state giustamente adoperate per salvare la vita, le vite. La sopravvivenza dei pazienti è stato l’imperativo obbligato dei medici Covid non la loro qualità della vita: i malati in ospedale, e nelle RSA, privati dalla possibilità di incontrare i familiari, di averli vicino anche nei momenti del trapasso, ne sono stati la testimonianza più cruda.

 

In secondo luogo, la pandemia ha reso di nuovo visibile la morte da noi meticolosamente rimossa o sfrattata. Davanti alla pandemia, anche la radicale limitazione dei diritti fondamentali è stata accettata senza discussioni. La vita è stata ridotta a puro processo biologico da ottimizzare, ha perso qualsiasi dimensione meta-fisica. La vita come pura sopravvivenza. La salute è diventata la “saturazione di O2”, ciò che si può misurare, contare. La nostra vita ridotta a processo biologico.

 

Molti pazienti anziani sono morti nel modo sbagliato. La lotta per la sopravvivenza si è contrapposta alle preoccupazioni per la buona vita. Non più abituati a considerare “la vita” la si è confusa con i “parametri”.

 

Il virus è stato lo specchio della nostra società e ci ha posto di fronte alle criticità irrisolte: la brutalità della malattia ha mostrato la fallacia di una medicina che ci vorrebbe immortali e l’importanza della dimensione affettiva del vivere, dei sensi e del senso, della spiritualità, dell’ineluttabilità della sofferenza.

 

È mia convinzione sia necessario riprendere ad accogliere il dolore, a ospitarlo e a elaborarlo, ad accettarlo a livello esistenziale. Molti medici continuano a fidarsi del loro sentire, del loro percepire gli altri secondo una modalità affettiva. Solo da un ascolto attento del sentire, con tutto ciò che esso ha di non ancora compreso, ma affettivamente percepito e inconsciamente presentito, può nascere un’autentica elaborazione dell’esperienza.

 

Ora, che abbiamo dovuto accettare morte e dolore, che abbiamo più strumenti ed esperienza per riflettere, dobbiamo calare nella prassi quotidiana, specialmente quella che riguarda le fragilità e la cronicità, le nozioni apprese evitando gli errori del passato e costi personali ingiustificabili. Abbiamo bisogno di storie, non solo di numeri. Nel lungo termine potrebbero trarne vantaggio la nostra capacità empatica, la nostra prassi clinica e le nostre modalità assistenziali.

 

“Adesso che so di avere un cancro alla prostata, diffuso ai nodi linfatici e alle ossa, cosa voglio in un dottore? direi che voglio un dottore che sia un «lettore puro» della malattia e un buon critico della medicina. Mi aggrappo alla mia fede nella critica letteraria, la disciplina principale della mia vita. Inoltre mi piacerebbe un dottore che fosse non solo un eccellente medico del fisico ma anche un po’ del metafisico. Qualcuno che sappia curare il corpo e l’anima. C’è un sé fisico che è ammalato, e c’è un sé metafisico che è ammalato. Quando moriamo la nostra filosofia muore con noi. Per questo voglio qualcuno che abbia un penchant per la metafisica a tenermi compagnia. Per avere accesso al mio corpo il mio dottore deve arrivare al mio carattere. Deve passare attraverso la mia anima – non solo attraverso il mio ano. Quella è la porta di servizio della mia personalità” (Broyard, 2008).

 

La pandemia ha fatto emergere criticità non più sostenibili e messo le premesse di cambiamenti radicali per una professione che possa continuare a curare il fisico non più dimenticando il metafisico.
Non credo succederà, però mi piace pensarlo.

Bibliografia

Asioli F. (2019), La relazione di cura. Difficoltà e crisi del rapporto medico-paziente, Franco Angeli.
Broyard A. (2008), La morte asciutta, BUR.
Guardini R. (1993), Ritratto della malinconia, Morcelliana.
Han B. (2021), La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi.
Rozzini R. (2020), Un ospedale in trincea, Morcelliana- Scholé.

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