30 Novembre 2021 | Domiciliarità

AB (Alfabeto Badanti). Appunti per una autobiografia riflessiva

Con lo sguardo di chi si trova a vivere una realtà inaspettata e allo stesso tempo l’occhio “esperto” dello studioso che conosce il nostro sistema di welfare per i non autosufficienti, l’autore offre lo spaccato di vita di un figlio che ha assunto il ruolo di caregiver della propria anziana madre. Il racconto si snoda seguendo le lettere dell’alfabeto, in un alternarsi di osservazioni sul proprio vissuto e di ragionamenti di ampio respiro sulle incongruenze del sistema dei servizi.

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Bassa pianura padana, autunno 2021.

 

Chi scrive è un sociologo, che da tempo, insieme alla moglie e a qualche supporto esterno, segue sua mamma. Che negli ultimi mesi ha subito un peggioramento, e noi con lei.

 

Quello che segue è una specie di diario, parte in soggettiva (da qui l’utilizzo della prima persona singolare, le frasi virgolettate), parte in terza persona (le parti che si riferiscono all’interazione fra esperienza diretta e i sistemi di welfare), di una esperienza tuttora in corso come “caregiver familiari”, che altro non sono che figli (e nuore) che hanno intrapreso, per scelta consapevole, la strada della cura a domicilio di una persona non autosufficiente.

 

Mia mamma, quasi 93enne, nello specifico va nutrita, lavata, cambiata, medicata, spostata dal letto alla carrozzina e viceversa. Nei momenti di lucidità sorprende per come risponde a quesiti sui cruciverba. “il becco dell’aquila?” “rostro” (!), dato che la sua alfabetizzazione è stata in gran parte merito delle “parole crociate” (che bella definizione) compilate nelle notti passate a lume di candela in una garitta vicina al fiume Oglio, in attesa di abbassare o alzare le sbarre del passaggio a livello negli orari previsti, unica compagnia “la domenica del corriere”. Fino a dicembre dello scorso anno viveva a dieci chilometri dalla nostra residenza, con alternarsi di badanti e nostro. Poi, sistemato un monolocale con servizi attrezzati nel giardino della nostra residenza, quella è diventata la sua e nostra abitazione.

 

A

APNEA (SOCIALE). Termine coniato durante un intervento di formazione con una cooperativa sociale veneta. Applicabile alle relazioni che “sfumano” durante il badantato; ogni invito a cena, ogni uscita con amici ed amiche, parenti, viene forzato all’incastro di sostituzioni. Così che la cerchia si restringe agli impegni indifferibili, a coloro che sono più prossimi, che condividono, che comprendono (vedi anche alla voce “rancore”).

 

B

BACI. Il bacio della buonanotte, e altri baci sparsi nell’arco della giornata sono fra i pochi contatti fisici non finalizzati all’igiene, alla manipolazione del corpo. Regalano sorrisi. Ecco perché rimaniamo a casa.

 

C

CAPITALE SOCIALE. Utilissimo (anche) per rintracciare badanti, chiedere consigli, appoggiarsi, orientarsi, chiedere aiuto. Non bastano gli sportelli, i parroci, le assistenti sociali: servono voci fidate capaci di riportare le esperienze pregresse, le valutazioni su queste persone che entreranno in casa, a cui affidare i propri cari.

 

COSTI. Quanto costa tenere a casa una persona non autosufficiente? Se convivente, circa 1.500 € lordi, a cui aggiungere tfr, il costo delle sostituzioni quotidiane (due ore tutti i giorni, più mezza giornata il sabato, una notte, la domenica e tutte le festività, le ferie, le malattie. Quindi aggiungere (almeno) altrettanto, oltre a vitto e alloggio (e le spese per i farmaci, gli eventuali integratori, le medicazioni). Se non convivente il costo aumenta: 25 ore a settimana comportano un costo mensile di 1.000 €: assumendo due persone sono 2.000 € al mese, avendo scoperte alcune fasce orarie, tutte le notti e i giorni festivi, quindi la stima è di oltre 3.000 € al mese. Se viene attivato un SAD (ad esempio mezz’ora al mattino per l’igiene personale) la compartecipazione ai costi è minima, e le prestazioni sono puntiformi, e ovviamente serve sempre ci sia qualcuno ad aprire, accompagnare l’operatore (operatrice), quindi tanto vale provare a cavarsela da soli; per non parlare dell’ADI, attivabile per prestazioni di breve durata (infermiere per fleboclisi per sei cicli, fisioterapista per sei interventi). Chiaro che un ricovero in una struttura protetta costa meno; quindi la domanda è: come mai, come sistema di welfare, abbiamo reso economicamente competitivo il ricovero e non la domiciliarità, che, laddove sia possibile, garantisce una migliore qualità della vita?

 

CONFLITTI. Dove si scaricano le tensioni, le fatiche, le incomprensioni, i turni? Sulla coppia, e in ogni caso sul/familiare che cura. Ecco un tema di tutto rispetto, per il quale forse nemmeno basta un gruppo di auto mutuo aiuto. Come si ripercuote sulla vita di coppia, e più in generale sulle relazioni affettive, il lavoro (estenuante) di cura? Piccolo inciso: sono scomparsi i cosiddetti “ricoveri di sollievo”, della durata di 15-20 giorni, presso le RSA. E non esistono luoghi, momenti, di recupero di sé. Come si trasformano i rapporti di coppia quando si diventa “colleghi”, quando al capezzale ci si scambiano frasi “da OSS”?

 

CASE. Casa nostra è come un lungo corridoio che si affaccia su due strade parallele, a circa centro metri di distanza una dall’altra; le parti abitate sono alle due estremità, e in mezzo un giardino, dei rustici, un cortile. A un capo risediamo noi (risiedevamo noi), all’altro mia mamma, e al piano di sopra nostro figlio, con abitate le due estremità. Una si affaccia sulla via centrale del paese, l’altra su una strada secondaria. La casa in cui risiede formalmente mia mamma è una villetta bifamiliare, con tanto di terrapieno, e disposta su tre piani oltre a un seminterrato: ora ci abita un gatto, che vado a trovare tutte le sere. Casa nostra ora è in stato di semi abbandono; il frigorifero langue, le scorte scarseggiano, persino i gatti si lamentano. Perché di fatto abitiamo con mia mamma, e il frigo, le scorte, anche una gatta trovatella, vivono dall’altra parte del cortile. Sono solo 100 metri di distanza, ma sembrano molti di più. Inoltre, il frigorifero e le scorte sono per così dire in comune con le altre persone che ci supportano, con tutti gli equivoci del caso: manca sempre qualcosa, o altro viene sprecato, o utilizzato in modi diversi da come lo pensavamo. In altre parole, è tutto un traslocare cibi e oggetti da una estremità all’altra della casa, salvo poi accorgersi che manca sempre qualcosa (o che questo qualcosa è stoccato dalla parte sbagliata della casa). Svuotamento di una e riempimento dell’altra: pranziamo sempre nel monolocale, intanto che mia mamma dorme: salvo incastri niente spettacoli, o riunioni, la sera dopocena, che per noi è il divano intorno alle 22.

 

D

DONNE. Luogo comune? Il lavoro di cura è appannaggio (soprattutto) delle donne. È’ un lavoro misconosciuto, retribuito poco e spesso male, immanente, che coinvolge in maniera potente la sfera relazionale/emotiva. Che implica il sapersi sacrificare. Se fosse riconosciuto socialmente ed economicamente potremmo affermare che, sì, è un lavoro che le donne sanno svolgere meglio?

 

DISCREZIONALITÀ’ (vedi anche alla voce “farmaci”). Agire con discrezionalità: valutare i movimenti, gli arrossamenti, la preparazione dei pasti, i giorni di “mancato scarico”, l’attivazione di supporti esterni (badanti, SAD, ADI). Senza che nessuno abbia formato, informato, accompagnato. Le famiglie andrebbero prese per mano, orientate, accompagnate.

 

E

EMERGENZE. Vanno valutate da sé, mobilitando, se del caso, il 118; questo sì molto efficiente. Anche perché, nonostante la suggestione lombarda della “presa in carico del paziente cronico”, se non trovi un medico MMG particolarmente disponibile con il tuo medico puoi parlare solo negli orari prefissati e su appuntamento; quindi, per gran parte del tempo e delle questioni, devi sbrigartela da te.

 

ERRORI. “Quante gocce la hai dato? No, le hai dimenticate? E adesso? Ecco, per colpa tua adesso ricominciano i deliri” (vedi anche la voce “conflitti”, “discrezionalità”, “geriatri”, “farmaci”)

 

F

FRUSTRAZIONE (fallo di). Arrabbiarsi per le reiterazioni, i peggioramenti, le mancate risposte, i versi, le sveglie notturne. Arrabbiarsi, scuotere l’altro, e poi, passata la furia, chiedersi (chiedermi) “ma cosa sto facendo?”

 

FARMACI. Trovare l’equilibrio corretto fra i farmaci, specie se nella versione psico- (ansiolitici, anti parkinsoniani, e simili), è faccenda complessa; appena trovi un punto di equilibrio, tac! Una piccola variabile e tocca ridefinire i dosaggi, le tempistiche. Troppi? Mamma dorme; troppo pochi? Agitazione continua. E le variabili sono micro-cose, interne-esterne-intorno: da “non si scarica” (variabile interna), a “sta per cambiare il tempo” (variabile esterna), fino a “l’ho incalzata troppo, e si è messa a piangere” (variabile “intorno”, o relazionale).

 

G

GERIATRI (e psico-). Preziosi. Eppure anche loro procedono per tentativi, “perché le persone sono diverse”, “il metabolismo rallenta”, e “non è detto che la stessa molecola (o principio attivo) sortisca lo stesso effetto a ciascuno”. Quindi tocca a chi bada adattare, pur sempre con una supervisione, i farmaci di riferimento. Nel nostro caso la cura ipotizzata da mia moglie è stata confermata, e solo leggermente variata nella posologia, dal geriatra. Serve inoltre spiegare alla badante T. che le gocce servono alla mamma per stare meglio, nonostante lei continui ad affermare che “non è d’accordo”

 

H

HOSPITAL. Durante la pandemia abbiamo visto traballare i sistemi sanitari meno attrezzati rispetto alla dimensione territoriale; il caso lombardo è al riguardo emblematico, dato il suo sbilanciamento a favore del mondo delle cliniche; abbiamo visto aumentare, insieme alle diseguaglianze, l’isolamento delle persone più fragili, nonostante il prodigarsi di operatori sociali e sanitari, e fra questi molti medici di famiglia. Il carico familiare, se possibile, è addirittura aumentato, con un elemento paradossale: dovendo comunque rimanere in casa a curare i propri cari, il lockdown non ha che equiparato chi era in ogni caso recluso con chi avrebbe potuto muoversi all’esterno delle abitazioni. Una ben magra consolazione (vedi anche alla voce “oggi”).

 

I

ISTITUZIONI TOTALI. Dobbiamo a Goffman (2010) questa definizione. A differenza degli ospedali, nei quali, prima della pandemia le visite erano già regolamentate, le RSA (o ricoveri, ospizi, case di riposo) sono sempre state tendenzialmente aperte. Parenti, volontari, “badanti”, avevano accesso quasi libero alle strutture, e potevano intrattenersi con i loro cari, con le persone assistite, in momenti diversi della giornata, per imboccare, portare in giro, parlare. Per il personale questo implica(va) l’essere costantemente on stage, sulla ribalta (avrebbe detto sempre Goffman). Non disponendo di ripari, di un backstage, questa esposizione ha aumentato i fattori di stress “lavoro correlati”. Non sempre il supporto dato dai parenti è (stato) interpretato come un aiuto: a volte, in alcuni casi spesso, è stata rappresentata più o meno consapevolmente come una invasione di campo, una interferenza rispetto al proprio agire. Da questo punto di vista la pandemia, con le relative chiusure, ha riportato dentro una dinamica più solitaria, ma anche più protetta, le relazioni fra personale e figure esterne, per così dire “ospedalizzando” una routine che era sì ambivalente ma quantomeno “osmotica” (Goffman – 2003 – l’avrebbe definita “porosa”, che rendeva attraversabili i confini delle strutture, e negoziabili le relazioni che si svolgevano al proprio interno). Cosa rimarrà di questa esperienza nelle strutture per anziani non autosufficienti?

 

L

LAVORO. Nello specifico: come trovare energie, stimoli, per riuscire a lavorare? Per chi è casalingo/a si tratta di una questione di lucidità; energetica, appunto. Per chi continua ad avere un impiego la questione è decisamente più ingombrante. Il mio ultimo anno di lavoro come funzionario pubblico è trascorso quasi totalmente usufruendo del congedo straordinario. Bene per la conciliazione; male dal punto di vista professionale (a un certo punto i colleghi si erano persino dimenticati di assegnarmi una postazione). La pandemia ci ha insegnato che il tele lavoro può rendere conciliabili i due ruoli, di assistente e di professionista. Ma a che prezzo? Come è possibile rimanere “agganciati” a ciò che si stava seguendo “prima” che sopravvenisse l’incidente della cura?

 

M

MUTUALITÀ. Servirebbero gruppi di auto aiuto fra familiari. Al fine di confrontarsi, sfogarsi, scambiarsi esperienze, raccontarsi le fatiche e le piccole gioie, resistere in modalità antifragile confermandosi reciprocamente la scelta del mantenimento a casa.

 

MORTE. Sì, ogni tanto penso che potresti morire; e penso che stiamo facendo il meglio per te, per questo tempo lungo, intenso. Penso anche che non so quanto dureremo.

 

N

NOTTI. Le notti sono un azzardo, non sai mai se passeranno tranquille o se ci sarà da intervenire. In questo secondo caso, il giorno dopo è come scomparisse dalla scena dei giorni possibili, dominato dal sonno.

 

O

OGGI. In una vignetta della serie “pan de mia” (Ferrari, 2021) scrivevo “schiacciati dal tempo presente”, un oggi perpetuo, fatto di gesti che si ripetono, una routine che preme. L’esperienza della cura è equivalente ad un lockdown perenne.

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P

PIOGGIA. Tanto vale che piova, se devo rimanere chiuso in casa. Il sole, il bel tempo, sono fuori; all’esterno, e fuori dalla mia portata.

 

PISANA. Mia moglie, senza di cui tutto questo nemmeno esisterebbe.

 

PRIVATIZZAZIONI. Non entro nella questione del “quasi-mercato” e della voucherizzazione del lavoro di cura. Al riguardo propongo un disegno, pubblicato nel 2012 a corredo di un saggio uscito sulla rivista Autonomie locali e servizi sociali, che sintetizza la solitudine di colui/colei che avevo definito come “voucher man”, ovvero della impossibilità di voucherizzare la risposta alla solitudine.

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La persona stilizzata nel disegno si trova a poter scegliere fra diversi soggetti (cooperative o altro) accreditati per erogare prestazioni domiciliari, ma non trova risposte alla questione del proprio isolamento, questione che si riferisce sia a sé come a chi se ne prende cura. Ecco, quando realizzai il disegno non avevo idea che sarebbe capitato anche a me.

Nel territorio cremonese capita che una RSA si lanci sul mercato offrendo un servizio di assistenza domiciliare per persone affette da demenza Proposta quanto mai azzeccata. Ma… privata. La visita della geriatra al domicilio, compresa la stesura di un PAI, costa oltre 100 €, e gli interventi successivi da parte dei membri dell’equipe sono anch’essi a pagamento. Cosa racconta questa proposta? Che c’è un vuoto, nel sistema pubblico di supporto alla domiciliarità, e che questo vuoto viene riempito da un soggetto privato.

 

Q

QUANTO DURA? Ecco uno degli aspetti forse più stringenti della vicenda: quanto durerà? E quanto dureremo noi, e come ne usciremo, mal di schiena a parte? “fine cura mai”, parafrasando il linguaggio carcerario. Oppure sì, fine cura per fine vita, o per scelte costrette ad altro. Anche questa convivenza con l’incertezza estenua.

 

R

RANCORE. Quanto rancore (vedi alla voce “emozioni”) verso il mondo esterno, le feste, gli incontri con gli amici, i viaggi. Viene da condividere solo con chi condivide la stessa esperienza. Non è forse così per tutte e tutti coloro che vivono con persone fragili, difficili? Forse (forse!) la differenza sta nel fatto che in questa situazione capita in una fase della vita come un inciampo, una sorpresa. Prevedibile, eppure non pensata.

 

RICOVERI. L’ultimo ricovero è stato devastante. Una settimana in ospedale, causa accumulo di farmaci, e poi venti giorni in una struttura riabilitativa. Ma un mix di assenza di contatti (le videochiamate come unica forma di presenza, durata media meno di un minuto, perché creavano più ansia che beneficio), e due visite in totale con tanto di scafandro causa covid-19. Risultato: mamma lasciata sola tutto il giorno in zona “grigia” (nonostante arrivasse da un ospedale), riabilitazione rarefatta, perdita dell’uso della dentiera, comparsa di spasmi, piaga da decubito causata da candidosi non curata. Prima del ricovero mia mamma si nutriva da sola, con alimenti morbidi, alla fine del ricovero questa relativa autonomia se n’era andata.

 

RISVEGLI. Citando Oliver Sachs (1987), capita (sta capitando, mentre scrivo) di vedere risposte agli stimoli (“come si chiamavano i nostri vicini di casa”? “Tininini”: risposta corretta!), calare gli spasmi nervosi, tornare il desiderio di scrivere. Sono solo scarabocchi, ma che concentrazione nel tracciarli. Alla domanda “cosa stai scrivendo?” lei ha risposto “ricette” (il suo quaderno di ricette lo custodisco come un cimelio prezioso). Poi, dopo qualche giorno, di nuovo, il silenzio, gli spasmi, la sindrome della tela di penelope.

 

RICONOSCIMENTO. È dal 2014 che la Regione Emilia Romagna riconosce il ruolo del caregiver familiare “come un elemento della rete del welfare locale”, e assegna agli operatori di Comuni e AUSL il compito di assicurarne “il sostegno e l’affiancamento necessari a sostenerne la qualità dell’opera di assistenza prestata” Legge Regionale 28 marzo 2014, n. 2, art.3, comma 1.). È un tema cruciale, che altre Regioni hanno adottato (Pesaresi, 2020) e che contribuisce a rendere visibile un segmento cruciale del welfare, togliendo dall’isolamento il lavoro di cura domiciliare, “risocializzandolo”, creando le premesse per un miglioramento del benessere delle persone curate e di chi le cura, coinvolgendo, non solo simbolicamente, le comunità locali. Un approccio che modifica anche il modo di lavorare per gli operatori sociali, e che può contribuire a spostare il supporto alla domiciliarità da una dimensione prestazionale (la somma di SAD, ADI e poco altro) ad una dimensione relazionale, potenzialmente generativa. Per il lavoro sociale e per il lavoro di cura.

 

S

SONNO. Riuscire a dormire entrambi (badante e badata) è un obiettivo da raggiungere.

 

STANCHEZZA. Sbadigliare sempre, anche, soprattutto, nelle pause.

 

STRESS. Direttamente proporzionale allo stato di salute, alle risposte ricevute, all’esito degli stimoli.

 

SPETTACOLI. Solo se di pomeriggio, e non tutti i pomeriggi.

 

SPID. Per poter contrattualizzare una badante serve lo spid. Potremmo discutere sul fatto che l’INPS, con la sua platea di anziani non digitalizzati, opti per servizi online, spingendo a rivolgersi a servizi quali patronati e CAF. Ma serve ottenere questa autenticazione digitale, e se la persona committente non è in grado di firmare, né di recarsi presso le poste per ottenerlo gratuitamente corre in soccorso il mercato, in questo caso la tabaccheria del paese. La proposta della CGIL di assegnare questo ruolo ai familiari sembra ragionevole, e senza costi. Eppure non risulta ad oggi approvata.

 

T

TOTALIZZANTE. “Fare i badanti” è un’esperienza totalizzante: chiusi, reclusi, in una relazione duale; fuori rimangono gli affetti, il mondo, gli stimoli.

 

U

UMANIZZAZIONE DELLE CURE (vedi anche alle voci “istituzioni totali” e “ricoveri”). È’ come se, a causa di un elemento esterno (il virus, la pandemia) la riflessione, e ancor più la sperimentazione, di percorsi di umanizzazione della medicina, fossero sospesi. Sappiamo che rispondere in modo emergenziale alle emergenze organizzative (non quelle individuali/familiari, vedi alla voce) generi mostri, con le sembianze di soluzioni di emergenza permanente. Un ossimoro solo apparente. E possa affossare possibili innovazioni. Il pericolo insomma è che invece di migliorarci rimaniamo, come sistema di welfare, schiacciati su poche rassicuranti routine, invece di ritessere il filo che stava creando nuove opportunità. E come ci insegna Sennett (2014), le routine rassicurano, ma alla lunga, abbrutiscono.

 

V

VESTITI. Nella struttura riabilitativa (vedi alla voce “ricoveri”), chiusa agli accessi, la consegna del “pulito” e il ritiro dello “sporco” avveniva in due momenti della settimana: il martedì pomeriggio e il sabato mattina (con qualche elasticità grazie agli operatori, nel caso di parenti distratti). La scena era questa: portavi una sacca, un borsone, con i vestiti puliti, l’oss ne raccoglieva tre-quattro, saliva in reparto, e scendeva con un’altra sacca che conteneva lo sporco. Code di parenti nel cortile, e OSS cariche di sacchi con il nome degli ospiti, ferme sulla porta di accesso a leggere ad alta voce i cognomi degli ospiti così come riportati sulle bustone. L’appello aveva un che di surreale, era come partecipare alla distribuzione di cibo razionato durante la guerra, così come me lo raccontò mia mamma. Ad essere razionata era la dimensione relazionale, pressoché scomparsa (una vista alla settimana, con tutto il vestimento del caso; e una videochiamata la settimana, che se capitava quando lei dormiva o nei numerosi momenti di poca lucidità, si rivelava decisamente inutile; anzi peggio, frustrante per entrambi). Impossibile, poi, non avendo accesso alle stanze, realizzare un inventario dei vestiti: quanti erano rimasti a disposizione, cosa mancava? Nel momento delle dimissioni l’armadio nella stanza era strapieno di vestiti, sui quali con pennarello era stato riportato il cognome della persona cui erano destinati (si sa mai vadano persi, o scambiati, e nonostante questo…): persino sui calzini.

 

VEDOVE (il club delle). Dentro l’invecchiamento c’è il tema della vita, spesso più lunga, delle donne. Erminia, Maria, Enrica, Caterina, Pina. Ognuna, amica, parente, vive da sola in una casa grande, ormai troppo grande, spesso scomoda, con scale; create almeno un quarto di secolo fa, in condizioni di autonomia, e ora difficili da gestire, e soprattutto separate fra loro. Possibile che non riusciamo a pensare a nuove forme dell’abitare, in cui le donne (e non solo) riescano a sostenersi reciprocamente, in un clima di fiducia, con qualche aiuto esterno? Come possiamo convertire il modello di sviluppo delle villette a schiera in progetti di abitare sostenibile, sia su piano fisico (senza inciampi, ostacoli) che sul piano relazionale, diversi dalle strutture a custodia prevalente? E, in parallelo, una seconda questione: possibile che ci accorgiamo solo oggi, di come questa sia una questione improrogabile, dato l’allungarsi dell’età della vita, nonostante la falcidie del covid? Di quante badanti necessiteremo fra dieci anni (ammesso che questa sia una soluzione plausibile, accettabile, sostenibile)?

 

Z

ZONA GRIGIA (vedi sopra: ricoveri). È l’area in cui vengono tenuti i nuovi accessi sia negli ospedali che negli istituti riabilitativi, separati dagli altri ospiti. Il fatto che sia retribuita in misura maggiore dalla Regione senz’altro non implica un prolungamento dei ricoveri in quest’area (con quel che ne segue in termini di mancanza di relazioni con il mondo esterno). Forse. Per mia mamma questo ha significato una settimana di zona grigia in ospedale e ulteriori quindici giorni di zona grigia nella struttura riabilitativa. Riabilitazione ai minimi termini, e soprattutto chiusura, nonostante i protocolli del momento segnalassero timide riaperture. Beh (vedi alla voce “risvegli”), sono serviti tre mesi a casa per recuperare un poco di presenza.

 

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