3 Febbraio 2022 | Professioni

La capacità di aiutare gli altri: tra compassione e distacco

L’equilibrio personale e la consapevolezza delle proprie emozioni sono indispensabili nella relazione di cura, in cui chi presta aiuto spesso non ha un “ritorno” in termini di riconoscenza e gratitudine da parte di chi lo riceve. Nel caso di persone con demenza o malati terminali, chi cura non può neppure provare la soddisfazione derivante dal miglioramento o dalla guarigione del paziente. E’ indispensabile, quindi, che chi offre aiuto riesca a porsi ad una distanza “ottimale” rispetto a chi è aiutato, evitando sbilanciamenti verso l’indifferenza o l’ipercoinvolgimento emotivo.


A differenza di tutte le relazioni che instauriamo con gli altri nelle quali cerchiamo e ci attendiamo reciprocità, la relazione di cura si caratterizza per la mancanza di un ritorno, mancanza di cui non siamo sempre così sufficientemente consapevoli. Chi presta aiuto agli altri per dovere professionale, si offre “unilateralmente” e non dovrebbe attendersi alcuna restituzione. Una relazione di questo tipo è dunque molto asimmetrica, sbilanciata, “squilibrata” e per queste ragioni richiede un rilevante sforzo emotivo e anche notevoli doti di equilibrio personale. L’osservazione che possiamo compiere ogni giorno su molti professionisti ci mostra quanto siano frequenti situazioni di criticità emotiva da parte del personale impegnato nell’assistenza (Asioli, 2019). C’è inoltre un aspetto che rende la relazione di cura ancora più gravosa rispetto agli atteggiamenti di dedizione spontanea e occasionale: il “fattore tempo”. La prestazione professionale di aiuto, infatti, esige continuità, sistematicità e ci viene richiesta la capacità di offrirla quotidianamente e – per di più – a molte persone.

 

Dedizione senza ritorni

Già nell’espressione stessa “prendersi cura” c’è un nucleo paradossale e potenzialmente conflittuale (Nahon, 2009). In realtà la cura si (care-giver, appunto) ma – seppure implicitamente – qualcosa ci riprendiamo sempre indietro o, almeno, desidereremmo che ci ritornasse indietro. La fatica della cura è sostenuta dalla capacità di chi la dà, ma è anche mantenuta e rinforzata dal piacere e dalla gioia dei risultati che si ottengono. Così una madre, per allevare il suo piccolo, nutrirlo materialmente ed affettivamente, ha bisogno di gesti di ri-conoscenza da parte del bimbo. Sappiamo quali disastri possano colpire questo legame, così forte e ma anche così delicato, quando il bimbo non è in grado, a sua volta, di alimentare il rapporto attraverso segnali anche impercettibili, ma precisi (sguardi, sorrisi, movimenti), come accade nel caso di alcuni gravi disturbi neonatali. Questi “ritorni” funzionano come stimoli a supporto della dedizione materna. Il premio per la fatica dell’accudimento materno è rappresentato dai risultati che si ottengono: dal constatare che il bimbo cresce bene, apprende, sorride, è appagato e, attraverso il legame di attaccamento, comunica inequivocabilmente l’importanza che la madre ha nella sua esistenza e nella sua stessa giovanissima mente. La gratitudine verso chi dà, in qualsiasi forma venga manifestata (parole, gesti o anche semplici segnali di riconoscimento) alimenta dunque in modo virtuoso ogni relazione.

 

Chi invece si occupa di pazienti con demenza, in particolar modo nelle fasi avanzate del disturbo (oppure di pazienti affetti da malattie che non guariscono) non riceve quasi mai ritorni per gli sforzi compiuti, gratitudine (come già detto, non necessariamente espressa con le parole) o qualche forma di reciprocità gratificante. Per potere manifestare gratitudine chiunque di noi deve, ancora prima, avere avvertito e provato riconoscenza, cioè essere capace di riconoscere il valore del gesto dell’altro. Come potrebbero farlo i pazienti con demenza avanzata, che non solo non sono più in grado di esprimersi, ma nemmeno riescono a riconoscerci?

 

In questo caso ci troviamo molto distanti anche da quella forma di ricompensa – indiretta, impersonale ma forte – che nelle professioni sanitarie costituisce una importante fonte di rinforzo motivazionale: quella di vedere premiata la fatica del proprio prodigarsi attraverso il miglioramento o la guarigione del paziente.

 

Empatia e rispecchiamenti alterati

La straordinaria scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006) ha polverizzato due assiomi neurofisiologici: le cellule motorie del nostro cervello sono anche sensitive e l’azione di questi neuroni – seppure implichi processi considerati di ordine mentale (la percezione e il riconoscimento degli atti altrui) – non comporta in realtà un coinvolgimento superiore ma avviene per “imitazione” di questi atti. Dunque l’attività di questi neuroni sfugge al controllo consapevole e cosciente del cervello. Avviene, cioè indipendentemente dalla nostra volontà. Requisito perché lo stimolo possa determinarsi è la necessità di una certa vicinanza, cioè che avvenga in quella porzione dello spazio che può essere intesa come estensione del campo recettivo somato-sensoriale.

 

Il meccanismo dei neuroni specchio rende quindi possibile la percezione delle emozioni degli altri, esperienza che costituisce un prerequisito importante per il comportamento empatico e ci permette – insieme ad altri fattori – di provare compassione. L’empatia, che ha dunque le sue radici nel “rispecchiamento” è, per usare le parole di Rizzolatti, “una predisposizione su base biologica ad agire in maniera partecipe verso l’altro” (Rizzolatti e Gnoli, 2016).

 

Fino a non molti anni fa l’empatia era stata selezionata come dote rara ed esclusiva che richiedeva nell’inviante una mente ben sviluppata e matura; formazione, esperienza, pazienza, nel ricevente. Da ciò che invece emerge dalla scoperta dei neuroni specchio, l’empatia sembrerebbe fenomeno molto diffuso, addirittura universale, su base biologica, che non richiede da parte dell’inviante caratteristiche particolari. Sollecita invece nel ricevente la necessità di consapevolezza – oggi largamente inesistente – di queste forme di “contatto sensoriale” al fine di imparare a modulare quelle trasmissioni emotive (sia in entrata che in uscita) quando divengano così intense da fare entrare “troppo in risonanza” le due persone coinvolte, vanificando questo canale comunicativo e di intesa e generando nel terapeuta movimenti emotivi di distanziamento e di rifiuto. Questo fenomeno, molto più diffuso di quanto non si creda, è stato chiamato da Freud (1937) controtransfert, ed è quasi del tutto ignorato nei percorsi formativi degli operatori, come se l’influenza delle emozioni sollecitate dai pazienti che incontriamo non fossero un problema con cui imparare a fare i conti.

 

Le difficoltà specifiche col paziente demente

Nel caso della demenza accadono poi alcuni fenomeni specifici che accentuano drammaticamente le difficoltà relazionali (Benedetti, 2012). Innanzi tutto una progressiva riduzione dell’empatia nei prestatori di aiuto (come avviene anche verso i pazienti in coma, o nei genitori dei figli cerebropatici) perché l’impoverimento degli stimoli sensoriali inviati dal paziente comporta una alterazione nella attività del sistema dei neuroni specchio. E poi, a seguito della perdita del controllo e della disconnessione dei lobi prefrontali del paziente, in lui si indebolisce fino ad azzerarsi l’effetto placebo. Tendono cioè a scomparire gli importanti effetti curativi che non sono determinati dall’uso di farmaci ma dai fattori terapeutici insiti nel contesto relazionale e di cura.

 

Tuttavia il problema emotivamente più importante che i professionisti si trovano ad affrontare è determinato dalla progressiva compromissione della capacità di comunicazione verbale del paziente. Mentre la comunicazione non-verbale (quella che avviene attraverso l’uso del corpo, dei gesti, delle espressioni del viso, degli sguardi, dei suoni della voce) – che costituisce il canale di trasmissione più importante delle emozioni – si conserva più a lungo. Dunque il paziente, pur perdendo l’abilità di comunicare efficacemente attraverso le parole, continua ad essere in grado di inviarci messaggi non-verbali che, oltre a non essere facilmente interpretabili o addirittura da noi percepiti, possiedono proprio per questo aspetto – quello di sfuggire alla nostra consapevolezza – effetti particolarmente destabilizzanti.

 

Una diffusa impressione di fronte al paziente che soffre di demenza è che, via via, egli “esca” dalla relazione, così che si tende a considerare e a vivere questo rapporto come una non-relazione. Come è possibile allora che si venga così potentemente turbati dal contatto con il paziente, sia da parte degli operatori professionali che dei caregiver biologici? Nello stadio avanzato della malattia i pazienti ci inviano messaggi particolarmente disturbanti in quanto contenenti, contemporaneamente, la mescolanza o la successione rapida di due componenti comunicative antitetiche: da un lato – sul piano verbale (per esempio, attraverso urla o offese) – quella determinata dal deficit dovuto al deterioramento mentale. Dall’altro – di tenore opposto – mediante la comunicazione non-verbale (attraverso uno sguardo, una espressione del viso o l’atteggiamento) ci vengono invece trasmesse intensissima sofferenza, disperazione, angoscia. Queste due componenti espressive, del tutto in contrasto fra loro, ci costringono ad una difficile e insopportabile ginnastica emotiva per non considerare una delle due come falsa. Come sempre accade di fronte ai “doppi messaggi”, istintivamente cerchiamo di risolvere il più rapidamente possibile il disorientamento che ci viene provocato e ci liberiamo dal disagio determinato da questa ambivalenza, “scegliendo” (istintivamente!) fra le due opposte comunicazioni, quella da cui rimaniamo emotivamente più colpiti. Ad un estremo, si può attivare in noi una reazione improntata alla rabbia, al rancore e all’ allontanamento dal paziente; all’estremo opposto, quella orientata alla pena, alla vicinanza, all’identificazione col paziente.

 

Scherzi dell’empatia

Entrambi questi “movimenti” sono segnalatori di un eccessivo e pericoloso coinvolgimento emotivo ed evidenziano il fatto che abbiamo abbandonato l’assetto mentale della immedesimazione nel paziente (che costituisce la “posizione emotiva” più utile per potersi sintonizzare con lui ed essergli vicino) per entrare nel pericoloso territorio della identificazione. In questa condizione psicologica si finisce per provare emozioni e stati d’animo molto simili a chi ci sta di fronte. I suoi problemi diventano – letteralmente – i nostri perché, come dice Freud (1900), ci “appropriamo di una altra persona e la incorporiamo”. E’ cioè diventato troppo labile, fino a scomparire del tutto, il confine fra noi e lui. Una delle conseguenze più importanti e drammatiche di questo processo psicologico si manifesta nel caregiver (professionale, ma soprattutto biologico) con il progressivo e totale annullamento della sua vita privata.

 

Questi due processi – immedesimazione e identificazione – pur essendo emotivamente “contigui”, sono assai diversi fra loro e soprattutto ci collocano in posizioni antitetiche: il primo ci permette di essere vicini e di portare aiuto; il secondo ci provoca uno stato di sofferenza prossimo a quello del paziente. In questo caso il nostro ruolo di soccorritori si vanifica. Non solo ci troviamo nelle condizioni di non potere più aiutare gli altri, ma noi stessi abbiamo bisogno di aiuto, anche se spesso non ne siamo affatto consapevoli. Il processo di identificazione può essere facilitato da fattori diversi (fra i quali le caratteristiche personologiche di ciascuno di noi hanno certamente un rilievo importante) tuttavia è molto più facilmente indotto dalla vicinanza (affettiva ma anche fisica) “eccessiva” con chi soffre. Per esempio, da legami di parentela o amicizia col paziente o da turni di lavoro troppo pesanti.

 

Conclusioni

Esiste dunque una distanza “ottimale” fra chi aiuta e chi è aiutato, che non sia troppo sbilanciata sulle polarità emotive estreme: quella della indifferenza (atteggiamento che certamente non potrà essere di alcun aiuto al paziente) e, sul versante opposto, quella dell’ipercoinvolgimento che proprio a causa dell’eccessiva “appropriazione” del dolore e delle preoccupazioni dell’altro finirà per risultare non solo inutile per chi desidereremmo aiutare ma anche nociva per noi.

 

La scoperta dei neuroni specchio ci fornisce una duplice sollecitazione: da una parte, a sviluppare una maggiore consapevolezza del processo di rispecchiamento che il dolore dei pazienti provoca su di noi e delle influenze che questo fenomeno determina sulla relazione di aiuto; dall’altra, ad imparare a modulare il riverbero che le “trasmissioni emotive” (sia in entrata che in uscita) possono avere quando siano così intense da fare entrare “troppo in risonanza” le due persone coinvolte.

 

Per i professionisti apprendere a limitare il “rispecchiamento’’ (totale) nel dolore dell’altro è quasi altrettanto importante della capacità di immedesimarsi nelle sue condizioni e nel suo vissuto. A chi – come noi – si prende cura degli altri, capita di lavorare (cioè di vivere) in una condizione interiore di confine, difficile e “ambigua”. Un mix costituito dalla attitudine alla vicinanza empatica e partecipe alle vicende del paziente ma anche alla necessità di autocontrollo delle proprie emozioni.

Bibliografia

Asioli F. (2019), La relazione di cura, Franco Angeli.
Benedetti F. (2012), Il cervello del paziente, Fioriti.
Freud S. (1900), L’interpretazione dei sogni. Opere, vol. 3. Boringhieri, 1967.
Freud S. (1937), Analisi terminabile e interminabile, in (trad, it.) S. Freud, Opere vol. 11, Boringhieri, 1979.
Nahon L. (2009), La dimensione contestuale e famigliare, in Asioli F., Trabucchi M. (eds.), Assistenza in psicogeriatria. Manuale di sopravvivenza dell’operatore, Maggioli Editore.

Rizzolatti G., Sinigaglia C. (2006), So quel che fai, Raffaello Cortina Editore.
Rizzolatti G., Gnoli A. (2016), In te mi specchio, Rizzoli.

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