La Federazione Alzheimer Italia ha organizzato, nel novembre 2021, due webinar gratuiti, a carattere formativo e informativo, rivolti ai familiari e a tutti coloro che si prendono cura e assistono una persona con demenza. Due ricchi webinar, disponibili sul canale youtube della Federazione, che hanno permesso alle quasi 500 persone iscritte di approfondire alcune tematiche molto attuali: quali sono le criticità dei nuovi farmaci disponibili? Quali le conseguenze neurologiche e psicosociali che il Covid ha causato alle persone con demenza?
Questo contributo espone la sintesi delle relazione presentata da Mauro Colombo.
Aducanumab: tra dubbi e spiragli
La Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo statunitense che regola i prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato nel 2021 l’anticorpo monoclonale anti a beta specifico chiamato Aducanumab: si tratta di un anticorpo monoclonale umano IgG1 che agisce riducendo i depositi della proteina beta amiloide (il cui accumulo all’interno del cervello si ritiene essere la causa del processo di neurodegenerazione).
Durante il webinar, a favore delle numerose famiglie partecipanti, Mauro Colombo ha analizzato e snocciolato le perplessità del mondo scientifico sull’efficacia e sull’utilità di questo farmaco. Il Journal of the American Medical Association (JAMA), ritenuta una tra le riviste più autorevoli di medicina generale, sottolinea come la vicenda dell’Aducanumab sia il primo caso di approvazione di un farmaco, da parte dell’ente regolatorio statunitense, sulla base di un “outcome surrogato”.
Con il termine di “outcome surrogato” si intende la dimostrazione dell’efficacia del trattamento su un obiettivo prestabilito – un end point – di natura clinicamente rilevante senza ottenere alcuna misurazione diretta. Si tratta di una procedura a cui gli studi fanno ricorso sempre più spesso, in quanto presenta indiscutibili vantaggi, a discapito però della rilevanza clinica della ricerca. L’FDA ha approvato, quindi, Aducanumab basandosi principalmente sulla sua dimostrata capacità di rimuovere le placche amiloidi che si accumulano nel cervello e che, si pensa, rechino danno ai neuroni. Tuttavia l’ente americano, riguardo agli effetti clinici rilevanti dalla diminuzione dell’amiloide, si limita a dire che ridurre questi depositi dovrebbe ragionevolmente comportare importanti benefici per i pazienti come un valido surrogato del risultato clinico (Carlos et al., 2021).
Una simile affermazione è alquanto singolare e ha sollevato controversie in quanto appare evidente, nei dati dello studio, che tale miglioramento porti solo ad una modesta differenza in termini di rallentamento nel declino cognitivo (statisticamente spiegata con una differenza di 0. 39 punti che non risulta però clinicamente significativa (per essere tale avrebbe dovuto oscillare tra 1 e 2 punti) (Cummings et al., 2020). Pur mancando, ad oggi, la conferma che questo dato strumentale correli con un reale miglioramento clinico, la notizia è senza dubbio importante.
Le attese dei familiari e le scommesse del futuro
Come Associazione di familiari, da subito ci siamo trovati ad accogliere le enormi aspettative di molte famiglie che da anni mantengono viva e accesa la speranza per una terapia che fermi il progredire della malattia; attese rese difficili da promesse non mantenute e innumerevoli fallimenti. Il nostro compito si è fatto ancor più complesso quando si sono diffuse le prime notizie circa il mancato beneficio in termini di miglioramento della qualità di vita e di rallentamento del declino cognitivo. Sappiamo che abbiamo il dovere di informare i familiari e guidarli nel fermento che queste novità creano, invitandoli alla cautela e non alimentando in loro speranze inutili.
Da qui la posizione differente di Ema – l’Agenzia europea per i medicinali- la quale ha scelto di non approvare l’uso di Aducanumab anche per la sua ridotta efficacia. Quanto dati e numeri mostrano è che, sotto l’aspetto clinico, i miglioramenti sia per la persona con demenza sia, di riflesso, per i suoi familiari, siano minimi a fronte di una importante mole di impegno da parte del sistema di cure nell’individuare le persone con una malattia di Alzheimer allo stadio iniziale (le uniche a cui si può somministrare Aducanumab) e dei numerosi controlli a cui sottoporsi durante la cura (es. PET amiloidea e risonanza magnetica nucleare).
Ad oggi non vi è documentazione che dichiari come gli elevati costi dati dai necessari screening e controlli possano essere bilanciati da effettivi miglioramenti nella qualità di vita di queste persone. A fianco di un profilo rischi/benefici ancora incerto, il farmaco ha un altro, enorme, problema. Il costo e la sua sostenibilità visti i numeri in crescendo delle persone con demenza; inoltre sappiamo che lo studio in fase 4 [ovvero il monitoraggio del farmaco una volta immesso sul mercato] fornirà risultati, verosimilmente, non prima del 2030. Va inoltre ricordato che l’utilizzo di Aducanumab può, come tutti i farmaci, causare effetti collaterali di vario tipo ed è per questo che la somministrazione dell’Aducanumab prevede numerosi e specifici controlli.
La considerazione finale – in attesa di una presa di posizione da parte della agenzia regolatoria europea – è che la disponibilità di Aducanumab possa costituire un’occasione per indurre una ristrutturazione del sistema socio sanitario con possibili estensioni e ricadute oltre l’ambito della demenza. Si può ipotizzare un modello che preveda una maggiore integrazione tra medici di medicina generale e diversi specialisti, che potrebbero collaborare in una rete di maglie periferiche collegate a nodi centrali. In questo scenario risalterebbe anche il ruolo di altre figure professionali, specialmente infermieristiche con preparazione specifica e delle associazioni di familiari e pazienti verso i quali si ha il dovere di fornire informazioni chiare ed esaustive.
Come ulteriore scommessa sul futuro, l’obiettivo di cogliere persone in stadio precoce di malattia può spingere a perfezionare le analisi sui biomarcatori ematici, ad aggiornare ed estendere innovazioni tecnologiche, apparse a partire dall’inizio della scorsa decade, per i biomarcatori digitali. Tutte tematiche molto attuali trattate da diversi studi e progetti di ricerca che verranno affrontati nel prossimo futuro poiché è alta l’attenzione verso la realizzazione di specifici percorsi clinici per la diagnosi e la presa in carico della persona con demenza e della sua famiglia in una situazione che sappiamo essere di cronicità.
Questo impegno, tuttavia, non basta nell’immediato per migliorare la qualità di vita delle persone con demenza e dei familiari ma è necessario, parallelamente, costruire oggi una rete di servizi integrati che collabori con i Centri Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD). Tale realtà deve rispondere alle esigenze di tipo somatico, psicologico, relazionale e, tendendo in conto delle frequenti crisi che possono avere i caregiver a fronte di importanti disturbi del comportamento, deve prodigarsi nell’offrire supporto clinico, psicologico e pratico come, ad esempio, avviene nel progetto RECage, raccontato nel webinar tenuto dalla Dott.ssa Fascendini nello scorso dicembre e disponibile sul canale YouTube della Federazione Alzheimer Italia.
Bibliografia
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