Forse è banale, ma partire da una definizione è sempre rassicurante quando si deve scrivere di qualche argomento. E dunque, la riabilitazione geriatrica è “l’insieme di procedure valutative, diagnostiche e terapeutiche il cui scopo è di ristabilire l’autonomia funzionale e di valorizzare le capacità funzionali residue negli anziani affetti da disabilità” (Boston Working Group on improving health care outcomes through geriatric rehabilitation, 1997).
Una definizione come questa, analoga ad altre nei contenuti, chiarisce bene il mandato della riabilitazione geriatrica: si tratta di valutare, diagnosticare, curare un anziano al fine di restituirgli l’autonomia funzionale che aveva, o quanto meno di utilizzare al meglio la quota di autonomia funzionale che gli è rimasta. Se però scorriamo la non vasta letteratura scientifica dedicata all’argomento, sorgono alcune domande e ci accorgiamo che la strada da percorrere prima di arrivare a un preciso inquadramento della riabilitazione geriatrica, sia sul piano clinico/metodologico che su quello normativo/amministrativo, è ancora molta. Mi sembra di potere individuare tre temi che, tra loro strettamente connessi, richiedono un approfondimento.
Il malato anziano complesso: a fronte di un compito così ampio (ristabilire l’autonomia funzionale, valorizzare le capacità funzionali residue, anziani affetti da disabilità) sembra che la nostra attenzione si sia concentrata principalmente, a volte esclusivamente, su alcune condizioni ben precise indotte da una malattia o da un evento traumatico come la frattura di femore, l’ictus, l’infarto miocardico, ecc. Si tratta di condizioni che appartengono tout court alla riabilitazione. Certamente l’anziano colpito da frattura, ictus, infarto, presenterà, rispetto al giovane/adulto, maggiori complessità (la scarsa efficienza motoria premorbosa, il deterioramento cognitivo, l’assenza di un nucleo familiare, la malnutrizione, ecc.): tuttavia, magari con un plus di impegno riabilitativo/assistenziale rispetto alle età più giovani, e soprattutto con la capacità, tipica di chi lavora in geriatria, di comunicare con pazienti cosiddetti non collaboranti, l’ambito di intervento di questo tipo di riabilitazione, che per la Regione Lombardia si configura come riabilitazione specialistica (DGR 16 dicembre 2004), è piuttosto intuitivo e codificato, così nell’adulto come nell’anziano.
Ma il tipico malato anziano, quello che vediamo tutti i giorni nei setting più disparati (ambulatorio, RSA, riabilitazione, ospedale), il malato con una lunga serie di malattie intersecate da problemi familiari e sociali, con uno scompenso multiorgano scatenato magari da un evento banale, e al quale molto spesso riusciamo a “ristabilire l’autonomia funzionale e valorizzare le capacità funzionali residue”, questo malato che fine ha fatto (Covinsky et al., 2003)? Il malato anziano complesso, costoso soprattutto sul piano assistenziale, fragile e con rete sociale debole o inesistente (ma spesso riabilitabile!) dove si colloca? Gli standard assistenziali e le tariffe previste per questo tipo di riabilitazione consentono un intervento efficace?
La disabilità intellettiva: si parla di “disabilità”, ma sembra che l’interesse sia principalmente rivolto alle disabilità fisiche; eppure, visto che l’età media dei clienti della riabilitazione geriatrica supera in genere gli 80 anni, è largamente prevedibile quello che di fatto accade, e cioè che la disabilità sia fisica, ma anche cognitiva-comportamentale-psichiatrica (basti pensare alla demenza, alla depressione, al delirium). Forse questi anziani non sono suscettibili di riabilitazione (Heyn et al., 2004), e forse abbiamo dimenticato le centinaia di persone con demenza restituite alla famiglia dagli IdR Alzheimer (Istituti di Riabilitazione) della Lombardia?
La riabilitazione specialistica geriatrica: se a certe malattie (ad esempio la solita frattura di femore) corrisponde una riabilitazione specialistica ortopedica, così come all’infarto miocardico corrisponde una riabilitazione specialistica cardiologica, è così azzardato pensare che a un certo tipo di anziano malato e complesso corrisponda una riabilitazione specialistica geriatrica, nella cui organizzazione e gestione lo specialista geriatra è figura centrale? Può essere utile, a questo punto, ripercorrere brevemente la storia della riabilitazione geriatrica, che inizia nel 1978, con la legge 833 di Riforma Sanitaria: all’Articolo 26 (Prestazioni di Riabilitazione) la legge prevede che “…le prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa, sono erogate dalle unità sanitarie locali attraverso i propri servizi. L’unità sanitaria locale, quando non sia in grado di fornire il servizio direttamente, vi provvede mediante convenzioni con istituti esistenti nella regione…”. Si assiste, in quegli anni, con particolare vigore in Lombarda, alla nascita di Servizi di Recupero e Riabilitazione Funzionale e Reparti di Lungadegenza Riabilitativa all’interno di Ospedali, e di Istituti di Riabilitazione Geriatrica (IdR geriatrici) all’interno di strutture extraospedaliere.
Le “Linee-guida per le attività di riabilitazione” emanate dalla Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome vent’anni dopo (1998), operano una distinzione tra la riabilitazione sanitaria (“si occupa degli interventi valutativi, diagnostici e terapeutici per recuperare o, almeno, per contenere la disabilità conseguente l’evento patologico”) e la riabilitazione sociale (“si occupa degli interventi finalizzati a garantire al paziente la massima partecipazione possibile alla vita sociale”). La riabilitazione nel suo insieme viene definita come “un processo integrato che implica un’intima connessione fra i programmi di intervento sanitario e sociale” (Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Provincie Autonome. Linee guida per le attività di riabilitazione, 1998). Questa definizione sembra particolarmente appropriata per indicare quello che è (o dovrebbe diventare) la riabilitazione geriatrica: un intervento multidisciplinare, capace di integrare diverse professionalità, capace di intercettare diverse esigenze (sanitarie, sociali, familiari) e di produrre un progetto di cura complessivo e sostenibile; il geriatra dovrebbe essere, per competenza professionale e attitudine, il professionista che fa da perno al sistema della riabilitazione geriatrica. Proviamo ora a dare una risposta alle tre domande che ci siamo posti.
Il malato anziano complesso
Gli anziani che arrivano alle unità operative di riabilitazione spesso non si riconoscono nelle diagnosi riabilitative tradizionali, ma sono in misura crescente affetti da patologie internistiche e chirurgiche (Cunietti et al., 2008; Johnson et al., 2000); essi, inoltre, presentano spesso problematiche di tipo sociale e familiare che aumentano la difficoltà di reinserimento domiciliare. L’organizzazione della riabilitazione in Lombardia (la realtà che conosciamo meglio) distingue tre aree di riabilitazione residenziale:
- specialistica
- generale e geriatrica
- mantenimento
Il sistema di tariffazione della specialistica è a DRG, mentre per le altre due aree di riabilitazione la tariffazione è a giornata di degenza. Inoltre, per la riabilitazione generale e geriatrica, gli standard assistenziali sono simili a quelli della RSA, quindi bassi, ma soprattutto sono rigidi rispetto alle diverse figure professionali privilegiando quelle più alte, e perciò inadeguati sotto il profilo delle figure dedicate all’assistenza (OTA, OSS), che sappiamo essere fondamentali per la cura dell’anziano. Alla riabilitazione specialistica sono avviati i malati di pertinenza ortopedica, neurologica, cardiologica, pneumologica: quei malati che riconoscono un evento acuto (evento-indice, ad esempio lo stroke), dopo il quale si prevede un intervento riabilitativo.
Nell’area ancora un po’ confusa della riabilitazione geriatrica rientrano “gli altri” anziani da riabilitare. Paradossalmente, dunque, un malato con importante comorbilità, estrema fragilità, network sociale debole, un malato che richiede un importante investimento diagnostico e assistenziale, oltre che riabilitativo, non può oggi essere collocato in area specialistica. A noi sembra però difficile affermare che un 80enne con frattura di femore, cognitivamente integro, in buone condizioni sociali, sia meno impegnativo, meno costoso e, in un certo senso, meno specialistico di un 80enne confuso, con elevata comorbilità, precarie condizioni abitative e famiglia costituita da un coniuge anziano e malato. Diremmo, piuttosto, che i due pazienti appartengono a due diverse categorie specialistiche: il primo alla specialistica ortopedica, il secondo alla specialistica geriatrica.
La disabilità intellettiva
Si diceva prima che la disabilità fisica sembra avere monopolizzato l’attenzione di chi si occupa di riabilitazione. L’interesse per le performance motorie, respiratorie, cardiocircolatorie ha oscurato quello per le performance cognitive. L’ampio dibattito sul rapporto riabilitazione/demenza, con le opposte posizioni che vedono il deterioramento cognitivo come criterio di esclusione alla riabilitazione e, sull’altro versante, ammettono la possibilità di recupero anche alle persone affette da demenza, sembra orientato verso questa seconda tendenza (Heyn et al., 2004).
L’età media delle persone che entrano in riabilitazione è elevata, sopra gli 80 anni. In questa fascia di età circa un malato su tre è affetto da demenza, e una quota elevata soffre di depressione o delirium. È innegabile che una persona con demenza in un’unità di riabilitazione sia un problema: in termini sicurezza, di sorveglianza, di pericolo e di disturbo per gli altri pazienti. È un malato che assorbe più risorse di uno cognitivamente integro, ma è anche un malato in molti casi suscettibile di riabilitazione con esito positivo (Faber et al., 2006; Rozzini et al., 1997). Anche il delirium presenta problemi gestionali, entra in diagnosi differenziale con la demenza ed è predittivo di outcomes negativi (rientro ospedaliero e istituzionalizzazione) (Bellelli et al., 2008).
Come risolvere questo che, a nostro giudizio, è un problema, e potrebbe indurre qualche unità operativa a non accogliere persone con demenza? I CRA (Centri Regionali Alzheimer) della vecchia riabilitazione costituivano un setting ideale per la riabilitazione di persone con demenza, evitando anche quella promiscuità spesso dannosa per gli uni e per gli altri malati. Non so se quella strada, che per anni ha dato buoni risultati, sia la migliore. Certo è che il problema va affrontato, perché ignorare le evidenze epidemiologiche non fa che creare emergenze sanitarie, assolutamente evitabili (Ferri et al., 2005; Vimo et al., 2007). La formazione del personale, l’adeguamento degli standard assistenziali e opportune strategie ambientali potrebbero essere buoni spunti di riflessione e intervento.
La riabilitazione specialistica geriatrica
L’esperienza ormai trentennale di riabilitazione geriatrica ci porta ad individuare una tipologia di paziente che richiede un intervento specialistico che per competenze, metodi, filosofia, riconosce nel geriatra la figura più adeguata. Sarà compito dei geriatri, di quelli che si riconoscono in questo approccio, definire meglio le caratteristiche cliniche e sociali dell’anziano complesso che può accedere a questo tipo di riabilitazione, e sarà compito delle amministrazioni regionali riconoscere la validità della proposta. Infine, qualche riflessione a margine.
Il geriatra come riabilitatore naturale. Il fatto che io provenga professionalmente dalla medicina interna, credo allontani da me il sospetto di apologia di specialità, se sostengo che il geriatra ha una tendenza naturale (che gli viene dagli studi e dall’esercizio della professione) a un approccio riabilitativo alle malattie. La sua appartenenza a una disciplina trasversale è un ottimo prerequisito per affrontare questo tipo di riabilitazione (Senin, 2003).
Il geriatra, si sa, non punta principalmente alla guarigione; si accontenta molto realisticamente di piccoli guadagni (small gains); è istintivamente propenso a cogliere gli aspetti sociali della malattia; non si dimentica degli aspetti ambientali, che spesso condizionano il rientro a domicilio e agiscono come elementi anti-riabilitativi; è sempre pronto a cogliere, in una situazione compromessa, la metà piena del bicchiere (o se si preferisce, a ottimizzare la funzione residua…). Così come per la medicina palliativa, anche per la riabilitazione il geriatra ha un’affinità spontanea: il che aiuta nell’esercizio di una disciplina – la riabilitazione geriatrica – che fonde geriatria e riabilitazione.
La RSA come outcome negativo. Da sempre il rientro a domicilio è considerato l’unico outcome positivo della riabilitazione. Outcome negativi sono il decesso, il trasferimento in ospedale e, appunto, il passaggio in RSA. Su quest’ultimo credo si debba fare una distinzione. Al termine della degenza in riabilitazione, si verifica con una certa frequenza che un malato anziano molto complesso arrivi a un buon livello di stabilità clinica; la famiglia però è inadeguata ad accogliere un malato così impegnativo, e i servizi domiciliari non arrivano a coprire le necessità (ricordiamo che l’Italia continua a essere una cenerentola in questo settore in Europa). A questo punto, il rientro a domicilio si trasformerebbe rapidamente in un rientro in ospedale, o in riabilitazione, o in un tumultuoso ricovero in RSA, o in un decesso a breve termine. In questi casi, il passaggio diretto dalla riabilitazione alla RSA offrirebbe al paziente e alla famiglia l’opportunità di un luogo di cura protetto, capace di mantenere a lungo i risultati ottenuti. Certamente, sul piano affettivo ed esistenziale, il passaggio in RSA è, in linea generale, un outcome meno positivo di quello a domicilio: ma nel caso specifico, in una logica di beneficialità nei confronti del malato e di rassicurazione nei confronti della famiglia, perché non considerare il trasferimento in RSA un outcome positivo?
Infine, cosa c’è di geriatrico nella riabilitazione geriatrica? In un’Unità Operativa di riabilitazione geriatrica c’è molto di geriatrico: la modalità d’accoglienza e presa in carico del malato e della famiglia; l’impiego dell’assistente sociale come figura di raccordo tra i diversi luoghi di cura e il domicilio; la metodologia del lavoro d’equipe e la stretta cooperazione con fisiatra e fisioterapisti; l’attenzione alle esigenze di base del malato, al sintomo dolore e alla sua dignità. Forse, però, in una riabilitazione come quella che vediamo oggi, un po’ frastornata dagli algoritmi, dalle tecnologie, dal delirio cartaceo e telematico delle rendicontazioni, dalle specialità che si identificano con organi e apparati, forse, in una riabilitazione così, il rischio è quello di una geriatria smouldering, una geriatria che c’è ma cova sotto la cenere. Attendiamo che la geriatria assuma con energia, in riabilitazione geriatrica, il ruolo che le compete, cioè quello di protagonista. Nel frattempo, come sempre, rimbocchiamoci le maniche.
Bibliografia
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