1 Marzo 2010 | Cultura e società

La competenza decisionale dell’anziano e lo “stereotipo” giuridico della capacità di intendere e di volere

La competenza decisionale dell’anziano e lo “stereotipo” giuridico della capacità di intendere e di volere

La nostra, vuole essere una sintetica riflessione sul significato delle parole, sui biases cognitivi provocati dal progressivo innesto, nel nostro lessico professionale, di termini mutuati dalla lingua anglosassone (informed consent, competence, privacy, malpractice) e dal linguaggio giuridico (capacità di intendere e di volere) e sul ruolo che ha, spesso, nella pratica professionale, l’uso stereotipato1 delle parole stesse che ci porta a supporre, o il fatto che i veicoli di senso che esse intendono significare non sono sufficientemente condivisi dalla comunità scientifica, o che essi sono accettati solo in parte, o che si è persa la consapevolezza riguardo al processo culturale che ha portato, talvolta faticosamente, alla scelta di un termine rispetto ad un altro (Cembrani e Cembrani, 2008).

 

I Biases cognitivi nell’uso stereotipato delle parole

La letteratura che analizza le cause all’origine degli stereotipi è vastissima, e non è questa la sede per offrire il panorama esaustivo di tutte le interpretazioni elaborate dalla sociologia e dalla psicologia sociale. Ci basti osservare che, sul piano generale, tali interpretazioni possono essere ricondotte a due filoni di ricerca: da una parte chi interpreta lo stereotipo in forma negativa alla stregua di un giudizio errato ed irrazionale, dall’altra chi lo ritiene un fenomeno naturale dell’attività cognitiva determinato dalla realtà e/o dalle relazioni che intercorrono tra le persone.

 

Focalizzando la nostra attenzione sulle interpretazioni più pertinenti con gli scopi che ci siamo proposti, esse sono da ricondurre:

  1. alle teorie di tipo biologico
  2. alle teorie di tipo psico-analitico
  3. alle teorie di tipo cognitivo
  4. alle teorie di tipo motivazionale
  5. alle teorie di tipo psico-sociale.

 

Per le teorie di tipo biologico, gli stereotipi (ed i pregiudizi) sono l’espressione di una generica ostilità nei confronti di ciò che non si conosce e di chi è diverso da noi: l’ostilità sarebbe il risultato di un lunghissimo processo di selezione per adattamento delle specie. In questa prospettiva, gli stereotipi (ed i pregiudizi) altro non sarebbero che uno strumento sofisticato attraverso il quale l’essere umano, in quanto animale culturale e simbolico, esprime tale istinto di lotta per la sopravvivenza.

 

L’approccio di tipo psico-analitico, ampiamente influenzato dalle teorie freudiane, concepisce gli stereotipi (ed i pregiudizi) come espressione dei bisogni motivazionali del soggetto e di profondi conflitti intra-psichici. Gli esempi più noti di tale approccio – ampiamente criticato essendo stato dimostrato che stereotipi e pregiudizi sono dovuti non già a fattori di personalità, quanto, invece, a differenze socio-culturali – sono la teoria del capro espiatorio di Dollart (1967) e la teoria della personalità autoritaria di Adorno (1963). Per la prima teoria le persone, quando sono frustrate o infelici, mostrano una maggiore aggressività nei confronti dei gruppi più deboli che vengono, dunque, ad assumere la funzione di capro espiatorio; secondo la teoria di Adorno gli stereotipi originano, invece, da un particolare tipo di personalità autoritaria, generalmente caratterizzata da uno stile di pensiero rigido e dogmatico, dalla tendenza a seguire in maniera incondizionata gli ordini superiori, dalla superstizione e da credenze di tipo etno-centrico fortemente conservatrici.

 

Le teorie di tipo cognitivo si differenziano dalle precedenti per un tratto del tutto peculiare: per questo approccio sperimentale, gli stereotipi (ed i pregiudizi) non sono concepiti in termini negativi (come distorsioni mentali) essendo il prodotto di processi cognitivi naturali, comuni a tutti gli individui. Allport (1973) sostiene, in particolare, che la complessità del mondo ci impedisce di conservare un atteggiamento indifferenziato rispetto ad ogni cosa, con la conseguenza di essere costretti a massimizzare la nostra energia cognitiva per sviluppare un atteggiamento accurato solo verso alcuni argomenti semplificando, contestualmente, gli altri. Per Tajfel (Tajfel, 1969; Tajfel, 1981) gli stereotipi originano, invece, da un processo di categorizzazione, ossia dal processo cognitivo mediante il quale gli individui ordinano mentalmente il mondo sociale e riducono, contestualmente, la quantità di informazioni con cui si confrontano.

 

L’ idea-base è che il nostro sistema cognitivo, di fronte alla sovrabbondante mole di dati e di informazioni che provengono dal mondo esterno, ha necessità di ridurre e semplificare le informazioni, raggruppandole in insiemi omogenei (le categorie): è, in pratica, il processo di astrazione (e di generalizzazione del reale) del quale si sono occupati i filosofi greci a partire da Aristotele, e del quale la psicologia cognitiva è impegnata ad esplicitare le modalità di funzionamento. Gli effetti di questo processo sono molteplici in quanto il processo di categorizzazione tende: a) ad accentuare, con effetto distorsivo, la somiglianza degli oggetti e dei soggetti che appartengono ad una data categoria (somiglianza intra-categoriale) e, contemporaneamente, ad incrementare le differenze tra oggetti e soggetti appartenenti a categorie diverse (differenza inter-categoriale); b) a differenziare l’ingroup (il gruppo a cui appartiene il soggetto) rispetto all’outgroup (il gruppo diverso dal proprio) e a potenziarne il senso di appartenenza, stabilendo la specifica positività dell’ingroup medesimo; c) ad associare ai requisiti di base che definiscono la categoria, altri requisiti accessori che finiscono per diventare anch’essi parte della definizione originaria.

 

Inevitabile è, a questo punto, il collegamento con la stereotipizzazione: ciò che accomuna lo stereotipo e la categorizzazione è il fatto che entrambi sono meccanismi cognitivi che si prefiggono di semplificare le informazioni provenienti dal mondo esterno operando alla stregua di processi di economia mentale in grado di produrre semplicità ed ordine dove esiste complessità e variazione. Tuttavia, se l’uso delle categorie per ordinare il mondo è un processo del tutto ordinario del nostro funzionamento cognitivo, nel caso degli stereotipi (e dei pregiudizi) si va ben oltre: in questo caso, si estendono le caratteristiche di base che accomunano le componenti di una categoria con altri requisiti, con costrutti relativi a tratti, credenze e comportamenti per arrivare anche a connessioni di tipo causale che finiscono per diventare anch’essi parte della definizione, stabilendo, in maniera arbitraria, una corrispondenza tra la definizione oggettiva e quella soggettivamente attribuita. La differenza sostanziale tra l’utilizzo delle categorie come strumento ordinario di classificazione della realtà, e la loro utilizzazione distorta nel caso degli stereotipi, sta nella ragione per la quale un determinato tratto entra a far parte della categoria: questo diventa stereotipo indebito quanto più si discosta dalla ragione originale che ha indotto il raggruppamento in categoria.

 

Per l’approccio motivazionale, gli stereotipi riconoscono un’origine auto-protettiva e servono a mantenere un’immagine positiva di sé stessi e del gruppo a cui ciascuno di noi appartiene. La teoria a cui si fa, di solito, riferimento, è quella dell’identità sociale proposta da Tajfel e Turner nel 1979: l’ ipotesi chiave di questa teoria è che l’attivazione di stereotipi nei confronti dell’outgroup derivi dal desiderio di raggiungere e di mantenere una identità sociale positiva e, sulla base di ciò, lo stereotipo giustificherebbe le azioni dell’ingroup e ne preserverebbe l’identità, le credenze ed i valori dominanti rispetto all’outgroup.

 

Per le teorie di tipo psico-sociale, infine, gli stereotipi (ed i pregiudizi) sarebbero i prodotti di un costante processo collettivo di assegnazione di senso alla realtà. Questa idea, del tutto interessante per la nostra prospettiva, rinuncia a ricercare le cause degli stereotipi al di fuori di essi e sposta l’accento sul come essi si palesano, considerando le modalità della loro produzione e (ri)-produzione sociale come la loro vera essenza. Grande importanza viene, al riguardo, assegnata alle pratiche comunicative (sia a quelle di massa che alla comunicazione inter-personale quotidiana) nelle quali gli stereotipi (ed i pregiudizi) prendono forma, ed al contesto sociale in cui ciò avviene: la comunicazione viene, infatti, considerata da tale filone di ricerca non un semplice veicolo con il quale gli stereotipi si diffondono, bensì la loro sede propria e, in definitiva, la loro sostanza.

 

Un punto che rafforza tale teoria interpretativa è quello della struttura retorica degli scambi comunicativi: l’ipotesi di fondo è che i pregiudizi e gli stereotipi acquistano forza a causa del modo specifico in cui si usano gli artifici classici della comunicazione persuasiva quando, in particolare, le argomentazioni utilizzate per sostenere un determinato assunto costituiscono un modo significativo di rapportarsi ad eventi significativi (hard o penumbral cases) della realtà.

 

La competenza decisionale dell’anziano: una questione giuridica o una scelta morale?

Tradizionalmente, nell’ambito del rapporto di cura, la competenza decisionale della persona (e, di conseguenza, la sua autonomia) viene riferita ad un parametro di chiara matrice giuridica: la capacità di intendere e di volere. È, questa, una capacità che la persona non acquisisce al momento della nascita2 ma, convenzionalmente, al raggiungimento della maggiore età, e che è all’origine dell’imputabilità penale (art. 85 del Codice penale del 19383) e della capacità di agire (art. 2 del Codice civile del 19424): mentre la prima è da intendere come la (pre)-condizione che deve essere processualmente dimostrata per attribuire ad una persona il fatto dalla stessa commesso e le relative conseguenze giuridiche, la seconda va, a sua volta, intesa come l’attitudine della persona a compiere atti giuridici mediante i quali acquisire diritti e/o assumere doveri o, per dirla in altre parole, di essere autrice di qualsiasi atto (non solo di tipo negoziale) produttivo di effetti giuridici.

 

Come tale, la capacità di intendere e di volere esprime la capacità della persona di discernere il significato ed il valore delle proprie azioni con la consapevolezza delle conseguenze (giuridiche e sociali) che da esse ne derivano e la capacità, contestuale, di modulare di conseguenza il proprio comportamento; diversamente dalla capacità giuridica (art. 1 del Codice civile), la capacità di agire (art. 2 del Codice civile) è, quindi, uno status giuridico più ristretto della personalità (da intendere, a sua volta, come lo status giuridico in forza del quale un soggetto è riconosciuto idoneo ad essere autore di atti o titolare di situazioni), risultando limitato alle sole persone naturali (non già a quelle giuridiche o artificiali) che sono le sole a possederne i requisiti psico-fisici (Ferrajoli, 2007).

 

La differenza tra imputabilità penale e personalità risiede pertanto nel fatto che questa, al pari delle due capacità (la capacità giuridica e la capacità d’agire) che la compongono, è uno status giuridico istituito da più regole costitutive che si rinvengono, specificatamente, nel Codice civile approvato nel 19425. Le persone che non hanno la piena capacità di intendere e di volere (o per ragioni di età anagrafica o per situazioni patologiche permanenti e/o transitorie) non sono pertanto, nel nostro ordinamento giuridico, imputabili, e possono essere sottoposte a quelle misure di protezione che si concretano nell’interdizione (art. 414 del Codice civile6), nell’inabilitazione (art. 415 c.c.7) e nell’amministrazione di sostegno (Legge 9 gennaio 2004, n. 6: “Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonchè relative norme di attuazione, di coordinamento e finali”8): questi istituti giuridici si riferiscono, peraltro, a persone che, rispettivamente, si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che le rende incapaci di provvedere ai propri interessi, ai maggiori di età infermi di mente ma non in modo così grave da procedere all’interdizione ed alle persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana.

 

C’è, dunque, da chiedersi se la volontà decisionale della persona anziana possa essere identificata, nell’ambito del rapporto e delle scelte di cura, con la capacità di intendere e di volere o se essa, al contrario, richieda una più ampia valutazione multi-assiale che la esplori in relazione alla capacità cognitiva di (Petrini, 2008):

  • esprimere una scelta (expressing a choice: è, questo, un criterio-soglia perché la persona non in grado di esprimere la sua scelta non è certo in grado di partecipare costruttivamente al processo che fonda la scelta decisionale);
  • comprendere le informazioni fornite (understading);
  • dare un giusto peso alla situazione ed alle sue possibili conseguenze (appreciation);
  • utilizzare razionalmente le informazioni, ponderando le alternative terapeutiche in relazione al loro effettivo impatto sulla qualità della vita (reasoning).

 

Tali valutazioni competono, a nostro personale giudizio (Cembrani et al., 2005), al medico che ha in carico la persona con gli strumenti di lavoro normalmente utilizzati nel rapporto di cura; il ricorso indiscriminato, in tali casi, alla consulenza psichiatrica non sembra, infatti, né pertinente né appropriato (a meno che non si adoperi tale consulenza in chiave di “medicina difensivista”) dovendo essere la medesima circoscritta a rarissime situazioni (esplicitamente previste dalla legge n. 180/1978) ed indipendentemente dal dissenso (ed ovviamente dall’adesione) espressi dalla persona al trattamento sanitario, perché accade spesso che la competenza decisionale sia considerata direttamente proporzionale al grado di adesione che la medesima esprime al trattamento stesso; in altre parole, se il paziente esprime il consenso alle cure, sia pur in una situazione di dubbia capacità, il problema di approfondirla non si pone, mentre, al contrario, il rifiuto alle cure costituisce – sempre e comunque – un valido motivo per ricorrere alla consulenza psichiatrica finalizzata a misurarne la capacità decisionale se non, addirittura, a fornire la prova dell’esistenza di un’(in)-capacità di intendere e di volere.

 

Ed anche il ricorso, indiscriminato, a test di valutazione cognitiva, quale il MMSE, per valutare la competenza decisionale della persona, appare inopportuno perché non in grado di esplorarne i diversi domini, come inappropriata sembra essere la definizione di un cut-off al di sotto del quale tale capacità risulterebbe sempre e comunque compromessa; l’utilizzo dei test e delle interviste semi-strutturate (prospettive di tutto interesse, apre al riguardo l’intervista semi-strutturata condotta con la MacArthur Competence Assessment Tool-Treatment9), che esplorano i 4 domini poc’anzi ricordati, è certamente utile ma non deve e non può sostituire un giudizio che deve scaturire dall’osservazione della persona, dal colloquio ripetuto con la stessa e dall’ascolto che, più di tutti, è in grado di offrire straordinarie informazioni nella ricostruzione della personalità e dei “pesi” decisionali di ciascun individuo.

 

Conclusioni

Nei paragrafi precedenti abbiamo articolato le nostre considerazioni in una prospettiva diversa, e probabilmente insolita, rispetto al modo tradizionale di affrontare il tema in esame, stimolati dalla necessità di ampliare – sviluppandola – la prospettiva clinica con il contributo offerto da altre scienze.  Provando a sviluppare, a questo punto, le nostre personali considerazioni, dobbiamo sottolineare che le poche indagini conoscitive condotte sul campo confermano, innanzitutto, che il presupposto della competenza decisionale dell’ anziano viene ampiamente categorizzato dai professionisti della salute che ne colgono, prioritariamente ed in modo del tutto parziale, i soli contenuti di rilevanza giuridica a discapito di quelli, altrettanto indefettibili, di ordine etico-deontologico, che la caratterizzano in relazione al significato biografico della persona.

 

Questo processo di categorizzazione appare del tutto evidente, ed è all’ origine degli steps comportamentali distorsivi che si colgono nell’esperienza clinica (tra questi, il ricorso indiscriminato alla consulenza psichiatrica nel caso di dissenso formulato dal paziente anziano ad un determinato trattamento sanitario, lo scarso approfondimento della competenza decisionale nel caso opposto, l’idea che quest’ultima si identifica nella capacità giuridica e la certezza che qualsiasi deterioramento cognitivo la comprometta sempre e comunque) e che possiamo ricondurre ad un unico comune denominatore: l’intenzione, del tutto evidente, di stereotipizzare la relazione di cura riducendola, in buona sostanza, a categorie di chiara matrice giuridica che, nella loro generica astrattezza, non si confrontano con i diritti fondamentali della persona garantiti dalla nostra Carta Costituzionale (artt. 2. 3. 13 e 32).

 

Se questo è lo stereotipo, ci dobbiamo chiedere quali sono le cause che hanno innescato i biases cognitivi che lo hanno originato (e che tendono, rigidamente, a (ri)-produrlo) e quali sono i possibili correttivi da porre in essere senza indugi. Se è vero che le cause sono probabilmente molteplici, e che esiste la necessità di indagarle attraverso studi specifici, resta da chiedersi se lo stereotipo della capacità di intendere e di volere con cui viene oggi definita (e circoscritta) la competenza decisionale dell’anziano è un qualcosa che deve essere combattuto o se, al contrario, esso è un fenomeno naturale che va accettato e con il quale pacificamente convivere. La risposta a questa domanda non è scontata: personalmente siamo però propensi a ritenere che ogni stereotipo rappresenta una criticità che può diventare pregiudizio nella misura in cui i tratti che lo costituiscono si discostano dalla ragione originale che ha indotto il raggruppamento in categoria.

 

In questa prospettiva, a noi pare che lo stereotipo della capacità di intendere e di volere, per come esso si è delineato nella pratica clinica, deve essere combattuto con forza e rigore: i biases cognitivi, vieppiù focalizzati sulle necessità contingenti di arginare il problema della responsabilità medica, hanno, infatti, finito con l’annullare la reale dimensione etica entro la quale il rapporto di cura si colloca, esprimendo la compiuta realizzazione dell’autonomia della persona umana e, contestualmente, il rapporto di prossimità e di solidarietà tra il professionista della salute e la medesima (Cembrani, 2004; Cembrani et al., 2006; Cembrani e Cembrani, 2006).

 

Lo stereotipo giuridico della capacità di intendere e di volere, all’interno del quale si comprime il progetto biografico della persona, deve essere, come tale, contrastato, con strategie ad ampio raggio che la psicologia sociale ha individuato:

  • nel modello di tipo contabile che postula la possibilità di modificare gli stereotipi attraverso un processo graduale conseguente all’accumulo di informazioni che lo contraddicono;
  • nel modello di conversione grazie al quale il cambiamento si verifica immediatamente grazie all’impatto di informazioni molto convincenti che contraddicono lo schema stereotipico tradizionale;
  • nel modello della sottotipizzazione attraverso il quale si creano specifici sotto-gruppi della categoria al fine di modificare/eliminare lo stereotipo.

 

Peraltro, è poco probabile che il modello di conversione si possa realizzare nella realtà sociale essendo del tutto risaputo che, nel venire a contatto con informazioni discordanti con lo stereotipo, il soggetto umano è in grado di neutralizzare le incoerenze con una spiegazione razionale. Per questa ragione, nell’obiettivo dichiarato di modificare lo stereotipo, occorre che i comportamenti che lo contraddicono siano numerosi e ripetuti (le informazioni che lo smentiscono sono facilmente dimenticate e/o sono ricordate con maggiore difficoltà) ed occorre, altresì, identificare quali sono i sottotipi della categoria che, risultando anch’essi stabili, sono in grado di contraddire la credenza stereotipica: l’attenzione, a quest’ultimo riguardo, dovrebbe più opportunamente focalizzarsi sui rapporti tra etica, deontologia e diritto, sul processo comunicativo, sugli skils di ascolto e sui diversi domini della competenza decisionale con l’obiettivo di responsabilizzare i professionisti della salute, di contrastare le visioni difensiviste che oggi caratterizzano, purtroppo, il porsi professionale e di sviluppare, contestualmente, le capacità umane e relazionali del medico per contraddire – di fatto – la stereotipia.

 

La necessità che si impone è, dunque, quella di un raccordo inter-professionale ed inter-culturale che meglio sappia rappresentare la competenza decisionale della persona: competenza che non può essere, riduttivamente, identificata nello stereotipo della capacità di intendere e di volere che si confronta sì, astrattamente, con il piano giuridico, ma senza però considerare il progetto biografico (e l’idea di dignità) della persona stessa.

Note

1. Il significato etimologico della parola stereotipo (dal greco stereòs, rigido, e tùpos, impronta) non è scontato. Nel dizionario della Lingua italiana di Devoto Oli (Ed. 2004-2005) essa esprime, infatti, significati diversi, identificando:

  • Un sistema di riproduzione a lastre (la stereotipia è un’operazione tecnologica che consiste nella riproduzione in un blocco fuso delle forme composte con caratteri mobili, ottenuta mediante impressione con presse idrauliche o meccaniche dei caratteri mobili su un tipo speciale di cartone);
  • In psicologia, qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, cioè non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali;
  • In linguistica, lo stesso che luogo comune o frase fatta;
  • In filosofia del linguaggio, parte del significato che viene associato normalmente dal parlante ad un’espressione linguistica come insieme di caratteristiche tipiche e normalmente conosciute.

La parola stereotipo nasce, in realtà, nell’ambiente tipografico dove fu coniata verso la fine del ‘700 per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse, anche se la sua introduzione, nell’ ambito delle scienze sociali, si deve al giornalista Walter Lippmann (Lippmann che, nel 1922, nel volume Public Opinion, sostenne che il rapporto conoscitivo con la realtà esterna non è diretto, risultando mediato dalle immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma, e rilevando, in tale processo di formazione, il forte condizionamento della stampa: tali immagini mentali, secondo Lippmann, costituiscono un processo di semplificazione della realtà ed hanno la caratteristica di essere fisse, grossolane e soprattutto rigide, in quanto profondamente ancorate nella cultura del tempo e nella personalità degli individui. Lo stereotipo, essendo il frutto di una scorciatoia mentale, rappresenta, dunque, un modo parziale ed inadeguato di rappresentare il mondo poiché presenta immagini così esagerate e generalizzate degli altri che finiscono con l’annullare ogni variabilità individuale; in pratica, lo stereotipo costituisce il nucleo cognitivo del pregiudizio (Mazzara, 1997; Villano, 2003) (dal latino praeiudicium, derivata da iudicium) che, a sua volta, identifica un’opinione pre-concetta, capace di fare assumere comportamenti inadeguati nel giudizio e nei rapporti sociali.

2 Alla nascita la persona umana acquisisce la capacità giuridica (art. 1 del Codice civile) che deve essere intesa come lo status giuridico in forza del quale un soggetto può essere titolare di situazioni o, più opportunamente, l’attitudine dell’uomo ad essere titolare di diritti e di doveri.

3 Art. 85 c.p. (Capacità di intendere e di volere) – Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere.

4 Art. 2 c.c. (Maggiore età. Capacità di agire) – La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa. Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.

5 La situazione è, come si vede, complessa sul piano degli intrecci normativi anche se ciò che è rilevante, per i fini che ci siamo proposti, è la circostanza che la capacità di intendere e di volere, posta a fondamento dell’imputabilità penale e della capacità di agire, è un parametro che, pur confrontandosi con le regole del positivismo giuridico, poco considera la capacità della persona di valutare le proprie azioni in relazione al personale stile di vita, alle preferenze, ai valori di riferimento (morali, filosofici, religiosi, politici, ecc.), alle aspettative, all’immagine che ciascuno di noi ha il diritto di lasciare di sé e a quanto, con una parola spesso abusata, definisce la dignità (ed il significato biografico) di ogni essere umano.

6 Art. 414 (Persone che devono essere interdette) – Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti.

7 Art. 415 (Persone che possono essere inabilitate) – Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all’interdizione, può essere inabilitato (417 e seguenti, 429). Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità (776), o per abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti, espongono sé e la loro famiglia a gravi pregiudizi economici. Possono infine essere inabilitati il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un’educazione sufficiente, salva l’applicazione dell’art. 414 quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi.

8 Art. 404 (Amministrazione di sostegno) – La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.

9 Si tratta di un’intervista semi-strutturata di agevole somministrazione nella pratica clinica (20-30 m’), composta da 10 item (con punteggi da 0 a 2) che esplorano i 4 domini della competenza decisionale della persona in situazioni reali (non fittizie) che richiede, peraltro, specifici skils professionali (professionisti specificatamente formati) e che non considera nessun cut-off pre-determinato essendo un ausilio alla decisione.

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