6 Luglio 2023 | Dati e Tendenze

Una letteratura gerontologica e geriatrica sempre più raffinata

Le modifiche causate dall’invecchiamento sul funzionamento cerebrale e su vari aspetti connessi alla cognitività (metabolismo, equilibrio, cammino) sono oggetto da tempo di analisi e studi epidemiologici e clinici, resi disponibili tramite pubblicazione su riviste scientifiche e sempre più raffinati. L’articolo propone una revisione della letteratura su questi temi, specie riguardo ai contributi più recenti, nell’ottica di condividere conoscenze e spunti di riflessione utili in ambito clinico e preventivo.

Una letteratura gerontologica e geriatrica sempre più raffinata

 

Quello che non vedo, non lo capisco

Hildegard von Bingen

 

La letteratura gerontologica e geriatrica si sta sempre più raffinando, in contenuti e metodi, come è possibile constatare anche leggendo giornali di medicina generale; ne dà testimonianza la rivista JAMA (Journal of American Medical Association), scelta come emblema sia per il suo rilievo internazionale, che per l’ampia libertà di accesso ai suoi articoli, in rete. Gli esempi illustrati spaziano dalla biologia all’epidemiologia alla clinica; il punto di convergenza prevalente – non unico – è il deterioramento cognitivo (o per converso la salute cerebrale); la chiave di lettura è rappresentata dalle possibilità di intervento, a livello sia individuale che collettivo.

 

 

Fattori di rischio per demenza

Nell’ultima versione, la commissione Lancet sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza ha identificato 12 fattori di rischio cui può venire attribuito fino al 40% dello sviluppo della demenza (Livingston, et al., 2020). Tuttavia, spesso si trova incoerenza tra gli studi osservazionali e quelli di intervento. Le associazioni individuate nei primi non equivalgono alla causalità, per fattori confondenti sottostanti, e soprattutto della “causalità inversa”, che può spiegare il mutamento di significato dei fattori di rischio lungo il corso della vita, specie in tarda età. Viceversa, i trials clinici rischiano di essere inefficaci se gli studi intervengono a danno neurologico ormai consolidato, o se hanno una durata troppo breve.

 

Pertanto una vastissima collaborazione di impronta genetica, centrata sulla biobanca europea per la malattia di Alzheimer e la demenza, in un articolo molto recente (Frikke-Schmidt, et al., 2023)  si pone il quesito di quale sia la base genetica nelle associazioni tra i fattori di rischio modificabili e la malattia di Alzheimer. A questo scopo, viene adoperato il disegno di studio secondo la “randomizzazione mendeliana” (MR), che sfrutta le varianti genetiche associate ai fattori di rischio per indagare le potenziali relazioni causali tra tali fattori e gli esiti in esame. L’esposizione, così, è intrinsecamente permanente, mentre l’allocazione casuale delle varianti genetiche minimizza i fattori di confondimento e il rischio di causalità inversa.

 

La MR – con i relativi sviluppi statistici – è stata applicata ai 12 fattori di rischio modificabili: scolarità, lipidi ematici (varie componenti), indice di massa corporea, fumo di tabacco, consumo di alcol, pressione arteriosa (sistolica e diastolica) e diabete mellito di tipo 2. L’indagine è stata condotta su una coorte composita di vari campioni, che racchiudeva 39.106 persone con malattia di Alzheimer clinicamente diagnosticata (età compresa fra 72 e 83 anni) e 401.577 soggetti di controllo (età compresa fra 51 e 80 anni); la prevalenza complessiva delle femmine non era soverchiante.

 

Semplificando, la MR ha scremato solo due associazioni tra varianti genetiche e fattori di rischio modificabili; tali associazioni persistevano anche restringendo il campione per “analisi di sensibilità” (per definizione deputate ad approcciarsi alla causalità, a fronte di variabili confondenti non misurate, quantificando la forza di una associazione, secondo i classici criteri di Bradford Hill). Ne è risultato che, per ogni deviazione standard crescente della colesterolemia HDL determinata geneticamente, il rischio di malattia di Alzheimer (Odds Ratio – OR: “probabilità positiva”) sale del 10%, con un intervallo di confidenza (CI) al 95% = 1.05-1.16. Inoltre, per ogni 10 mmHg di aumento determinato geneticamente nella pressione arteriosa sistolica, la probabilità positiva di malattia di Alzheimer sale del 22% (OR = 1.22; 95% CI = 1.02-1.46).

 

Il ruolo protettivo dell’educazione formale viene ribadito nella maggior parte delle analisi statistiche, ma non in tutte. Quanto al colesterolo HDL, è noto che la sua componente a particelle di piccole dimensioni gioca un ruolo benefico sulla cognitività, favorendo la plasticità sinaptica e la rimozione della β amiloide. Ma la tendenza della componente a piccole dimensioni ad aggregarsi spontaneamente nella forma a grandi particelle – spezzando l’equilibrio tra plasma e liquido cerebrospinale – può restituire plausibilità biologica a un risultato di non immediata interpretazione. Riguardo la pressione arteriosa, il risultato sulla pressione sistolica vale solo dopo aggiustamento per i valori di pressione diastolica; quest’ultima – indipendentemente, in alcune analisi – gioca un ruolo opposto: incrementi geneticamente determinati nella pressione diastolica sono associati a OR inferiori a 1 (e quindi protettivi). Un altro tassello nella lunga e sfaccettata discussione sul rapporto tra pressione arteriosa e salute del cervello, relazione mutevole anche in funzione del periodo di vita e della durata prospettica dell’osservazione.

 

Le difficoltà interpretative di questo lavoro non devono a mio avviso sminuire il valore concettuale della sua impostazione di fondo. Inoltre, nell’entità modesta – per numerosità e per forza dell’effetto – della componente genetica, trovo assonanza con i risultati della ricerca australiana sui gemelli (Koncz, et al., 2022), studiati mediante tomografia a emissione di positroni. La conclusione riporta letteralmente: “la deposizione di amiloide, contrassegno precoce della malattia di Alzheimer, sottostà a un controllo genetico moderato, suggerendo un contributo ambientale prevalente, suscettibile di intervento”.

 

 

Calo ponderale e obesità

Un recente lavoro (Hussain, et al., 2023) riporta il severo effetto negativo del calo ponderale rispetto alla sopravvivenza, nelle persone anziane: per un calo del 10% nel peso corporeo, la mortalità quasi triplica entro una manciata di anni. La ricerca merita, a mio avviso, qualche rilievo di approfondimento e di confronto con altri studi recenti. Lo studio longitudinale retrospettivo è stato ricavato dai dati del trial randomizzato sull’efficacia preventiva dell’aspirina (ASPirin in Reducing Events in the Elderly – ASPREE), che ha coinvolto oltre 19.000 persone di 75 ± 4,3 anni, di ambo i sessi, sostanzialmente in buone condizioni di salute e validità. Già qui si rileva una caratteristica che contraddistingue la ricerca, laddove altre hanno riguardato casistiche più contenute e maggiormente segnate da problematiche sanitarie varie, portando a risultati meno netti e/o parziali. Inoltre, gli effetti – non sempre corretti per ricoveri ospedalieri recenti – si basavano su esiti auto-riferiti, che possono comportare un errore di classificazione fino al 30% dei casi.

 

Nello studio ASPREE post-hoc, invece, l’eccesso di mortalità investe maschi e femmine, sia per tutte le cause che per gruppi di motivi (cardiovascolare, neoplastico, altro). L’aggravio si mantiene dopo aggiustamento per un’ampia e varia serie di fattori (tra cui età, fragilità fisica secondo il fenotipo di Fried, ipertensione arteriosa, diabete mellito, fumo, indice di massa corporea basale): vale a prescindere dal peso di partenza, anche per le persone inizialmente obese. Viceversa, l’aumento di peso non comporta effetti nefasti.

 

I risultati dello studio ASPREE post-hoc sono stati confermati anche nelle “analisi di sensibilità”, tra cui l’esclusione di soggetti con deterioramento cognitivo all’inizio dell’osservazione. Anche se non viene menzionato esplicitamente, né tantomeno discusso nell’articolo di JAMA, di fatto qui è chiamato in causa il “paradosso della obesità” in ambito cognitivo, secondo il quale un peso elevato preserva le prestazioni cognitive in età avanzata. In un articolo pubblicato su PLoS ONE (Kronschnabl, et al., 2021) viene criticato tale assunto, discusso in letteratura da 30 anni. Gli autori bavaresi concludono che l’associazione – di entità modesta – tra cambiamenti nel peso corporeo e capacità cognitive è sostenuta dal recupero ponderale nella fase di recupero dopo una precedente malattia.

 

Qualche settimana dopo l’articolo di JAMA, Lancet Healthy Longevity pubblica un articolo originale e un articolo di commento sul rapporto tra multimorbosità cardiometabolica, stili di vita e funzione cognitiva. L’articolo originale (Jin, et al., 2023) riporta il detrimento su un indicatore cognitivo composito: memoria (verbale immediata e differita) + capacità numeriche (sottrazioni seriate) + orientamento (temporale); la prestazione decresce a seconda della compresenza di uno o più tra cardiopatia, diabete e ictus (in particolare, degli ultimi due). Il declino cognitivo così prodottosi viene accelerato da ciascuno stile di vita sfavorevole: consumo eccessivo di alcol (oltre 14 dosi settimanali per i maschi / 7 per le femmine), fumo, sedentarietà. L’obesità rientrava nel novero delle covariate di natura clinica, cui si affiancavano quelle di natura socio-demografica, per cui le associazioni venivano corrette.

 

L’articolo di commento (Dove, Xu, 2023) inizia sottolineando come l’influenza della comorbosità cardiometabolica sull’invecchiamento cognitivo sia stata esplorata solo a partire da una decina di anni. Lo studio originale oggetto di commento si inserisce in tale scia, portando il contributo di una casistica particolarmente numerosa (oltre 160.000 soggetti) proveniente da indagini compiute in contesti socio-culturali diversi: Stati Uniti (HRS), Inghilterra (ELSA), Europa (SHARE) e Cina (CHARLS). I due commentatori – alla luce di proprie ricerche – aggiungono anche il ruolo della severità delle malattie, e concludono auspicando futuri studi longitudinali che esplorino il possibile ruolo protettivo di altri fattori quali la dieta e l’interazione sociale, tenendo conto dell’assetto genetico e del contesto socio-economico: elementi, questi ultimi, che indicherebbero tendenze a diverse modalità di aggregazione dei fattori di rischio.

 

In un articolo pubblicato  su The Journals of Gerontology (Kontari, et al., 2023) il maggior rischio di demenza incidente era a carico di soggetti con situazioni cardiometaboliche “complesse” in ELSA e HRS, e di quelli obesi – ipertesi in CHARLS, al confronto coi soggetti “relativamente sani / obesi sani”, che costituivano la classe di riferimento (pur includendo una rilevante quota di persone obese).

 

 

Controllo glicemico

Anche i dismetabolismi – e in particolare quelli glicemici – contribuiscono al rischio di sviluppare demenza, ma rimangono aree oscure. Una collaborazione tra università statunitensi e australiane, in un recente articolo su JAMA Neurology (Moran, et al., 2023), ha investigato il rapporto – ancora poco definito (Zheng, et al., 2021) – tra controllo glicemico e sviluppo di demenza, in persone con diabete mellito di tipo 2, a partire dalla mezza età. Conoscere i livelli ottimali di controllo glicemico in questo frangente comporta rilevanti implicazioni preventive, nella consapevolezza che un controllo “aggressivo” può risultare pericoloso, specie per le persone più anziane. Non a caso, le raccomandazioni di pratica clinica individualizzata della American Diabetes Association riguardo ai valori di glicemia, pressione arteriosa e lipidemia per le persone anziane (American Diabetes Association, 2021) vengono definite “rilassate” dagli autori su JAMA.

 

Per rispondere al quesito, sono stati studiati, lungo 5,9 ± 4,5 anni, 253.211 ultra50enni diabetici (età media 61,5 ± 9,4 anni, 53,1% maschi), iscritti nel registro dell’associazione Kaiser Permanente Northern California (KPNC): un’importante associazione che fornisce cure mediche integrate a 4 milioni di californiani, di varie etnie, i cui associati sono rappresentativi della popolazione generale di quello stato. Dalle cartelle elettroniche sono stati estratti 4,6 milioni di rilievi seriati di emoglobinemie glicate, oltre ai dati socio-demografici e clinici adoperati come covariate. Come in molti fenomeni biologici, anche qui si disegna una forma a J, dove i minori rischi di demenza – di ogni tipo, espresso come “rapporto di rischio” (Hazard Ratio-HR) – si trovano nella fascia di emoglobinemia glicata compresa tra < 6 e < 7,9. Per quanto lo studio non si ponesse tale obiettivo, i risultati confermavano il relativo vantaggio di una stabilità nei valori glicemici, laddove loro ampie variazioni sono notoriamente associate a una serie di eventi negativi (mortalità per tutte le cause, patologia cardiovascolare, nefropatia, neuropatia periferica).

 

Tornando ai quesiti espliciti di ricerca, quanto più il controllo glicemico era prossimo a quello delle raccomandazioni ufficiali (emoglobina glicata compresa tra 6 e 8%), tanto più il rischio di sviluppare demenza si riduceva di quote sensibili (HR abbassati tra -1 e -5%, a seconda del livello metabolico di partenza, per ogni 10% di misurazioni di emoglobine glicate riportate nell’ambito desiderato). Ancora nella KPNC, 632 donne 68enni hanno mostrato prestazioni migliori rispetto a 607 coetanei maschi in quasi tutti gli ambiti cognitivi esplorati (cognitività globale, linguaggio, funzioni esecutive, attenzione e memoria verbale), a prescindere dalla presenza e dal tipo (1 o 2) di diabete (Moran, et al., 2021). Lo studio di JAMA da cui siamo partiti concorda con, ed estende, i risultati di una recente indagine condotta nel Regno Unito su quasi mezzo milione di persone. In questo lavoro pubblicato su Diabetes Care, già richiamato (Zheng, et al., 2021), si riporta che, nell’arco di 6 anni, l’incidenza di demenza è associata sia all’evenienza di episodi ipoglicemici, che alla presenza di complicazioni micro vascolari, e inoltre a un cattivo controllo glicometabolico, testimoniato sia da valori elevati in emoglobina glicata che da ampie oscillazioni nei tassi di quest’ultimo parametro.

 

Andando oltre ai riferimenti bibliografici citati nel lavoro di riferimento su JAMA, l’effetto a lungo termine della variabilità nella glicemia viene ripreso da una rassegna sistematica con meta-analisi di studi di coorte (Chen, et al., 2022). Specificatamente nei confronti della demenza di Alzheimer, è stato trovato un rapporto di rischio = 1,38 (con intervallo di confidenza al 95% = 1,13 – 1,7) col coefficiente di variazione % della emoglobina glicata, misurato dal rapporto % tra la deviazione standard e la media del valore di emoglobina glicata.

 

Fortunatamente, al fine di impostare terapie ipoglicemizzanti efficaci, sicure e individualizzate, sono disponibili nuovi farmaci – alcuni come farmaci generici, quali gli inibitori del trasportatore renale del sodio – glucosio 2 (SGLT2), gli analoghi del GLP-1 (glucagon-like peptide 1) e gli inibitori del DPP-4 (dipeptil-peptidasi 4). Alcuni di tali farmaci trovano indicazioni specifiche relative a problematiche cardiocircolatorie e renali, a prescindere dagli effetti sul controllo glicemico, e sui suoi livelli (D’Andrea, et al., 2023); sono tutti piuttosto sicuri rispetto al rischio di ipoglicemia, e – soprattutto – sembrano essere più vantaggiosi negli anziani in confronto alle altre fasce di età (Pilla, et al., 2022). In sostanza, la stabilità dei parametri metabolici sembra costituire la situazione più favorevole per un buon invecchiamento cerebrale.

 

 

Equilibrio

Nonostante sia una funzione di importanza basilare per la vita di ogni giorno, l’equilibrio non riceve abitualmente un’attenzione corrispondente nell’esame clinico consueto. Perciò è importante trovare un sistema standardizzato abbastanza semplice da poter essere diffuso e incorporato nella pratica quotidiana. A questo scopo risponde uno studio che ha avuto risonanza anche nei mezzi di comunicazione di massa, che aveva per oggetto il test dell’equilibrio monopodalico per 10 secondi (Araujo, et al., 2022).

 

In effetti, si tratta di una prova molto semplice: occorre rimanere in equilibrio su una sola gamba, tenendo il dorso del piede scarico sollevato e appoggiato al polpaccio della gamba sotto carico, e gli arti superiori liberi lungo i fianchi, mentre lo sguardo mira a 2 metri di distanza. È sufficiente un tempo minimo per portare a compimento il test, un cui analogo – ma basato sulla durata della prova – era poco applicabile in ambito clinico.

 

Nella coorte CLINIMEX, che comprende persone di ambo i sessi tra 6 e 99 anni, all’indagine trasversale su 2.978 uomini e donne di età compresa tra 41 e 85 anni, poco dopo i 70 anni metà del campione non riusciva a superare la prova. L’influenza dell’età sul completamento della prova era evidente: al di sotto dei 45 anni non vi riusciva meno dell’1%, sopra gli 80 anni non vi riusciva quasi nessuno. In un campione di CLINIMEX di uomini (68%) e donne di età compresa tra 51 e 75 anni (media 61,7 – deviazione standard 6,8) una persona su 5 falliva la prova, secondo una percentuale che raddoppiava a ogni lustro di età: 4,7% dei 51-55enni, 8,1% dei 56-60enni, 17,8% dei 61-65enni, 36,8% dei 66-70enni, 53,6% dei 71-75enni. Le persone che non superavano la prova erano tendenzialmente meno sane della controparte che vi riusciva. I fattori più strettamente correlati all’esito negativo del test erano l’età (come abbiamo visto) e il rapporto tra circonferenza addominale e altezza (a svantaggio dei più pingui). Va precisato che i soggetti indagati erano brasiliani rivoltisi spontaneamente a un ambulatorio di medicina dell’Università di Rio de Janeiro, per ottenere una valutazione e consigli relativi alla loro forma fisica.

 

Nel volgere di un’osservazione di durata mediana di 7 anni (ambito interquartile circa 4-9 anni), il 7% dei partecipanti è deceduto, per cause sovrapponibili tra chi superava o meno il test di equilibrio. Chi però non riusciva a mantenere la stazione monopodalica per 10 secondi aveva l’84% di probabilità in più di morire, dopo aggiustamento per molte variabili socio-demografiche e cliniche: ciò si traduceva in una differenza assoluta del 12,9% (mortalità del 17,5% tra le persone instabili, contro 4,6% in quelle stabili).

 

Gli autori – provenienti da Brasile, Finlandia, Australia, Regno Unito e California – sono consapevoli dei limiti espliciti del lavoro: in particolare, la mancanza di informazioni su elementi rilevanti quali l’anamnesi specifica su cadute precedenti, le abitudini rispetto ad attività fisica, alimentazione e fumo, la farmacoterapia. Ciò nonostante, la validità dello studio sta nella semplicità e uniformità del metodo, che lo rende facilmente esportabile. I risultati in quanto tali non sono automaticamente generalizzabili in altri contesti, ma il loro significato di fondo è allineato ad altra letteratura, remota e recente.

 

A mio avviso, vi sono buoni motivi per sottolineare questo lavoro: il primo consiste nella dimensione del problema, che – almeno negli Stati Uniti – sta ulteriormente aggravandosi col passare del tempo, già partendo da livelli di particolare serietà. Nel 2020 sono occorse 42.114 morti dovute a cadute, di cui l’86% riferite a ultra65enni: quasi 4 volte rispetto a quanto successo nel 1999; l’incremento di tali esiti tragici ha interessato in modo particolare i maschi bianchi, di solito considerati come una categoria relativamente privilegiata. La breve lettera di ricerca di JAMA non fa nessun cenno sulle possibili cause del fenomeno (Santos-Lozada, 2023). Un’altra recente ricerca (Blackwood, et al., 2023) propone l’equilibrio statico (misurato mediante la capacità di tenere la posizione in semi-tandem per 10 secondi), meglio se abbinato con la forza di stretta del pugno, come fortemente predittivo della capacità cognitiva (sia per funzioni esecutive, misurate col semplice test del disegno dell’orologio, che per la memoria verbale differita). Tanto la capacità di stazione in semi-tandem, quanto la stretta del pugno, diminuiscono con l’invecchiamento.

 

Un ulteriore motivo consiste nel raffronto – qui sintetizzato – tra gli andamenti nel tempo dell’equilibrio statico e di altre funzioni fisiologiche. Infatti, l’equilibrio statico declina rapidamente a partire dalla sesta decade, rimanendo prima relativamente preservato  (Springer, et al., 2023). Un andamento simile riguarda il declino della forza di stretta del pugno nelle donne, mentre il calo negli uomini segue un andamento meno marcato e meno segnato da uno scalino, che è posto attorno ai 30 anni (Vianna, et al., 2007). La flessibilità nelle articolazioni – in particolare alle spalle e al tronco – decresce in modo progressivo con l’età, con un vantaggio per le donne sia per la rapidità (attenuata) che per l’esordio del declino: questo si colloca intorno ai 40 anni nelle donne, intorno ai 30 anni negli uomini (de Oliveira, et al., 2013). Il consumo massimo di ossigeno diminuisce invece del 9% per ogni decade, a partire dall’inizio della terza decade. Tornando all’equilibrio statico, va ricordata la possibilità di migliorarlo, allenandolo (Keating, et al., 2021).

 

 

Cammino

Ormai è risaputo che il cammino non è solo un’attività automatica e ripetitiva, ma chiama in causa attività cognitive, in particolare l’attenzione. D’altra parte, il cammino è spesso praticato simultaneamente ad altre attività cognitive, quali pensare, parlare, leggere la segnaletica, prendere decisioni. Da qui il rilievo “ecologico” dei test “duali”, dove la marcia è abbinata a compiti cognitivi; una metrica particolarmente utile è costituita dal “costo” del test duale, calcolato come % nella differenza nella prestazione locomotoria tra cammino semplice e cammino associato all’impegno cognitivo. Negli ultra65enni – dove anche lievi impacci cognitivi si accompagnano a instabilità, rilevata per esempio dalla variabilità tra passi successivi, e rischio di caduta – minori prestazioni al test duale sono predittive di futuro declino cognitivo. In caso di deterioramento cognitivo lieve, un “costo” relativamente alto nella velocità di marcia si associa a maggior rischio di conversione a demenza nel giro di due anni.

 

Sinora il ruolo delle funzioni cognitive sul controllo locomotorio nell’età di mezzo, e su come e quando tale collegamento si modifichi invecchiando, non è stato studiato, nonostante proprio tale periodo della vita – tra 40 e 65 anni – sia critico rispetto all’insorgenza delle malattie correlate all’età. Un’indagine compiuta in Catalogna mira a colmare tale lacuna, analizzando i dati secondari di una ricerca longitudinale tuttora attiva sull’invecchiamento cerebrale (Zhou, et al., 2023).

 

A Barcellona sono stati analizzati oltre 600 soggetti di ambo i sessi, sani a livello neurologico, psichico, cognitivo e muscolo scheletrico, capaci di deambulare autonomamente. Veniva chiesto loro di camminare tranquillamente per 45 secondi, e di ripetere la prova, sempre alla velocità di passo preferita, sottraendo ripetutamente 3 da un numero casuale di tre cifre; le prestazioni locomotorie venivano registrate tramite un programma apposito inserito in un telefonino. Una valutazione neuropsicologica esaminava, oltre alla cognitività generale, alcuni ambiti specifici: velocità di processazione delle informazioni, memoria di lavoro, memoria episodica, flessibilità e ragionamento.

 

Ne è risultato che, mentre le prestazioni locomotorie nella condizione “semplice” rimanevano costanti con l’avanzare degli anni, fra i 40 e i 65 anni, i medesimi parametri cominciavano a peggiorare dalla metà della sesta decade, nella condizione di test duale. In particolare, i “costi” % nella velocità di cammino e nella variabilità tra un passo e l’altro si impennano dai 54 anni, mentre il tempo mediamente impiegato a compiere un singolo passo, e la relativa variabilità – misurati in secondi – crescono a partire dai 57 anni; in tutti i casi si rileva un’ampia variabilità interindividuale. I risultati ottenuti con le metriche del compito duale concordano con i riscontri morfo-funzionali alle neuroimmagini, che iniziano a modificarsi alle medesime età. Nel sottogruppo di età ≥ 54 anni, tanto migliore era la cognitività globale, tanto più bassi erano i due costi indicati. Sempre negli ultra54enni, entrambi i costi sopra indicati, e anche la variabilità nella durata del passo durante il cammino combinato con le sottrazioni seriali, erano correlati negativamente con due dei cinque ambiti cognitivi specifici esaminati: a migliori capacità in velocità di processazione e in memoria di lavoro corrispondevano migliori prestazioni locomotorie. Visto che il cammino con doppio compito costituisce un valido indicatore dell’abilità funzionale, se ne raccomanda l’osservazione nella pratica quotidiana, a partire dalla mezza età.

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