21 Novembre 2023 | Strumenti e approcci

Curare con compassione

Anche in contesti marcatamente sanitari, la dimensione della cura non può prescindere da aspetti di carattere etico ed esistenziale, che orientino la relazione empatica con il paziente e sostengano decisioni e pratiche, a livello individuale e in équipe. Specie nel contesto attuale, segnato da globalizzazione e modernità liquida, occorre interrogarsi sulla dimensione compassionevole della cura, a beneficio dei pazienti e degli stessi operatori: l’articolo propone spunti di riflessione in questa direzione.

Curare con compassione

Ogni persona durante la vita si pone grandi domande: qual è il senso del vivere e del morire, dell’amare, dell’impegnarsi per una famiglia, per un gruppo, per un lavoro, il senso del gioire e del soffrire. Inevitabilmente, questo pensare-agire, verificare-vivere viene rivisto in modo del tutto nuovo nella fase più dolorosa di una malattia: “quale significato, che senso ha la mia vita?”; questa è la domanda che spesso il malato sofferente, tra angosce e paure, si pone. Si tratta di una domanda che incontriamo in quel carico di speranze e nei rischi della disperazione dei malati e delle loro famiglie a cui ci avviciniamo con la nostra solidarietà umana, sensibilità e competenza come operatori sanitari, operatori sociali o volontari.

 

Diritti e dignità dei pazienti

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo riconosce la dignità intrinseca e diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana: tale Dichiarazione è stata determinante per sancire il concetto di dignità umana, su cui si è sviluppata la nozione di diritti dei pazienti. Sostenere e preservare la dignità dei pazienti è un aspetto fondamentale della cura, in qualunque situazione: anche quando una malattia è incurabile, non dobbiamo mai dimenticare che i pazienti hanno bisogno della conservazione della loro dignità, del valore di sé e, non in ultimo, di amore e di affetto.

 

L’assunto di base è chiaro: il diritto alla dignità, all’umanità e all’uguaglianza è universale per tutte le persone, in tutti i contesti (Crescenzo, Mortati, 2014); resta tuttavia ancora molto lavoro da fare, per chiarire il rapporto tra diritti umani e diritto alla salute, compresi i diritti dei pazienti.

 

Un esempio: in uno studio inglese, 72 pazienti geriatrici sono stati intervistati circa l’idea di dignità. I risultati hanno evidenziato che la parola dignità è stata suddivisa in più concetti: dignità di identità (rispetto di sé, autostima, integrità, fiducia); diritti umani (uguaglianza, possibilità di scelta, autonomia, indipendenza, controllo). Citando alcune situazioni in cui hanno perso la loro dignità o il proprio senso di autostima, i pazienti hanno descritto e messo in evidenza i seguenti scenari: essere escluso dal processo decisionale; essere trattato come un oggetto; essere etichettato (Woolhead, et al., 2004).

 

 

Il concetto di compassione

Nell’Antico Testamento troviamo il concetto di compassione nella parola ebraica Hessed, tradotta a volte come misericordia e altre volte come pietà. La parabola del Buon Samaritano viene spesso presentata come il primo esempio di compassione umana, che tutti noi – e in particolare gli operatori sanitari – siamo tenuti a seguire; tuttavia, la posizione della società post-moderna è in antitesi con l’insegnamento morale della parabola del Buon Samaritano.

 

La compassione – dal latino cum patior, soffro con – è un sentimento in base al quale un individuo percepisce la sofferenza altrui, provandone pena e desiderando alleviarla (Volpicelli, Calandra, 1978). La virtù della compassione presuppone che gli esseri umani non sono estranei gli uni agli altri, ma sono in grado di condividere in reciproca passione, di sviluppare rapporti interpersonali, di valutare l’interesse altrui e di agire beneficamente (Nakasone, 1995). In un testo sulla compassione, si sottolinea che questa è la fonte più ricca di energia, di cui tutti abbiamo bisogno più che mai – non per altruismo, filosofia o teologia, ma per sopravvivenza – in un mondo che è divenuto un villaggio globale; l’esilio della compassione è evidente in tutto il mondo (Fox, 1979).

 

 

La relazione empatica con il malato e la ricerca di significato

Nel suo dolore, nella sua sofferenza (pathos), il malato ha bisogno di essere ascoltato, ha bisogno di atteggiamenti affettivi, di valorizzazione e di accoglienza, di essere coinvolto nel processo di cura, di essere accolto e assistito con calore non possessivo; ha bisogno di  avvertire che siamo al suo fianco, che non verrà abbandonato nonostante la sua inquietudine, il suo comportamento, le difficoltà nella relazione. Un’accettazione dell’altro incondizionata, attraverso atteggiamenti che non variano né in funzione dello stato emotivo e del comportamento del malato, né del suo atteggiamento nei nostri confronti.

 

Una considerazione positiva incondizionata, che punta a un coinvolgimento più profondo e a una maggiore fiducia nell’altro; questo perché, come la corrente umanistica della psicologia ha affermato molto tempo fa, nella persona vi è una forza che ha una direzione fondamentale positiva: più l’individuo è capito e accettato profondamente, più tende a lasciare cadere le maschere con cui ha affrontato la vita e più si muove in una direzione positiva, di miglioramento (Rogers, 1970).

 

Il malato sofferente deve poter sperimentare la libertà di provare e di sentire che c’è completa apertura, da parte di chi lo assiste, alla sua esperienza, un’apertura non giudicante; sarà quindi capace di esplorare meglio e di vivere più intensamente quelle situazioni di malattia e di dolore che gli provocano angosce, paure e atteggiamenti di chiusura, e lo sarà ancor di più se durante il suo percorso sono presenti accanto a lui caregiver e operatori capaci e pronti a entrare nel suo mondo percettivo privato. Questo comporta essere sensibili, attimo dopo attimo, ai cambiamenti, alla rabbia, alla paura, alla tenerezza e alla confusione o a qualsiasi altra cosa l’altro stia provando; significa vivere temporaneamente nella vita di un altro, delicatamente, senza esprimere giudizi (Rogers, 1980).

 

Il tutto allo scopo di aiutare i malati a trovare un significato per la loro sofferenza, una finalità e una direzione dignitosa all’intimo dolore esistenziale; una importante finalità da perseguire: altrimenti, alla sofferenza derivante dal vivere un’esistenza di cui non si intravede alcun significato si aggiunge l’ulteriore sofferenza di non trovare un senso alla malattia e al dolore. Si tratta, insomma, di valorizzare al massimo tutte le risorse e le professionalità anche a livello dichiaratamente educativo e spirituale, al fine di rendere attiva la vita dei malati, di fare in modo che passino dall’atteggiamento di patiens a quello di agens.

 

Il malato ha bisogno di sentirsi come abbracciato da un pallium (mantello) di cure e di aiuto che copre tutta la sua persona e quindi la sua spiritualità: cure che passano attraverso gesti affettuosi della mano, attraverso una cordiale conversazione o ancora il silenzio o una preghiera. Questo in quanto è importante comunicare ai malati che buona parte del significato della loro stessa vita consiste nel vincere nell’intimo le loro contingenti infelicità, nel mostrare che sono all’altezza del loro destino anche quando è avverso. Già molti decenni fa è stato espresso il concetto che i malati di cui ci prendiamo cura potranno giungere a considerare la vita come valore solo se saranno supportati e aiutati nel dare un contenuto e uno scopo alla loro esistenza: in altri termini e in breve, chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi come (Frankl, 1977).

 

La presenza del curante compassionevole, accogliente e non giudicante può portare conforto, ridurre l’ansia e quindi mostrare rispetto per i valori del paziente; può funzionare come uno specchio che riflette al paziente e aiutarlo a definire, scoprire ed esprimere il significato della sua vita, del suo dolore, perfino della sua finitudine. Occorre avere coscienza del bisogno che l’uomo ha di attribuire un significato alla propria vita, aiutando il paziente a prenderne coscienza, soprattutto a convincersi che la vita non cessa di avere un significato neppure in mezzo alle sofferenze; anzi, è proprio la sofferenza a offrire la possibilità di realizzare il significato più elevato, il più alto valore possibile dell’esistenza (Frankl, 2005).

 

 

La cura compassionevole come cura di sé

La compassione è una componente fondamentale della cura; la sua mancanza costituisce una crisi relazionale e comunicativa, che si manifesta attraverso le frequenti lamentele dei pazienti. Dobbiamo rafforzare l’importanza di fornire la cura compassionevole come impatto positivo sulla vita di tutti noi; la cura compassionevole è essenziale per erogare una buona assistenza sanitaria, per trasmettere un tipo di cura empatica che accoglie il malato nel suo complesso.

 

La reale comprensione della cura compassionevole permette non solo l’attenzione alla cura dell’altro, ma anche una comprensione della compassionevole cura di sé, intendendo con ciò quella che si apre a una dimensione intersoggettiva. Nessuna esistenza è chiusa entro i confini della propria pelle, ma è strutturalmente relazionale (una realtà inevitabile e inaggirabile): la cura di sé non può che essere pensata in relazione al nostro essere chiamati a con-vivere con gli altri; aspetto che nella sua forma più umanamente significativa si declina come l’assumersi la responsabilità di facilitare negli altri la cura di sé (Mortari, 2009).

 

La cura di sé è una condizione essenziale affinché questo lavoro possa essere effettuato. Con questa espressione si vuole alludere a un complesso lavoro di lettura, di comprensione, di valutazione delle situazioni che sono state agite o promosse, delle pratiche messe in atto, per abitudini o per scelta, individualmente o in équipe. Un lavoro di valutazione pedagogica che consenta a ogni operatore individualmente, ma anche al gruppo di lavoro, di apprendere dalla propria esperienza, per comprendere come ripensare, riprogettare, riproporre la cura. Una valutazione pedagogica umanizzante che include le priorità di tutti i soggetti coinvolti nel processo di cura, mediante una trasformazione nei rapporti tra gli attori coinvolti, con l’attuazione della gestione partecipativa/decisionale, responsabile e condivisa.

 

Il traguardo da raggiungere è la transdisciplinarietà, superando la interdisciplinarietà. Un approccio interdisciplinare prevede l’affrontare insieme varie tematiche intorno allo stesso tavolo, mettendo a disposizione le proprie conoscenze e competenze ma rimanendo, al termine del lavoro insieme, ancorati alle diverse discipline e ai differenti linguaggi di ognuno (Crescenzo, Mortati, 2014). Questo approccio risulta insufficiente e inadeguato per affrontare l’enorme complessità della realtà, che impone sguardo globale e connessioni trasversali: la transdiciplinarietà, derivante dall’influenza reciproca e continua delle diverse discipline, è un approccio più articolato, un’integrazione di punti di vista e uno scambio di esperienze che rende tutti gli attori coinvolti, al termine del lavoro insieme, arricchiti grazie ai contenuti portati dagli altri partecipanti.

 

In tale ottica gli operatori a supporto della cura devono porsi più come consulenti di processo, capaci di aiutare l’altro a descrivere e leggere la sua realtà e a individuare ed esprimere i problemi, in un contesto di apprendimento continuo. Diventa così fondamentale ripensare e ridefinire i modelli di formazione degli operatori, ma anche la cultura organizzativa che si sviluppa all’interno dei gruppi di lavoro (interprofessionale e intraprofessionale), mirando non solo al possesso di un sapere teorico, di una padronanza tecnica o di una metodologia rigidamente formalizzata, ma anche alla capacità relazionale che si pone come competenza trasversale rispetto alle specifiche competenze tecniche possedute, per completezza di cura e per affrontare i bisogni delle persone.

 

Muoversi in tale direzione rappresenta una grande sfida per il sistema sanitario, perché implica cambiamenti culturali nel fornire la cura e nel gestire i processi di lavoro: si tratta da un lato di garantire i diritti dei malati, evitando che siano il malato e la famiglia ad adattarsi all’offerta sanitaria, dall’altro di favorire e offrire migliori condizioni di lavoro, in modo che i professionisti operino con dignità e come protagonisti attivi dei processi organizzativi e di lavoro. La cura sanitaria si definisce nella coesistenza di diverse prospettive, punti di vista e paradigmi che – se tra loro integrati – potranno garantire una risposta certamente più adeguata alla complessità con cui si manifesta.

Bibliografia

Crescenzo R., Mortati M. (2014), Cura e umanità in sanità, Edizioni Photocity.

Fox M. (1979), A spirituality named compassion and the healing of the global village, Humpty Dumpty and us, Winston Press.

Frankl V.E. (2005), Alla ricerca di un significato della vita, a cura di Fizzotti E., Mursia.

Frankl V.E. (1977), Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana.

Mortari L. (2009), Conoscere se stessi per avere cura di sé, in Studi sulla formazione/Open Journal of Education, 1(2):45-58.

Nakasone R.Y. (1995), Illness and compassion: AIDS in an American Zen Community, in Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, 4(4):488-493.

Rogers C. (1980), A way of being, Houghton Mifflin.

Rogers C. (1970), La terapia centrata-sul-cliente, Martinelli Editore.

Volpicelli L., Calandra G. (1978), Lessico delle scienze dell’educazione, Vallardi.

Woolhead G., Calnan M., Dieppe P., Tadd W. (2004), Dignity in older age: what do older people in the United Kingdom thing?, in Age and Ageing, 33(2):165-70.

P.I. 00777910159 - © Copyright I luoghi della cura online - Preferenze sulla privacy - Privacy Policy - Cookie Policy

Realizzato da: LO Studio