9 Maggio 2024 | Strumenti e approcci

Psicomotricità e caregiver: un’esperienza pluriennale all’Alzheimer Café Milano della Fondazione Manuli per l’Alzheimer

La necessità di prendersi cura non solo del malato di Alzheimer, ma anche del caregiver, è nota e dibattuta da tempo, con proposte attuate da soggetti diversi (associazioni, fondazioni, cooperative sociali, enti locali). L’articolo presenta un’esperienza di psicomotricità con gruppi di caregiver, che ha delineato non solo una modalità inconsueta per ridurre lo stress e sostenere il caregiver nel suo lavoro di cura, ma anche un’occasione per “coccolare” il caregiver, tema poco nominato ed esplorato ma quanto mai opportuno.

Psicomotricità e caregiver: un’esperienza pluriennale all’Alzheimer Café Milano della Fondazione Manuli per l’Alzheimer

Nelle sue fasi originarie e di sviluppo, la psicomotricità si è orientata – sia nella teoria che nella pratica – all’età dell’infanzia, con occasionali “incursioni” in altre età della vita; la formazione degli psicomotricisti, il loro lavoro e il riconoscimento del contributo che possono apportare, in senso educativo-preventivo o terapeutico-riabilitativo, sono stati a lungo ancorati ai bambini, specie in ambito scolastico. Oggi lo sguardo e l’azione degli psicomotricisti abbracciano tutto il ciclo di vita, rivolgendosi anche ad adolescenti, adulti e anziani, in un’ottica di promozione della qualità della vita a qualunque età e in qualsiasi condizione (Chiossone, et al., 2023). In questo scenario di sfondo, la psicomotricità può fornire un contributo molto significativo all’equilibrio e al benessere dei caregiver, riducendo lo stress, prevenendo il burn-out e aumentando le capacità di resilienza di chi si prende cura continuativamente del malato di Alzheimer.

 

Il contesto dell’esperienza

L’esperienza si è realizzata presso l’Alzheimer Café Milano della Fondazione Manuli, attivo dal 2007 al 2020 e primo Alzheimer Café realizzato a Milano città. Negli anni l’Alzheimer Café Milano si è progressivamente strutturato in quattro gruppi paralleli, che con frequenza dapprima mensile e poi quindicinale usufruivano di incontri programmati, articolati in momenti comuni a malati e caregiver (nella fase iniziale e finale dell’incontro) e in momenti distinti (nella fase centrale dell’incontro). Utilizzando spazi separati, i malati svolgevano, supportati dalla terapista occupazionale e da molti volontari, attività specifiche appositamente adattate per loro, con finalità di benessere, socializzazione, mantenimento delle capacità attuali; nel contempo i caregiver e le badanti si riunivano altrove, con il costante supporto e accompagnamento da parte di psicologa e assistente sociale, per fruire delle attività loro dedicate.

 

Nel modello della Fondazione Manuli, le varie attività proposte ai caregiver sono accorpabili in tre filoni:

  • la formazione sulla malattia, con uno sguardo multidisciplinare (interventi di medici, infermieri, fisioterapisti, osteopati, dietisti, psicologi, assistenti sociali, consulenti legali); gli interventi formativi erano prevalenti nei gruppi appena costituiti, con componenti all’inizio del fronteggiamento della malattia e con grandi necessità di conoscenze e consigli di base;
  • l’informazione e l’aggiornamento su servizi e progetti specifici, nuove iniziative, normativa regionale, riforme e riorganizzazioni del sistema dei servizi socio-sanitario regionale e locale, convegni, corsi di formazione per caregiver, selezionando tutto quanto ritenuto utile e proponendolo con linguaggio e livello di approfondimento adeguati agli interlocutori;
  • il benessere del caregiver, fondamentale per preservare un po’ di qualità della vita, compensare stress e fatica della cura, garantire una migliore presenza nei confronti del malato; a questo filone afferiscono svariati laboratori esperienziali proposti nel tempo (es. scrittura creativa, educazione visiva, laboratorio musicale espressivo); inoltre, le conferenze e gli eventi culturali (es. conferenze su temi storici o urbanistici o artistici, concerti di pianoforte, ascolto guidato di musica classica) organizzati presso l’Alzheimer Café appositamente per i familiari, spesso costretti – per la difficoltà nel farsi sostituire – a rinunciare a queste occasioni.

 

Figura 1 – Un’attività laboratoriale per i caregiver

 

Per le sue peculiari caratteristiche, il contesto si è rivelato particolarmente favorevole all’esperienza psicomotoria per e con i caregiver. L’Alzheimer Café, infatti:

  • fornisce un ambiente piacevole e protetto a malati e familiari, un clima cordiale e rilassato che stempera la fatica della cura e l’angoscia prodotta dalla malattia, un’occasione per uscire dall’isolamento e dalla solitudine, la possibilità di trovare un punto di riferimento stabile e sicuro per incontrarsi e informarsi;
  • contrasta l’idea che la malattia (specie nelle prime fasi) non permetta la vita di relazione, potenzia i contatti sociali, allarga le possibilità di relazione in un contesto di “normalità”, facilita la formazione di gruppi e reti di solidarietà fra le famiglie con una funzione di auto-aiuto, riduce e allontana il rischio di burn-out dei caregiver.

 

Specie riguardo al lavoro con i caregiver, socializzazione, informazione e formazione sulla malattia, sostegno emotivo e condivisione sono le parole chiave di questa realtà (Longoni, 2016). Una realtà preziosa e molto apprezzata da chi fronteggia, spesso in solitudine, una malattia che mina profondamente la qualità di vita non solo del malato, ma anche di chi lo affianca.

 

Il caregiving di un malato di demenza: più spesso femminile e molto faticoso

Oltre l’80% dei malati di demenza vive, per molti anni, al proprio domicilio ed è assistito dai familiari, più frequentemente donne: mogli, compagne, figlie, nuore, sorelle, cognate, nipoti… I malati sono per lo più assistiti da donne che, se ancora in età lavorativa, sono costrette ad abbandonare o a ridurre in modo significativo lavoro e vita sociale per occuparsi del proprio caro, oppure sono serrate in ritmi umanamente al limite dell’impossibile, per conciliare lavoro e assistenza; in ogni caso, tutto ciò interferisce con il loro benessere ed equilibrio psicofisico. Sono donne strette in una morsa: da una parte il desiderio di prendersi cura nel miglior modo possibile del proprio caro ammalato, dall’altra il peso dell’impegno e della responsabilità totale, e quindi il senso di colpa in caso di cedimenti o difficoltà.

 

Quando il malato ha più figli, maschi e femmine, di solito sono le femmine ad assumere il ruolo di caregiver, anche se lavorano e anche se hanno una propria famiglia. E queste donne sono spesso costrette a sacrificare la propria famiglia, marito e figli, spesso resi “orfani” dall’impegno della donna nei confronti del genitore anziano ammalato. Anche quando l’assistenza quotidiana è fornita da un uomo (tipico è il caso di una coppia anziana in cui è la donna a essere malata), spesso la cura rimane femminile, perché ci si appoggia ad aiutanti di sesso femminile, familiari (figlie, nuore) o badanti (Longoni, Stoico, 2017).

 

Molti sono i sentimenti e i vissuti negativi sperimentati dai caregiver: tristezza, depressione, angoscia, rabbia, paura, incertezza, senso di colpa, solitudine, nostalgia… quanta sofferenza, quanta fatica, quanto sacrificio, ma anche quanto amore, quanta premura, quanta pazienza! I caregiver sono spesso soli, estremamente affaticati, talvolta disperati, ma continuano nell’accudimento quotidiano sostenuti da una grande forza di volontà, dalla dedizione al malato, dalla speranza che le condizioni di vita del proprio caro possano essere migliori di quanto la malattia di fatto conceda. La speranza più grande è che il malato stia meglio, anche a costo di sacrificare il proprio benessere (Castiello, et al., 2019).

 

Purtroppo in queste storie spesso il caregiver si ammala, talvolta sta perfino peggio dello stesso malato, come se il carico della cura lo schiacciasse; ma prosegue nel suo impegno finché le forze psicofisiche glielo consentono, per la convinzione che nessuno potrà occuparsi allo stesso modo del proprio caro. In ogni caso, per i familiari c’è un peggioramento delle condizioni di vita; diventa allora importante sostenere i caregiver, affiancarli, prenderli per mano, perché per occuparsi bene di qualcuno non bisogna perdere di vista se stessi, le proprie necessità e i propri desideri.

 

La sperimentazione di un intervento psicomotorio di espressività corporea e rilassamento

In tale scenario, nel 2016 è stata introdotta all’Alzheimer Café Milano la psicomotricità come proposta di sollievo e di sostegno per i caregiver, che ha dimostrato come l’attività psicomotoria, svolta in un tempo-spazio protetto di piacere e leggerezza, possa favorire il riaffermarsi di un’identità più ampia di quella connessa al ruolo di caregiver, attivando emozioni e vissuti significativi per sentirsi protetti dalla sofferenza quotidiana. Fra il 2016 e il 2019 sono stati realizzati quattro laboratori di psicomotricità, che hanno coinvolto caregiver di diverso ruolo ed esperienza (coniugi o figli, pensionati o lavoratori, conviventi o meno con il malato), oltre a badanti di varia nazionalità.

 

Gli obiettivi della proposta sono stati:

  • promuovere il riaffermarsi di una identità messa spesso in difficoltà dalla coesistenza con la malattia, nella condizione di fatica e sofferenza vissuta ogni giorno per lungo tempo, e realizzare – attraverso le azioni e le parole condivise nel gruppo – una possibilità di rafforzamento di sé;
  • fornire ai caregiver uno spazio-tempo dedicato a se stessi, una pausa piacevole e consapevole che consenta di recuperare equilibrio ed energia, dall’interno e/o dall’esterno di sé;
  • offrire occasioni e situazioni di benessere psicofisico, piacevolezza, rilassamento, in uno spazio-tempo divergente dalla quotidianità, in cui vivere momenti di accoglienza, attenzione e dedizione a sé e all’altro, scambio e reciprocità (dimensione perduta dal caregiver che si occupa a senso unico del malato), piacere, protezione, ricarica, liberazione, respite / sollievo, serenità;
  • proporre situazioni di movimento e gioco, per scoprire o riscoprire il piacere della propria espressività corporea e l’aspetto ludico della relazione interpersonale e per comprendere corporeamente il potere della comunicazione non verbale, così correlata al prendersi cura del malato;
  • fornire la possibilità e l’occasione di scaricare le tensioni e le emozioni negative provocate dalla situazione di accudimento, lasciare fuori dalla stanza ciò che fa star male, “andare in un’altra dimensione”, “staccare la spina”;
  • garantire l’espressione delle emozioni fino al punto di non stare troppo male / non farsi male, in un luogo-spazio protetto tramite il setting e contenuto da chi conduce il laboratorio.

 

Tabella 1 – Esperienza psicomotoria con caregiver e badanti all’Alzheimer Café Milano della Fondazione Manuli

 

La realizzazione della proposta psicomotoria nel contesto specifico dell’Alzheimer Café

Il contributo della psicomotricità in questo contesto è stato quello di strutturare uno spazio e un tempo protetti per i caregiver, dove fosse possibile valorizzare caratteristiche e potenzialità di ognuno nel piacere dello scambio con l’altro, riconoscere e integrare nel gruppo le diverse espressività personali, liberare o costruire energia positiva, promuovere il benessere comunque e in ogni caso, per alleggerire disagio e stress legati alla malattia e all’accudimento. In tale contesto i caregiver hanno potuto muoversi, giocare, lasciarsi andare, imitare, guardare, interpretare, rimembrare, sentire, inventare, rompere gli schemi consueti…

 

Negli incontri si sono alternati attività diverse e momenti differenti: da soli, in coppia, in piccolo gruppo o nel gruppo più allargato; non sono state proposte attività che avrebbero richiamato alla mente quelle che impegnano sovente il gruppo dei malati durante gli incontri dell’Alzheimer Café (ad esempio disegno, collage, manipolazione). Tutto era possibile, ma comunque rispettoso e protetto; tutto era non giudicato, non obbligatorio, liberato da timori e stereotipi che spesso ingabbiano l’espressione di sé. La ricerca costante: stare bene, con sé e con gli altri, in uno spazio-tempo dedicato a se stessi.

 

Nei vari incontri si sono alternati movimenti dinamici e giocosi a movimenti dolci e lenti (dolcezza e lentezza riferite a sé, al prendersi uno spazio tutto per sé, anziché alle inabilità del malato che rallentano l’accudimento, mettendo a dura prova pazienza e resistenza). Muovere il proprio corpo si è accompagnato al liberare la mente, all’ascoltare e ascoltarsi corporeamente in una situazione fra pari che si comprendono anche senza parlarsi, perché vivono una condizione comune e sono spesso intrappolati, dal punto di vista sia fisico che relazionale, in un rapporto uno a uno con il malato, in una diade costante e isolata.

 

Le attività psicomotorie proposte sono apparentemente semplici, ma foriere di grande significato e ricaduta nella vita quotidiana, con effetti positivi anche nella relazione di caregiving. Proviamo a esemplificare: utilizzare una pallina morbida sulla schiena di un altro partecipante, come se la schiena altrui fosse un foglio bianco, con la pallina che disegna, cancella, sfiora, cambia pressione e velocità… tutto questo ha rappresentato il ricevere gesti di cura da parte di chi sembra “condannato” solo a fornire gesti di cura, la possibilità della reciprocità (negata nella diade malato-caregiver), l’occasione di fornire gesti di cura a propri pari, accomunati da un’analoga condizione di vita e dall’appartenenza al gruppo di familiari dell’Alzheimer Café Milano. Tocchi leggeri o decisi, gentili o autorevoli, comunque tocchi che spesso i caregiver (specie i coniugi, ma anche i figli) non ricevono più dal malato; a questo proposito, vale la pena ricordare che Annie Ernaux – scrittrice francese, premio Nobel per la letteratura 2022 – ha affermato che “esistere è anche qualcuno che ti accarezza, che ti tocca”.

 

Box 1 – Attività di tocco, con e senza oggetto mediatore

 

Le attività di gioco, movimento e travestimento (con palle, corde, teli, tulle, foulard e sciarpe, carta di giornale) hanno consentito di esprimersi liberando “il bambino che è in ciascuno di noi” e recuperando una dimensione di leggerezza e piacere, di sfogo e liberazione, di espressione giocosa che l’età e la malattia compromettono nella quotidianità. A ogni strumento utilizzato, per quanto semplice, possono connettersi diversi significati: ad esempio la corda può legare, tenere, salvare, tirare, trascinare, roteare, abbellire; la palla può essere un palloncino o una palla con la catena… esattamente come nella vita con un malato di Alzheimer.

 

Box 2 – Attività di gioco e di movimento con palle, corde e teli

 

Durante le attività di movimento e di gioco l’uso della parola non era consentito. Che significato assume questo, per chi vive l’esperienza di caregiver? La parola negata nella quotidianità dalla malattia, che “mangia” la memoria e le capacità di linguaggio e di comunicazione verbale del malato, qui risulta non uno strumento finalmente utilizzabile con chi può comprendere, ma uno strumento che può impedire un’espressione più profonda e leggera di sé, delle proprie emozioni, dei propri vissuti, e di cui quindi si può fare a meno.

 

Box 3 – Attività di gioco e di travestimento con tulle, foulard e sciarpe, carta di giornale

Molto importanti sono risultati anche i momenti di rilassamento (di pausa, cammino lento e consapevole, percezione degli appoggi e delle tensioni, respiro…), che hanno trasmesso ai caregiver alcuni suggerimenti di semplici pratiche da riportare nella quotidianità, per recuperare equilibrio ed energia così necessari nella vita senza stacco di un caregiver.

 

Dalle verbalizzazioni individuali, avvenute al termine di ogni incontro del laboratorio, abbiamo potuto verificare come anche in situazione di forte stress emotivo la pratica psicomotoria sia efficace, perché è in grado di:

  • attivare emozioni e vissuti significativi per sentirsi protetti dal dolore;
  • sviluppare o consolidare relazioni che allontanano la solitudine tipica dei nuclei familiari colpiti dalla malattia;
  • operare, attraverso il piacere dell’agire, un oblio temporaneo della condizione difficile, per tornare ad essa più ricaricati e consapevoli;
  • facilitare, valorizzare e rafforzare il piacere dei gesti, nell’espressività del singolo e nella risposta che il gruppo offre.

 

Box 4 – Alcuni commenti dei partecipanti

 

Gli elementi fondamentali dell’esperienza psicomotoria con i caregiver

Attraverso la proposta psicomotoria è stata sviluppata un’azione di cura, intesa come premura per l’altro, come sollecitudine a favorire il ben-essere dell’altro, condizione indispensabile per una vita buona (Mortari, 2015); e di momenti di vita buona i caregiver hanno un grande bisogno.

 

Come in ogni laboratorio psicomotorio, fondamentali sono risultati le caratteristiche del gruppo dei caregiver e la configurazione di gruppo che è emersa: sono state proprio le peculiarità individuali a creare le dinamiche gruppali intorno a cui si sono animate le esperienze di gioco e di relazione che hanno costituito l’entità gruppo, intesa non come una semplice sommatoria di singolarità, ma come una nuova realtà sociale e psichica (Bion, 1971). Il gruppo, formato da familiari e badanti, è risultato soggetto ad assenze dovute a malattia, al ricovero ospedaliero dei malati, al turnover delle badanti: questa discontinuità e varietà nelle presenze, con la possibilità di uscita definitiva dal gruppo oppure di inserimento di nuovi partecipanti, è un dato che ha condizionato l’esperienza di laboratorio, ha richiesto numerosi aggiustamenti e orientato la scelta e la sequenza delle proposte ai partecipanti. In questo contesto è risultato fondamentale considerare ogni incontro del laboratorio come un’esperienza che si apriva e si concludeva, senza necessariamente agganciarsi a quella dell’incontro precedente o dell’incontro successivo.

 

Peculiari, quindi, le caratteristiche del gruppo dei caregiver; un gruppo molto variabile, eterogeneo, complesso nella sua identità, che portava con sé – a ogni incontro – un convitato di pietra: il malessere, il peso delle cure quotidiane e incessanti verso un malato che spesso, a causa della malattia, non ti riconosce e non ti restituisce gratitudine per ciò che riceve; e ancora, il senso di isolamento vissuto e quindi un forte bisogno di relazione, di considerazione, di leggerezza, ma anche di contenimento e di autorizzazione a lasciarsi andare, a giocare, a divertirsi, pur nella vicinanza della pena e del dolore.

 

In un laboratorio psicomotorio con i caregiver risultano fondamentali l’ascolto delle reazioni e delle osservazioni dei partecipanti, la sottolineatura dei temi comuni e trasversali a situazioni anche molto differenti, la delicatezza dell’approccio, il rispetto per la condizione di caregiver, la comune consapevolezza dell’obiettivo di ritrovarsi per rigenerare energie depauperate, la prudenza nella rilettura delle verbalizzazioni a fine incontro, l’orientamento a confermare e sostenere quanto verbalizzato da ogni partecipante nell’ottica dell’elaborazione dell’esperienza che avviene nel gruppo.

 

L’esperienza psicomotoria ha permesso, con la sua ricchezza di situazioni di sperimentazione corporea e di relazione ludica, una nuova rappresentazione di sé come homo ludens, una diversa socialità nel piacere dello scambio e della cooperazione, una possibilità di identificarsi con il gruppo ma anche di portare le differenze che connotano ogni individuo, di giocare un ruolo di gruppo o personale, di sentire il gruppo come luogo della risonanza emotiva (Bravo, 2017) propria e altrui.

 

In conclusione, nella nostra esperienza la psicomotricità si è rivelata uno strumento prezioso per consentire, in uno spazio-tempo protetto e dedicato, di lasciare “fuori dalla stanza” ciò che fa star male, di esprimere “dentro la stanza” vissuti ed emozioni non sempre dicibili, di condividere con leggerezza profonda l’andare in un’altra dimensione per esprimere qualcosa di sé, ricevere, provare un senso di benessere, ritrovare un’energia positiva con cui tornare a occuparsi del proprio caro.

 

La psicomotricità può quindi fornire un contributo importante rispetto al sostegno del caregiver di cui spesso si parla: partecipando a un laboratorio psicomotorio il caregiver può transitare da “soggetto” di cura a “oggetto” di cura, viene affiancato e sostenuto nel prendersi cura anche di sé, è “coccolato” (espressione non ancora usata, ma quanto mai necessaria per chi si prende cura continuativamente di un malato di Alzheimer), aumenta le proprie capacità di resilienza, con effetti benefici sulla qualità del caregiving e della relazione con il malato, oltre che della qualità di vita di entrambi.

 

Bibliografia

Bion W. (1971), Esperienze nei gruppi, Armando.

Bravo L. (2017), Il gruppo in psicomotricità educativa, in Zatti A., a cura di, Il gruppo in psicomotricità. Mente, corpo, relazioni, Erickson.

Castiello D., Longoni B., Stoico K. (2019), Malattia di Alzheimer e benessere dei caregiver: una proposta psicomotoria, in La psicomotricità nelle diverse età della vita. Educazione, formazione, prevenzione, n. 1.

Chiossone A.M., Castiello D., Longoni B. (2023), L’evoluzione della psicomotricità dall’infanzia alle diverse età della vita, in I luoghi della cura, n. 4.

Longoni B. (2016), I malati di Alzheimer, in Luppi M., Bregantin A., Maiocchi A., Mariani L., a cura di, Sguardi sul servizio sociale. Esperienze e luoghi di una professione che cambia, Franco Angeli.

Longoni B., Stoico K. (2017), Malattia di Alzheimer e lavoro di cura al domicilio: due mondi al femminile, in Tessarollo M., a cura di, Il socio sanitario è donna. Riflessioni operative su un dato storico, psicologico e sociologico, Maggioli.

Mortari L. (2015), Filosofia della cura, Cortina.

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