1 Settembre 2010 | Cultura e società

La vita delle badanti: solitudine e generosità

La vita delle badanti: solitudine e generosità

“Cosa vuoi che ti racconti! Anche tu hai fatto il lavoro di assistenza anziani, ventiquattro su ventiquattro! Lo conosci, questo pane da sette croste…”  “La mia giornata lavorativa comincia alle 7.30: apro le tapparelle, apparecchio il tavolo per la colazione. Lavo, vesto la padrona di casa. Per la colazione abbiamo sempre il latte che scalda il padrone di casa, loro lo bevono coi biscotti e la marmellata, io con il pane biscottato. Il mio datore di lavoro dice che le badanti non devono mangiare le cose extra, e di queste cose ne ha un elenco intero. Dopo di che metto in ordine…” “Adesso lavoro in una famiglia molto buona, mi trattano bene, sono contenta di questo lavoro, anche la famiglia è contenta di avermi. Continuo a lavorare perché con la pensione ucraina di 100 euro è molto difficile vivere lì. Durante la mia permanenza in Italia ho fatto tante cose: abbiamo risolto la questione dell’alloggio, abbiamo costruito la casa, ho dato parecchio aiuto finanziario ai figli. L’Italia mi piace molto, le sue città sono straordinariamente belle, mi piace la cucina italiana, gli spaghetti italiani che non hanno paragoni, mi piace il clima mite, le usanze, il bellissimo Paese dove vive un popolo buono e solidale. Vi ringrazio di tutto” .

 

Sono le due facce della stessa medaglia: quella del lavoro come badanti. Un lavoro, per alcune, che assorbe totalmente, che non lascia spazi di tempo libero, che si accompagna a violenze fisiche e psicologiche, mentre per altre costituisce l’occasione per dare un futuro alla propria famiglia, per instaurare nuove relazioni, per offrire assistenza e cura e ricevere sostegno, accoglienza, aiuto.

 

È quanto emerge da racconti, interviste e pagine di diario che alcune signore dell’est europeo hanno voluto condividere per offrire uno spaccato di una realtà complessa e multiforme che ha caratterizzato l’assistenza agli anziani di questi ultimi anni. Sono pagine ricche di una umanità costretta, per ragioni economiche, a lasciare la propria terra d’origine e le proprie famiglie, e chiamata ad un compito di cura impegnativo ed esigente. Sono pagine che narrano della difficoltà di un incontro, di strategie assistenziali, del dolore per la morte della persona assistita, di relazioni familiari compromesse, di corpi dolenti e dell’impotenza della cura. Tra i molteplici stimoli alla riflessione, alcuni emergono con maggior evidenza e, tra questi, il bisogno di una relazione fondata sul reciproco riconoscimento e aiuto, i limiti e le possibilità di una comunicazione capace di cogliere i bisogni dell’altro, la fatica dell’assistere, una cura che va oltre il mero accudimento e che sa costruire legami.

 

La relazione quale reciproco riconoscimento

“In questa famiglia dove sto oggi, non fanno la differenza: mangiamo tutti insieme e mi sento una persona rispettata. È uno scambio di aiuto: io assisto la loro nonna e loro mi aiutano a mantenere la mia famiglia attraverso lo stipendio. Abbiamo rapporti di reciproco rispetto”.

 

Non è cosa scontata che ogni lavoro sia riconosciuto come tale e che, a fronte del lavoro, ci sia il giusto corrispettivo economico. Quello di badante è esposto a innumerevoli rischi e, forse perché facilmente riconducibile al naturale compito di cura proprio di ogni famiglia, sembra più complesso attribuirgli la piena dignità di un’attività lavorativa. Ma, proprio perché il lavoro è valore che consente la piena affermazione della personalità umana, è da lì che passa la reale possibilità di un reciproco riconoscimento, la piena assunzione di diritti e di doveri per entrambi i soggetti coinvolti.

 

“Dai primi giorni in quella casa, nella cucina, la signora mi insegnava a cucinare e a parlare. Era una scuola di cucina e della lingua, contemporaneamente! Prende un cucchiaio e mi dice “cucchiaio“. Prende la cipolla e mi dice come si chiama, così con tutto. E poi scrive dei bigliettini coi nomi. Così mi ha insegnato anche a leggere: “brodo, carne, verdura, carta…” Voleva buttar via la cipolla lessa e le ho detto “No, mangio io”. Poi la carota, voleva buttare anche quella ma io l’avevo condita e abbiamo mangiato insieme. Mi ha detto: “Ho imparato qualcosa anch’io!” Quanto le voglio bene! Quando uscivo, le comperavo sempre dei fiori…”

 

Il lavoro come badante non può prescindere da una relazione, da un incontro con l’altro, dalla possibilità di offrire un aiuto e di crescere in una relazione tra adulti. C’è una grande ricchezza in questo racconto che esprime la necessità di una presenza che assiste e,nello stesso tempo,di una relazione nella quale l’altro è sempre considerato nella sua posizione adulta, capace di trasmettere un sapere e di accogliere uno sguardo diverso al punto da “mangiare insieme” ciò che si voleva gettare.

 

I limiti e le possibilità della comunicazione

“Come è difficile senza lingua! Dicono che dopo quattro mesi circa si sa già parlare un po’. Per adesso capisco, ma riesco a esprimere poco… È dura senza lingua! Non riesco a comunicare con la nonna. Mi sopporta, mi permette di servirla e basta. Non mi parla quasi, ha sempre i denti stretti. Chissà cosa pensa!”.

 

È difficile trovare un luogo dove i pensieri possono essere condivisi. È questa la prima grande difficoltà. Per ragioni diverse “i denti restano stretti” e la comunicazione quasi impossibile. Eppure vi è una capacità che sa andare oltre la parola se si riesce a collocare l’altro nel proprio sguardo. Diventa possibile cogliere il dolore, diventa possibile vedere pensieri che volano lontano.

 

“Ho l’impressione che la mia nonna ha qualche problema grave. Sembra di sopportare (oltre me!) un dolore (…) la devono ricoverare, poverina, aveva l’ulcera che sanguinava! Il medico di famiglia quando gli ho spiegato che il suo” scarico” era tutto nero, ha capito subito e mi ha detto brava…” “la nonnina non dorme ma neanche fa chiasso. Sta sdraiata, guarda dalla finestra. Sta bene, sta comoda, nei pensieri vola lontano, forse sta con il marito, oppure con le sorelle, o forse a far visita ai genitori, corre da bambina sulle scale della casa paterna, dove le voci dei suoi, mamma e papà, suonano come una musica. Prima le piaceva tanto ricordare, raccontare di loro”.

 

La fatica dell’assistere

“La cosa più faticosa era di non poter cambiare le cose, di non poterla aiutare a migliorare! L’impotenza, ecco.” “Era doloroso per me vederla crollare, a poco a poco, nell’abisso nero della malattia; si immagina cosa provavano la figlia e il marito… È bruttissimo non poter aiutare! Ero una testimone impotente del degrado, una osservatrice dell’affondamento…proprio per questo ero andata via: non resistevo più io, non loro!” “Anche se lei è un’estranea per me, mi rotolano le lacrime abbondanti quando vedo le sue sofferenze e sento le sue notti insonni fino all’alba”.

 

Non si può restare “stranieri” alla sofferenza dell’altro. L’incontro con il dolore e la fragilità suscita interrogativi di senso, evoca in noi il desiderio di lenire la sofferenza, mette a nudo i nostri limiti e la nostra impotenza. Ma quale sostegno è offerto in questo compito di cura a chi non ha possibilità di narrare la propria fatica, trovare ascolto ai propri dilemmi, condividere la fatica dell’assistere con altri colleghi? C’è una solitudine da superare e c’è la necessità di dare senso ad un lavoro che non è mai solo testimonianza impotente del degrado ma accompagnamento, aiuto, sostegno, ascolto, compagnia, di cui essere orgogliosamente consapevoli.

 

La cura del ricordo

 “Quando ho la possibilità vado a trovarli, vado anche al cimitero. E quando sono al cimitero mi sento triste. Ma è una tristezza limpida. E penso: non è morta la mia nonna, si è spenta come una candela che aveva bruciato fino in fondo tutta la sua cera, regalando la luce a tutti quanti”.

 

Prendersi cura dell’altro e condividere a tal punto la propria vita con quella dei propri assistiti determina legami non riducibili al mero compito assistenziale. La relazione va oltre l‘aspetto funzionale. L’altro assume un significato nella propria vita non più solo per quello che fa o per il bisogno che esprime, ma per quello che è. Nascono così nuove relazioni e nuovi legami, sentimenti di appartenenza ad un’altra famiglia di cui ci si sente responsabili, possibilità di relazioni autentiche capaci di riconoscere il bene ricevuto e il bene donato oltre il dovere e oltre il tempo. In una umanità che avverte sempre la comune responsabilità nei confronti dell’altro e che sa dare “profumo di festa al pane”.

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