14 Marzo 2025 | Professioni

Un progetto intergenerazionale con anziani con demenza e bambini della scuola materna. Racconto di un’esperienza

L’incontro tra generazioni può “generare” ricchezza, vitalità e benessere, persino in presenza di una malattia grave come la demenza. L’autrice racconta l’esperienza di condivisione guidata tra un gruppo di persone anziane, affette da demenza, e un gruppo di bambini. 


Un nuovo passo nell’intergenerazionalità è il titolo del progetto nato nel 2018 e portato avanti fino a oggi con successo dall’équipe di professionisti della Fondazione1con cui collaboro. L’obiettivo è quello di creare dei momenti in cui anziani e bambini possano incontrarsi e costruire delle relazioni sane e naturali, senza forzature. Frasi come “Dai, vai a giocare con il signor Antonio” non usciranno mai dalle nostre bocche perché “le azioni o sono spontanee o non si fanno per niente”. Il nostro compito come professionisti è quello di dare lo spazio giusto, un tantino strutturato, farci metaforicamente da parte e vedere quello che succede. Il progetto è qui, accanto a me; riporta dati e numeri, analisi dei bisogni e descrizione accurata degli obiettivi, metodologie, azioni, tecniche di valutazione2. C’è tutto, fatto come si deve, scritto da psicologhe e psicologi capaci. Io sono un’educatrice professionale, mi occupo delle attività intergenerazionali con le persone affette da demenza e questa è la mia esperienza.

 

Le premesse

La famiglia di mia madre era molto numerosa. In una modesta casetta di campagna vivevano in tanti: mia madre, il suo gemello, altri 2 fratelli, 7 sorelle, i genitori e due nonni. Nella famiglia di mia madre anziani e bambini crescevano insieme senza nemmeno accorgersene. Nella RSA dove lavoro, di storie così ce ne sono tantissime. Un tempo era normale avere i nonni in casa, anzi spesso quella era proprio la loro casa d’origine. Se ci pensate, non è che stiamo parlando dell’era mesozoica, sì e no sarà passato qualche decennio. E in questo breve lasso di tempo, le cose sono cambiate radicalmente. Ci siamo trasferiti in città. Facciamo a fatica un figlio, due, se siamo coraggiosi, con tre figli siamo degli eroi. Anche gli anziani vivono spesso in piccoli appartamenti e, se sono in forma, li chiamiamo per tenerci i bambini perché noi dobbiamo correre al lavoro.

 

Il progresso ci ha regalato una vita lunghissima e i nonni restano in questo strampalato mondo per parecchio tempo, ne siamo tutti felici, ovvio. Il problema è che più gli anni passano, più i nostri cari diventano fragili creature da accudire, non più in grado di badare ai nostri figli. Ed è così che le strade si separano. Anziani bisognosi da una parte, ragazzi ancora bisognosi dall’altra. E noi adulti? Noi stiamo nel mezzo. Qualcuno alle volte si chiede se non sia il caso di forzare un po’ la mano e farli stare di più insieme, questi nonni e questi nipoti, che non si incontrano più ma che in realtà avrebbero ancora molto da dirsi. Ovviamente sto generalizzando ma il concetto è chiaro, no?

 

È necessario costruire spazi fisici e mentali di incontro tra le diverse generazioni, aumentare e migliorare il dialogo intergenerazionale come antidoto contro l’isolamento, l’esclusione sociale, la perdita di memoria e la disgregazione sociale” (testo da progetto, pag. 3).

 

Il reparto dove lavoro è dedicato a chi soffre di disturbi cognitivi3. Quindi, oltre ad essere anziani, questi pazienti hanno delle conclamate difficoltà legate ad alcune funzioni come la memoria, il ragionamento logico, il linguaggio, la capacità di orientamento, ecc. Quando mi è stato presentato il progetto, non ero sicura di volerlo fare. Persone con la demenza e bambini del primo anno della scuola dell’infanzia, non sarà troppo ambizioso? Come gestiamo l’irruenza di un bimbo di tre o quattro anni, la sua energia, l’impulsività? Come ci dovremmo comportare se un anziano diventa aggressivo, impaziente, confuso? Pensavo alle persone che ci sono in reparto, alle allucinazioni di Gino, alle parolacce gratuite di Paola, all’affaccendamento continuo di Agnese…

 

Fidati – mi disse la psicoterapeuta alla prima riunione di coordinamento – non puoi neanche immaginare la magia che si crea durante gli incontri”. In effetti le psicologhe che ci presentarono il progetto avevano già sperimentato un’iniziativa simile in un’altra struttura. E i risultati erano stati così sorprendenti che si erano “intestardite” e volevano replicarla ovunque. Mi fidai.

 

Un difficile inizio

Partimmo con un gruppo di 7 anziani, tutti con un MMSE4non inferiore a 12 su 30, ciascuno con una storia di vita che in qualche modo raccontasse una certa sensibilità nei confronti dell’accudimento e dell’infanzia in generale. Ricordo che proposi l’attività a Concetta; davo per scontato che le avrebbe fatto piacere incontrare dei bambini, visto che per trent’anni aveva fatto la maestra d’asilo. “Ma neanche per sogno – mi disse – non ci penso proprio a venire in una scuola piena di mocciosi urlanti. Adesso sono in pensione, cosa credi?”. Ecco, appunto, non bisogna mai dare niente per scontato. Signora Concetta a parte, non fu difficile trovare 7 anziani desiderosi di incontrare 14 bambini; ci ritrovammo a dovere escluderne qualcuno (il riferimento è alle persone anziane) perché il gruppo degli anziani non poteva essere esageratamente numeroso.

 

Il primo incontro fu carico di aspettative, emozionante ed estremamente faticoso. Il progetto prevedeva che fossero gli anziani a raggiungere i bambini a scuola. Chi non ha esperienza non può neanche immaginare quanto sia difficile muoversi con un gruppo di persone che ha la malattia di Alzheimer. Quel giorno arrivai prima del solito, per accertarmi che tutto fosse in ordine. Avevamo appeso in bacheca i nomi dei partecipanti al progetto, in modo che venissero preparati dagli operatori in tempo utile. Avevamo avvisato le famiglie, così che nessun figlio, nipote o coniuge pensasse di far visita al proprio caro giusto in quell’oretta. Avevamo chiesto i dovuti permessi al medico. Avevamo raggruppato tutte le giacche degli ospiti nel guardaroba comune per trovarle subito, era novembre e cominciava a fare freschino. La scuola è vicina alla RSA, per fortuna; si tratta di attraversare un bellissimo parco. Un luogo ideale, una passeggiatina da niente per chiunque, ma impegnativa per i nostri anziani.

 

Appena entrata in reparto incontrai due partecipanti che camminavano a braccetto verso un dove non identificato. “Buongiorno – dissi – siete pronte per andare dai bambini?” Le signore in questione si erano guardate perplesse. “Stai parlando con noi?” chiesero. Risposi che certo, stavo parlando proprio con loro. Dissi che i bambini della scuola materna ci avevano invitato, ci stavano aspettando, non potevamo essere scortesi. “Ma noi dobbiamo andare a casa, tesoro, abbiamo il pranzo da preparare”. “Io devo cambiare le lenzuola, non posso proprio venire”. E così era cominciato il solito serrato scambio di battute, conversazioni quasi irreali ma necessarie per tentare di portare le signore in un qui ed ora che spesso sfugge troppo rapidamente. Corsi a prendere i cappotti appena mi dissero “Va bene, dai, andiamo”. Le aiutai a infilarli alla svelta, prima che cambiassero idea, e passai ai partecipanti successivi. Fioccarono scuse di ogni tipo. “Devo andare dal dentista”, “Mia madre mi aspetta”, “Vengo dopo che ho chiuso il negozio”. Una di loro mi rispose persino che non poteva venire perché era morta. “Ma stai parlando con me, come fai a essere morta?”…“Poverina”, borbottò lei. Poi mi sorrise e io capii che forse mi stava prendendo in giro. Oppure no? Ad ogni modo, compattare il gruppo fu parecchio complicato. Quando tutti fummo pronti partimmo per l’avventura, carichi di ansia e aspettative. Ogni piccola novità, ogni minimo cambiamento per una persona che soffre di demenza è un ostacolo enorme. Quella volta la fortuna ci volle sorridere perché la giornata era splendida e ritrovarsi all’aria aperta, con un sole brillante e il cielo limpido, aiutò l’umore generale. “Ah che bella giornata”. “Quanto mi piace passeggiare”. “Questo parco è meraviglioso”.

 

La natura e i colori dell’autunno scacciarono ogni inquietudine. Nessuno si ricordava più dove stavamo andando, nessuno me lo chiese, tutti camminarono con la giusta lentezza e un po’ sbilenchi, ma camminarono e senza rendercene conto arrivammo al cancello della scuola. Sette anziani, uno psicologo, un operatore socio sanitario ed io entrammo trionfanti in un atrio scolastico pieno di disegni colorati, palloncini appesi al soffitto, minuscole giacchette, cappelli e zainetti ordinatamente appesi a ganci a forma di ape o di coccinella. Per gli anziani fu uno spettacolo insolito; tutti quei colori e quei piccoli oggetti li rapirono. La maestra apparve dal fondo del corridoio sorridendo. “Buongiorno – disse – ben arrivati, venite, vi stavamo aspettando”. Gli anziani si strinsero l’uno con l’altro, diventarono una cosa sola, un grumo di corpi con gli occhi ben aperti e la mente annebbiata. Qualcuno cominciò di nuovo ad agitarsi. “Dove siamo?”…“Non ho chiuso bene casa”… “Mia figlia sa che sono qui?”.

 

Cercammo di spegnere l’ansia sul nascere, invitando il gruppo ad avanzare senza paura. Speravo che, se fossimo riusciti a portarli in classe, tutti quei timori si sarebbero dissolti. E così fu perché alla vista dei bambini, gli anziani cominciarono a calmarsi. Seduti per terra in semicerchio c’erano ad attenderci quattordici piccole creature, che al nostro ingresso ci salutarono allegre con le manine alzate. Gli anziani non credevano ai loro occhi, tutta quella giovinezza a portata di mano chissà da quanto non capitava. L’incontro tra gli anziani e i bambini fu un balsamo per l’anima. Chiudemmo quel cerchio accomodandoci nelle sedie pieghevoli che ci avevano preparato. Gli anziani non avevano occhi che per i bambini. Questi, dopo un iniziale entusiasmo, ci guardavano curiosi e un tantino intimoriti. Era importante dare il tempo necessario a prendere confidenza. Il progetto prevede una serie di attività ben strutturate da fare insieme, ma l’incontro tra le due generazioni deve essere spontaneo e naturale.

 

Il proseguo del progetto

Facevamo una fatica enorme a uscire dal reparto, a convincere i pazienti a seguirci, a mettere le giacche e a tenerle per tutta la passeggiata. C’era sempre qualcuno che aveva troppo caldo o troppo freddo. C’era sempre qualcuno che, una volta vestito, doveva tornare indietro per andare al bagno. Quando però gli anziani entravano in classe e riuscivano a mettere a fuoco quei visetti paffuti e quelle mani appiccicose, le loro espressioni cambiavano radicalmente. La stanchezza diventava un lontano ricordo, sparivano i mal di schiena o i mal di pancia, la gioia prendeva il posto della malinconia. L’allegria dei bambini spazzava via ogni preoccupazione. L’esperienza ci ha aiutato ad aggiustare un po’ gli aspetti pratici. Per evitare di rincorrere continuamente i pazienti con sciarpe e cappotti in mano, decidemmo di preparali tutti vicino alla porta di uscita. Appena riuscivamo a farne vestire uno, il partecipante veniva accompagnato fuori, in attesa degli altri. Capimmo inoltre che, prima della partenza, era necessario radunare il gruppo attorno a un tavolo e con calma prendere un buon caffè. Questo permetteva di avere la giusta energia per affrontare la passeggiata e, soprattutto, l’intenso incontro con i bambini. Sapevamo che dovevamo accettare il fatto di dover ripetere costantemente dove stavamo andando. E quando dico costantemente, intendo davvero ogni singolo minuto.

 

Scoprimmo però che più gli anziani partecipavano agli incontri, più in loro rimaneva un alone di ricordo. Non era qualcosa di nitido, nessuno riusciva a raccontare nel dettaglio che cosa succedeva a scuola, ma a molti restava una sensazione di meraviglia che li portava ad accettare sempre più di buon grado il fatto di uscire dal reparto per andare dai bimbi. All’inizio del progetto il dialogo fra anziano e educatore era pressappoco questo: “Dove mi stai portando?”… “A scuola”. “Perché?”… “I bambini ci aspettano”. “Quali bambini?”… “Quelli che tutti i martedì ci invitano in classe”. “Mmh, veramente?”… “Ci sei già stato la scorsa settimana e ti sei divertito tanto”. “Se lo dici tu!”

 

Verso la fine dell’anno scolastico bastava dire la parola “bambini” per far accendere una lampadina immaginaria nella mente di questi anziani confusi e timorosi. Non c’era bisogno d’altro. E noi l’abbiamo sempre considerato un enorme successo. Dall’altra parte c’erano dei piccoletti di tre o quattro anni. Tenere creature innocenti e curiose, che all’inizio non conoscevamo affatto. Per fortuna abbiamo sempre trovato maestre preparate e sensibili, che riuscivano ad accogliere gli anziani e farli sentire a proprio agio. I primi tempi i bambini presero le dovute distanze. Era vero che noi non li conoscevamo, ma nemmeno loro conoscevano noi, e vi assicuro che eravamo un gruppo parecchio singolare. Durante i primi incontri i bambini ci guardavano da lontano con estremo interesse, ma non si fidavano molto ad avvicinarsi. Gli anziani ce la mettevano tutta per attirarli a sé. “Ehi tu, vieni qui, dammi un bacino”. “La vuoi una caramella?”. Quante volte abbiamo ripetuto ai nostri figli, ai nostri nipoti, ai nostri alunni di non dare retta agli estranei, di non accettare nulla, di stare alla larga dagli sconosciuti. Chi erano quei vecchietti che li chiamavano? La diffidenza era una reazione del tutto normale e prevista. E naturalmente venne rispettata. Nessuno forzò la mano.

 

Tuttavia, eravamo in un ambiente estremamente protetto. C’era la loro insegnante, c’erano i loro giochi, la loro classe. Bastò poco per abbattere le barriere. Già al terzo o quarto incontro venne abbandonata ogni prudenza. I bambini si accorsero che gli anziani erano persone curiose e divertenti. Li facevano ridere e regalavano loro un’attenzione tutta speciale, che venne ben presto ricambiata. A quell’età i bimbi non hanno pregiudizi e questo aiutò enormemente a instaurare una relazione autentica. Una magia. Aveva ragione la psicologa! Una volta che tutti si accettarono senza riserve, le attività presero un ritmo da manuale. Si arrivava intorno alle 10.15. Si faceva un breve ripasso dei nomi: anziani e bambini si presentavano. Poi partiva il gioco. Una semplice stimolazione cognitiva adatta a entrambi i gruppi. Per esempio, un bambino teneva in mano l’immagine di un animale o di un oggetto, lo mostrava all’anziano poi lo nascondeva e l’anziano doveva nominare l’animale o l’oggetto. La maggior parte delle volte alla prima esitazione dell’anziano, era il bambino stesso a dare la soluzione, scatenando tenere risate e qualche lacrimuccia di commozione tra gli anziani.

 

Giochi, fiabe e disegni…insieme

Un altro gioco era quello di “raccogliere i fiori del giardino”. La classe veniva addobbata con fiori di carta colorati, si nominava un colore e una coppia anziano/bimbo partiva alla ricerca del fiore giusto. Dopo qualche giro di giochi c’era il momento della storia. Nelle prime edizioni del progetto fu deciso di leggere i racconti del libro intitolato “Salvarsi con una fiaba” (Pasin, 2010). Si tratta di un’opera in cui l’autrice, neuropsicologa e psicoterapeuta, ripropone un’esperienza di terapia psicologica con i suoi pazienti malati di Alzheimer. Ad ogni seduta la Pasin leggeva una fiaba tradizionale (es. quelle dei fratelli Grimm), poi ne discuteva con il gruppo. Da questi ragionamenti condivisi nasceva un nuovo racconto inventato dai pazienti stessi. “Salvarsi con una fiaba” raccoglie questi racconti che l’autrice ha trascritto e aggiustato sintatticamente.

 

Tale opera si basa su due concetti fondamentali:

  1. Le persone affette da demenza presentano difficoltà a livello cognitivo ma “[…la capacità che rimane più a lungo preservata, in questi pazienti è la capacità di percepire le emozioni e di esprimerle, anzi, per certi versi la perdita di neuroni…sembra potenziare…le aree che hanno a che fare con le funzioni istintive, primordiali, con la memoria affettiva e con i sensi…]” (pag. 30)
  2. Le fiabe sono ricche di temi archetipici significativi all’evocazione di immagini ed esperienze emotive comuni a tutti. “[…La fiaba ha il grande potere di essere…vicina alle emozioni familiari…è immediatamente presente alla psiche delle persone anche se hanno problemi di memoria]” (pag. 36).

 

La lettura di queste fiabe rielaborate aveva dunque un grande effetto negli anziani, ma ci rendemmo presto conto che erano piuttosto complicate per bambini di quell’età. Le storie che vennero proposte nelle edizioni successive furono prese da meravigliosi albi illustrati che, con l’aiuto di immagini e un testo semplice, hanno permesso di catturare entrambe le generazioni.  Terminata la lettura si passava al momento del disegno. Ogni partecipante aveva la libertà di esprimersi con i colori su un foglio. I bambini sono abituati a questo tipo di proposte. Anche gli anziani vengono stimolati regolarmente attraverso il laboratorio artistico, ma per loro il compito è decisamente più arduo. Avete presente il grande tema del foglio bianco? Ecco, per una persona malata di demenza quello spazio candido e privo di qualsiasi segno a cui appigliarsi diventa un ostacolo enorme. I primi tempi, quelli della naturale circospezione, succedeva che i bambini si precipitavano a disegnare mentre gli anziani rimanevano lì titubanti, col pennarello in mano, senza capire bene cosa fare. Furono i bambini ad avvicinarsi agli anziani, all’inizio con prudenza, poi sempre più spontaneamente.

 

Verso la fine dell’anno il momento del disegno di solito si trasformava in una vera e propria festa. Già alla lettura dell’ultima parola della fiaba i bambini si precipitavano a prendere il materiale e, appoggiati alle ginocchia dell’anziano, cominciavano frenetici a colorare, dando consigli, aiutando, guidando sicuri le mani rugose e maldestre. I bambini si sentono degli esperti e gli anziani non aspettano altro che essere accompagnati in un mondo a loro ormai da tempo sconosciuto. Ognuno con il proprio ritmo, ognuno con il proprio temperamento. Però si incontrano, in un modo o nell’altro. Ed è bello e commovente. L’ultimo incontro è avvenuto una settimana fa. Siamo alla fine di gennaio. Lo stacco delle vacanze di Natale si è fatto sentire e la classe, al nostro ritorno, ha manifestato qualche accenno di distanza. È normale. Gli anziani, invece, a modo loro, “ricordano” benissimo. “Stamattina andiamo dai bambini”, annuncio. “Certo, io sono pronta – mi ha detto la signora Maria – ci sono stata tante volte l’anno scorso, non vedo l’ora di vederli!”. Il progetto intergenerazionale durerà fino alla fine dell’anno scolastico. Probabilmente, quando a settembre ci ritroveremo, le difficoltà si riproporranno tali e quali ma ora sappiamo che, con un po’ di tempo e di pazienza, tutto verrà nuovamente superato. Ed anziani e bambini potranno vivere ancora la magia che l’incontro tra generazioni riesce ogni volta a regalarci.

Note

  1. OIC Onlus Padova
  2. Il progetto “Un nuovo passo nell’intergenerazionalità” è stato avviato nel 2018. Ha subito un’interruzione a seguito della pandemia ed è poi stato ripreso 2023, sempre grazie alla collaborazione della stessa scuola materna. Il gruppo di anziani coinvolti è composto di norma da 6/7 partecipanti per incontro.
  3. Nucleo protetto residenziale per persone affette da demenza, denominato Borgo Nuovi Passi OIC Padova
  4. (Mini-Mental State Examination)

Bibliografia

Pasin E., (2010), Salvarsi con una fiaba. Terapia psicologica con i malati di Alzheimer, edizioni Magi.

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