Le tipologie familiari in Italia
Gli ultimi decenni hanno visto forti mutamenti delle strutture familiari che si sono tradotti, in generale, in una riduzione del numero dei componenti delle famiglie e, in particolare in un aumento di singles. Per cogliere alcuni dei tratti più significativi delle famiglie di oggi, utilizzeremo i dati emersi dall’ultima Indagine Multiscopo condotta dall’Istat nel 1998-2000. Si tratta di una ricerca molto ampia, che ha riguardato oltre 55.000 soggetti, appartenenti a 20.000 famiglie, e che tratta di numerosi aspetti della vita quotidiana, dalle caratteristiche socio-culturali, alle tipologie familiari, dalle reti di relazioni familiari e amicali, ai consumi culturali, dalle condizioni economiche a quelle di salute.
Dai dati emerge che la maggior parte delle persone (59.6%) vive in una famiglia caratterizzata dalla presenza dei genitori e dei figli, il 14.4% vive in coppia, il 6.6% in una famiglia mono-genitoriale, il 10.7% in una famiglia estesa. Modesta, pari all’8.5% appare dunque la quota di chi vive solo. Se però si considera la sola popolazione anziana1, i dati appaiono ben diversi: diminuisce infatti la quota di chi vive con il coniuge e i figli (19.9%), mentre aumenta la quota di chi vive con il solo partner (37.3%) e di chi vive solo (22.3%). Si deve inoltre notare che la quota di anziani ‘soli’ aumenta nelle regioni settentrionali e nelle grandi città: in particolare, a Milano, tale quota raggiunge il 30%. Vale a dire che, in Lombardia, sono circa 500.000 gli anziani che vivono soli, di cui circa 90.000 a Milano.
Rilevanti sono le differenze a seconda del sesso e della classe di età. La quota di chi vive con il partner, con o senza figli, diventa maggiore da un lato per gli uomini (74.9% contro il 43.8% delle donne), dall’altro per le persone meno anziane (65.2% dei 60-74enni contro il 39.4% dei più anziani) mentre, al contrario, la quota di chi vive da solo aumenta tra la popolazione femminile (31% contro il 10.9% degli uomini), e tra i grandi anziani (34.7% contro il 16.7% dei sessantenni).
Inoltre, mentre tra i “giovani anziani” aumenta la quota di chi vive, oltre che con il coniuge, con i figli non sposati, tra i “grandi anziani” aumenta la quota di chi vive nella famiglia di figli sposati. Il primo dato rimanda ai mutamenti in atto in tema di matrimonio da parte dalle giovani generazioni, ovvero alla minor propensione allo stesso e allo slittamento in avanti dell’età in cui ci si sposa; il secondo dato è invece riconducibile a condizioni di vedovanza o di ridotta autosufficienza dell’anziano. Si tratta quindi di tipologie familiari del tutto difformi: nel primo caso è la famiglia ‘anziana’ ad accogliere, ancora, al suo interno i figli non sposati; nel secondo caso è invece l’anziano ad essere accolto nella famiglia dei figli.
Le differenze vengono poi enfatizzate se si considera la tipologia per sesso ed età. Se tra gli uomini meno anziani vive in coppia, con o senza figli, il 77%, tra le donne più anziane si scende al 22.3%; se tra i primi vive da solo il 9% tra le seconde si sale al 45.3%; infine, a vivere solo con figli non sposati sono rispettivamente il 3.3% e l’11.7%, a vivere nella famiglia di figli sposati l’1.6% e il 12.5%.
La mancanza di un proprio nucleo familiare e una condizione di vita quotidiana segnata dalla solitudine, o almeno da una solitudine ‘anagrafica’, risulta quindi essere una caratteristica che connota frequentemente la popolazione anziana femminile, solo occasionalmente quella maschile. Gli uomini, in parte perché hanno livelli di longevità inferiori a quelli femminili2, in parte perché sono mediamente tre, quattro anni più giovani delle loro mogli, vivono quasi sempre all’interno di un nucleo familiare di coppia in cui possono trovare non solo un supporto affettivo, ma anche un forte sostegno concreto per la vita quotidiana, dato che è la moglie ad essere di norma titolare delle incombenze domestiche e familiari.
La famiglia dell’anziano ‘malato’
Il tema della tipologia familiare assume un rilievo peculiare nelle situazioni in cui si registra l’insorgenza di patologie o un declino dell’autosufficienza e in cui quindi i soggetti hanno maggiormente bisogno del supporto di altri per far fronte alle diverse esigenze della quotidianità. Per verificare se tali problematiche trovino o meno un supporto all’interno del proprio nucleo familiare utilizzeremo sia i dati dell’indagine Istat, sia i dati emersi da una ricerca condotta nella provincia di Milano.
Consideriamo anzitutto quale sia la tipologia familiare degli anziani a seconda delle condizioni di salute, utilizzando come indicatore delle stesse l’autovalutazione complessiva3. I dati Istat rilevano che proprio tra quanti valutano negativamente le proprie condizioni di salute è più consistente la quota di single (il 25.1% contro il 21.2%); in particolare, emerge che il 23% delle donne con almeno 75 anni è ‘sia’ sola, ‘sia’ in cattive condizioni di salute (contro il 7% riscontrato nella popolazione maschile di età corrispondente); sul versante opposto, corrispondente a soggetti in “buone” condizioni di salute e che vivono “in famiglia”, rientrano invece, sempre tra gli ultrasettantacinquenni, il 43,4% degli uomini ed il 25,5% delle donne.
Analoghi sono gli andamenti che emergono dai dati della ricerca condotta in Provincia di Milano (Facchini, 2002): tra gli ultrasettantacinquenni con livelli di autonomia bassi o molto bassi, vive nella famiglia di elezione, composta dal partner e in non pochi casi anche dai figli non ancora coniugati, oltre il 60% degli uomini, poco più del 10% delle donne; è solo meno del 20% degli uni, oltre il 40% delle altre; infine, vive in qualità di membro aggregato nella famiglia di un figlio o di una figlia coniugati meno del 2% e oltre il 20%, rispettivamente. Entrambe le ricerche evidenziano dunque che, specie per le donne, la condizione di solitudine permane anche in presenza di una ridotta autosufficienza e di problemi clinici.
Nello stesso tempo, la situazione di solitudine tende ad incidere sulle stesse condizioni economiche della popolazione anziana, soprattutto su quella femminile. In effetti, se la popolazione anziana non è, considerata nel suo complesso, una popolazione a forte rischio di povertà, ben diversa è la situazione degli anziani soli, specie se donne. Le donne infatti hanno spesso avuto una presenza saltuaria o non “garantita” nel mercato del lavoro, o, se occupate stabilmente hanno svolto mansioni meno qualificate e meno retribuite4. Se, per quante vivono ‘in famiglia’ la limitatezza del reddito personale può essere compensata dal reddito degli altri componenti del nucleo, in primis del marito, ciò non avviene quando vivono sole: in questo caso l’unico reddito sul quale poter contare è il proprio che, però, è spesso modesto, come testimonia il fatto che oltre il 70% delle pensioni sociali e il 90% di quelle di reversibilità sono a titolarità femminile (Facchini, 2000).
Tipologie familiari e strategie di fronteggiamento
Rispetto a questo quadro, segnato spesso da una multi-problematicità (economica e sanitaria) degli anziani ‘soli’, si tratta di verificare quali siano le risorse utilizzate sia per fronteggiare i diversi problemi posti dalla gestione della casa e della persona, sia in termini affettivi-relazionali. Anzitutto, occorre sottolineare che, nella maggior parte dei casi, forti continuano ad essere vicinanza e relazioni con la famiglia ‘allargata’, composta da quei parenti con cui ‘non’ si convive (in particolare figli, fratelli e sorelle). In generale, i dati Istat rilevano infatti che il 30% di anziani ha almeno un figlio (non convivente) che vive nello stesso condominio, il 22% almeno un figlio che vive nello stesso quartiere e il 18% almeno un figlio che vive nello stesso Comune. Tali vicinanza si traduce in una consistente frequenza delle relazioni: oltre il 40% di anziani vede almeno un figlio (non convivente) tutti i giorni, un altro 20% tutte le settimane.
Se poi consideriamo solamente quanti vivono soli, i dati evidenziano sia una maggior presenza di situazioni di vicinanza, sia una maggior presenza di rapporti quotidiani. In particolare, per quanto riguarda la vicinanza, la quota di chi ha almeno un figlio che vive nello stesso condominio sale al 34%, mentre analoghi sono i dati relativi a chi ha un figlio nello stesso quartiere (22.5%), o nello stesso Comune (19%). Soprattutto, tra i singles, aumenta la quota di chi vede almeno un figlio tutti i giorni: oltre il 50% vede almeno un figlio tutti i giorni, oltre il 30% almeno una volta alla settimana; del tutto analoghi i valori relativi alla frequenza con cui si hanno contatti telefonici.
Ne consegue che, nella maggior parte dei casi, la mancanza di un nucleo di appartenenza anagrafica è compensata, almeno in parte, dalla presenza di uno, o più nuclei familiari di riferimento. Preme inoltre sottolineare che la densità dei rapporti appare maggiore nel caso in cui ci siano figlie femmine: in questo caso sia le visite che le telefonate sono infatti più frequenti; in particolare visite e telefonate quotidiane aumentano di quasi 10 punti percentuali. Nello stesso tempo, consistenti appaiono gli aiuti tra genitori anziani e figli adulti: se nelle età più anziane i genitori trovano sostegno nei figli, fino ai 70-80 anni sono invece i genitori il polo attivo della relazione di aiuto, sia in termini di cura per i nipotini o di sostegno per il ménage quotidiano, sia in termini di supporto economico alla nuova coppia al momento della sua costituzione (esemplare è l’aiuto dato nell’acquisto dell’abitazione).
Tra integrazione e problematicità
Sempre più, come testimoniano anche questi dati, la condizione anziana è caratterizzata da una molteplicità di situazioni, prodotto dai diversi intrecci tra i principali elementi di fondo: condizioni di salute, situazione economica, tipologia familiare. Certo, esistono dei tratti comuni, o meglio, comune è un elemento di ‘fragilità’ ma sempre meno la popolazione anziana può essere considerata omogeneamente problematica né per quanto riguarda la povertà, né per quanto riguarda la malattia, né per quanto riguarda la solitudine; ‘a rischio’ appare invece soprattutto la popolazione femminile, che spesso associa, specie nelle età più avanzate, malattia, povertà, solitudine.
In particolare, per quanto riguarda l’inserimento familiare, i dati disegnano una situazione che vede la maggior parte degli anziani sostanzialmente integrata nella rete di relazioni familiari e sociali: oltre i due terzi degli anziani ha rapporti sistematici con figli e nipoti e consistenti risultano le relazioni sia con gli altri componenti della parentela, in primis fratelli e sorelle, sia con amici e amiche. A fronte di una situazione complessiva caratterizzata da un buon inserimento sociale e familiare, si stagliano però anche situazioni di ridotta integrazione, se non di vero e proprio isolamento. A rischio sono soprattutto le persone che meno possono contare sulla rete familiare, ossia le persone non coniugate senza figli e senza fratelli o sorelle, specie se abitano nei centri storici o nell’hinterland delle grandi città, ossia in quei contesti caratterizzati da una difficoltà a muoversi sul territorio, sia per le lunghe distanze, sia per i minori livelli di sicurezza personale.
Infine, un ruolo notevole è svolto dal peggioramento delle condizioni di salute e dal verificarsi di condizioni di ridotta autosufficienza: questi fattori tendono a comportare da un lato un rafforzamento delle relazioni con i familiari, dall’altro un affievolimento delle relazioni amicali. In molti casi quindi l’isolamento sociale si intreccia con una problematicità sanitaria e con una ridotta autosufficienza con un effetto complessivo di potenziamento del disagio: se la malattia e ancor più una ridotta autosufficienza influiscono negativamente sulla possibilità di avere rapporti sociali, un ridotto inserimento sociale tende, a sua volta, a comportare un peggioramento del vissuto soggettivo delle proprie condizioni di salute. In questo quadro, è importante rimarcare che la malattia non incide solo sul soggetto direttamente colpito, ma anche sui suoi familiari, specie per quelli maggiormente coinvolti nell’assistenza.
Come testimoniano numerose ricerche, i familiari care-givers da un lato vedono ridursi la propria vita sociale e, dall’altro, devono far fronte a crescenti domande di supporto relazionale da parte della persona ammalata, per la quale essi tendono a costituire l’unico rapporto sociale. Come facilmente intuibile, tale compito è ancora più oneroso se il reddito complessivo è modesto e se non esistono politiche pubbliche di sostegno. Nello stesso tempo, i dati sovraesposti suggeriscono che se è l’uomo ad essere malato esso trova sostegno nella famiglia di appartenenza, sia in quanto è spesso inserito in un rapporto di coppia, sia in quanto la moglie è, di norma, in grado e disponibile a prendersi cura delle aumentate esigenze; se invece è la donna a versare in situazioni di necessità di aiuto, minore è la probabilità di contare su di un sostegno familiare, sia in quanto più frequentemente vive da sola, sia in quanto il partner appare meno disponibile a fronteggiare la nuova situazione.
Se la famiglia sembra quindi costituire una ‘risorsa’ più per gli uomini anziani che per le donne, quello che maggiormente importa sottolineare è che l’appartenenza, e ancor più la ‘mancata’ appartenenza familiare giocano un ruolo fondamentale nei processi di istituzionalizzazione. Considerando i dati censuari del 1991, risulta infatti che il tasso di anziani residenti in Istituto dipende certo dall’età (dato che passa dallo 0.2% degli uomini e dallo 0.16% delle donne di 60-64 anni, rispettivamente allo 0.45% e al 0.60% per i 70-74 enni, al 1.68% al 3.09% per gli 80-84enni, al 4.56% al 9.09% per gli ultranovantenni), ma dipende in modo altrettanto forte dallo stato civile: complessivamente passa infatti dallo 0.06% degli uomini e dal 0.07% delle donne coniugate, rispettivamente all’1.48% e allo 0.83% di separati e divorziati, al 2.35% e al 1.82% dei vedovi, al 3.5% e al 4.19% per celibi e nubili (Bonarini, 2002).Vale a dire che, in Italia, il tasso di istituzionalizzazione è stato finora modesto ‘anche’ perché la maggior parte di anziani è costituita da persone che si sono sposate, hanno avuto strutture familiari stabili e, di norma, più figli. Ma i mutamenti in atto sia in termini di instabilità matrimoniale, sia, ancor più, sia in termini di modelli procreativi5 fanno prevedere una contrazione delle reti familiari e, quindi, una tendenziale minore possibilità degli anziani non autosufficienti di trovare risposte alle loro necessità di sostegno e di cura all’interno della rete familiare: fanno prevedere dunque una maggior domanda di supporto pubblico, vuoi di tipo domiciliare, vuoi di tipo residenziale.
Per tale motivo, sia per i decisori politici che per i responsabili dei servizi, risulterà sempre più rilevante, assieme all’analisi delle condizioni di salute e dei livelli di autosufficienza, lo studio e il monitoraggio dei mutamenti delle tipologie e dei sistemi di solidarietà familiari.
Note
- I soggetti con almeno 60 anni sono oltre 12.000, pari al 21.9% del campione complessivo.
- E’ appena il caso di ricordare che, in Italia, la speranza media di vita è attualmente attorno ai 74 anni per gli uomini, a 81 per le donne.
- Il campione è composto da 3.997 uomini e 4.459 donne di 60-74 anni e da 1404 uomini e 2.329 donne di 75 anni e oltre.
- Situazione questa, dovuta anche al fatto che, fino agli anni ’70, le donne avevano assai minore accesso alla scolarità superiore e più spesso erano prive di titolo di studio.
- Anche i dati Istat evidenziano che il numero medio di figli diminuisce al decrescere dell’età: se gli anziani con oltre 80 anni hanno avuto mediamente quasi tre figli, quanti hanno 60 anni ne hanno avuti, mediamente, poco più di due, e quelli che sono in età inferiori, meno di due.
Bibliografia
Bonarini F., Anziani nelle case di riposo, in Polis, n.2, 2002.
Facchini C., Anziani e famiglia: nuove reti, nuove solitudini, in AAVV, Anziani. Tra bisogni in evoluzione e risposte innovative, Angeli, Milano, 2002.
Facchini C., Storia lavorativa, storia familiare e povertà nelle donne anziane, Inchiesta, Numero monografico ‘Povertà delle donne e trasformazione dei rapporti di genere’, n.128, aprile-giugno 2000.