La Federazione Alzheimer Italia ha diffuso, attraverso il suo sito, il rapporto “Demenza: una priorità di salute pubblica” (già reso pubblico lo scorso 11 aprile dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Alzheimer’s Disease International (ADI)) in cui si invitano i governi, i politici e le altre parti interessate a considerare le demenze una priorità mondiale di salute pubblica, evidenziando che “questo è veramente un problema globale e non solo una malattia del mondo industriale”.
Si sottolinea anche l’urgenza di intervenire: «Con il loro impatto devastante sulle persone affette da demenza, le loro famiglie, le loro comunità e i sistemi sanitari nazionali, le demenze rappresentano non solo un problema di salute pubblica, ma anche un incubo sociale, fiscale ed economico. In tutto il mondo ogni 4 secondi nasce un nuovo caso di demenza. Questo è un tasso di crescita impressionante, pari a 7,7 milioni di nuovi casi ogni anno – le stesse dimensioni delle popolazioni della Svizzera e Israele. I nostri attuali sistemi sanitari non possono far fronte all’esplosione della crisi delle demenze, in quanto tutti noi viviamo più a lungo. Questo imminente disastro economico e del debito pubblico rappresenta una sfida sociale e sanitaria di prim’ordine».
Infatti l’invecchiamento della popolazione ha fatto aumentare i casi di demenze degenerative primarie, che sono caratterizzate da deterioramento progressivo delle funzioni cognitive e perdita dell’autonomia necessaria per la vita di relazione. La forma più frequente e conosciuta è la malattia di Alzheimer, ma sappiamo come vi siano altre forme di demenza, non meno importanti ma meno frequenti, come la demenza di origine vascolare, la demenza a corpi di Lewy, la demenza fronto temporale, il complesso Parkinson-demenza, la degenerazione corticobasale, la paralisi sopranucleare progressiva, ecc. In Italia il numero delle persone con demenza può essere stimato attorno al milione di persone, di cui 600.000 affette da malattia di Alzheimer.
Oggi il rischio di avere la demenza nelle persone con più di 65 anni è di 1 ogni 8 (12,5%), ma se consideriamo la classe di età che più sta crescendo in Italia, cioè gli over 85, il rischio riguarda 1 persona ogni 2,5 (40%)! Di fronte a questi numeri vi è da considerare anche la natura della malattia, che implica una assistenza continua per un lungo periodo, circa 8 – 10 anni di media, se si esclude la mortalità precoce che riguarda un numero minimo di malati. Questo ne fa una malattia della famiglia, con un “malato nascosto” che è il famigliare che si fa carico della assistenza e che corre il rischio di perdere a sua volta la salute, come molti studi dimostrano. Come fronteggiare questo “tsunami” che sta abbattendosi sul mondo intero (e l’Italia non fa eccezione)?
Non esiste, oggi, una cura farmacologica o biologica della malattia, ma solo alcuni farmaci che alleviano i sintomi. La loro efficacia è limitata, anche nel tempo, e i farmaci “disease modifyng” non stanno per ora portando risultati. Ne discende la priorità, la necessità, della ricerca di nuove possibilità terapeutiche, accanto ad un diverso programma di intervento del sistema sanitario nazionale che per ora in Italia ignora di fatto il problema.
In altri paesi si sono fatti importanti investimenti per la ricerca: in Francia i piani operativi contro l’Alzheimer hanno visto un investimento di un miliardo e 600 milioni di euro per cinque anni, mentre, nel 2009, nel Regno Unito sono stati stanziati, per gli stessi scopi,150 milioni di sterline, oltre 181 milioni e 375 mila euro, per cinque anni. Molti passi avanti sono stati compiuti e anche la ricerca italiana ha contribuito a questi progressi, nonostante la scarsità di mezzi. Oggi sappiamo che esiste una “malattia di Alzheimer senza demenza” cioè una non breve fase “silente” della malattia in cui vi sono dei danni biologici che però non si traducono in danni delle funzioni mentali capaci di interferire con l’autonomia nelle attività quotidiane delle persone affette. Poiché le possibilità terapeutiche sono indirizzate a poter fermare il processo più che a renderlo reversibile (cosa molto difficile nel sistema nervoso centrale), è importantissimo poter rilevare la malattia e fermarla prima che abbia prodotto danni irreparabili. Per questo la ricerca è oggi molto orientata a rilevare dei “marcatori biologici” nel liquor o nel sangue o attraverso le neuroimmagini (PET, RMN) che indichino chi è affetto in modo molto precoce, in modo da poter attuare terapie altrettanto precoci.
Anche gli interventi non farmacologici, come l’attività motoria e ludica in campo preventivo, e la stimolazione cognitiva per le fasi iniziali della demenza, sono importantissimi. In questo numero gli articoli di Villani e Guerrini ben illustrano su quale confortante base di dati oggi possiamo programmare tali interventi, con obiettivi che possono realmente modificare il presente e il futuro della epidemiologia della demenza. Non si tratta infatti di interventi di scarso peso che riguardano solo poche persone: al contrario, potrebbero essere applicati a intere popolazioni e raggiungere riduzioni importanti della incidenza e prevalenza della demenza, o anche della fase sindromica della malattia di Alzheimer. Ricerca farmacologica e interventi non farmacologici sono oggi il binomio necessario per affrontare un futuro ove, quello delle demenze, sarà il problema principale dei sistemi di cura, in Italia e nel mondo.