1 Marzo 2013 | Professioni

Gli operatori socio-sanitari di fronte alle cure di fine vita

Gli operatori socio-sanitari di fronte alle cure di fine vita

Sarà probabilmente la mano di un estraneo che chiuderà i miei occhi

nell’ultimo istante una carezza strana chea malincuore non potrò ricambiare.

Grazia Valente Il Poeta, Portaparole editore Roma, 2012

 

Quando si dice morte

“Si muore una volta sola, ma ci sono molte maniere diverse di morire”, Joseph Conrad. È il messaggio che ispira il breve e suggestivo libro della dottoressa inglese Iona Heath (Heath, 2009), suggerendo che, nell’affrontare la fenomenologia del morire “senza cercare rifugio nel dettaglio dei sintomi corporei, evitando così di misurarsi con la paura, la rabbia, l’angoscia e la sconfitta (…) i medici hanno bisogno di aiuto, e, per me, l’aiuto maggiore, (…) viene dagli scrittori e in particolare dai poeti…. Se “il dono del poeta è far luce senza semplificare’, mentre,‘ il dono della scienza è cercare di capire attraverso la semplificazione’, fra poesia e scienza vi è complementarietà: i medici hanno bisogno sia della scienza sia della poesia, più che mai quando si prendono cura di pazienti che stanno morendo” (Heath, 2009).

 

La morte, come la nascita, è un evento forte della vita e la sua doppia natura, biologica e sociale, la rende mutevole storicamente e culturalmente (Sizzi, 2009). Nelle società occidentali e nei tempi più vicini a noi, quella biologica sembra essere diventata la definizione prevalente poiché la medicina, nelle sue varie branche, ha assunto in sé il compito di stabilire interventi tesi a dilazionare nel tempo l’evento della morte e regole influenti circa i comportamenti “col morto”. Tuttavia la cultura sociale continua ad esprimere comportamenti “quotidiani” e sentimenti, relativamente alla morte, sia nell’ambito privato sia in quello professionale, con cui la medicina non può evitare di confrontarsi.

 

Si tratta di un tema scarsamente osservato e studiato nell’ambito delle scienze sociali, mentre in quelle scientifiche l’interesse è al sintomo e al suo superamento, al corpo non in quanto tutt’uno con la persona, bensì come involucro del sintomo. I nostri operatori sanitari sono lasciati “soli” rispetto all’incontro con la morte delle persone da loro curate. Soli nel senso che manca una cultura sociale e professionale che fornisca loro degli strumenti emotivi-operativi per far fronte all’ansia suscitata dalla morte di una persona che, pur non facendo parte del proprio mondo intimo-personale, tuttavia non è estranea. Questa misura, né estranea né personale, né intima né distante, né asettica né coinvolgente, va scoperta e in qualche modo definita e legittimata socialmente.

 

Gli operatori devono potersi sentire legittimati a sentire, a convivere col sentire senza che ciò li consumi: è parte della funzione della cura. Inoltre, come elaborare il lutto della perdita della persona curata, come per esempio una persona anziana ospite di una casa di riposo, quando nel giro di poche ore viene rimpiazzata con un’altra? Come affrontare il clima del reparto o del servizio, reso sensibile alle dimensioni emotive degli operatori, ausiliari, infermieri e medici innanzitutto, quando muore un ospite?

 

La domanda di un’operatrice “ma è normale che io abbia questo dolore per la morte di questo signore che non c’entra niente con me?” è densa di un vuoto di elaborazione socio-culturale rispetto alla morte extra familiare, tenuto conto che oggi si muore prevalentemente in un servizio. Un vuoto di ritualità e di partecipazione che rende difficoltoso fornire di senso i gesti e le emozioni, che è invece quel che necessita. La misura, per confronto e differenza, continua ad essere “ciò che si prova” quando muore una persona del proprio dintorno familiare e parentale. “Siamo portati a pensare che la morte sia un evento che riguarda la medicina, ma non è così; non è un evento che riguarda solamente i medici, perciò non possiamo affidare solo a loro questo compito. Morire è una questione relazionale(…). Bisogna offrire il meglio che la medicina può dare per quanto riguarda il controllo dei sintomi, ma non si può guardare alla morte solo come un evento clinico” (Ostasesk, 2006).

 

La nostra attuale cultura, fondata prevalentemente su un credo biotecnologico, che si manifesta nell’atto medico, mira ad allontanare la morte, a spostarla nel tempo, oppure a rappresentarla come finzione ma fuori dalla nostra vita che viviamo, a raggiungere l’immortalità, cioè a togliere la morte dalla vita di tutti noi. Ed è anche il motivo per cui gli operatori sanitari vivono la morte come una sconfitta. Questo ha portato con sé una de-ritualizzazione della morte, che, di conseguenza, va rappresentata nella realtà il meno possibile. Non riusciamo a nominarla; si dice, se n’è andato, non ce l’ha fatta, è volato via, è scomparso, ma non: è morto, è morta. Tuttavia, la morte è nella vita, sia la nostra morte, sia quella di chi ci sta vicino o di coloro di cui ci occupiamo.

 

La cura della fine vita

Cosa ci chiede la fine della vita? Chiede cura: agli aspetti esistenziali, alla relazione, al corpo intero che sente, che sente dolore e non solo quello della malattia. Che cosa serve agli operatori per reggere la fine della vita di una persona da loro curata, per reggere la loro stessa paura e ansia e il dolore dei familiari e dei parenti? Serve: – formazione agli aspetti operativi e agli stati emozionali – alimentare la consapevolezza della morte – attivare rituali per gli operatori e per i parenti – luoghi adeguati, per il raccoglimento, il silenzio, la comunicazione che sia più relazione che informazione.

 

Formazione come momenti di sospensione dell’azione a vantaggio del pensiero. Momenti in cui si descrivano le esperienze lavorative e le emozioni che li accompagnano, affrontando poi l’analisi dei fatti, la riflessione sui dati che ne emergono e l’elaborazione di parti che vanno a costituire ciò che propriamente si impara dall’esperienza. Momenti che, proprio attraverso questi passaggi, attraverso la forza del pensiero che si confronta nel gruppo, valorizzando però la dimensione individuale e superando il giudizio, promuovono la possibilità di darsi credito al fine di affrontare dei cambiamenti anche piccoli, ma autogenerati. Poter passare dall’analisi di ciò che si fa e anche dalle prefigurazioni attribuite a quel fare, e quindi al confronto con gli altri, è l’occasione per un’evoluzione collettiva.

 

Passare attraverso il concepire una proposta, vederne i significati e le connessioni e progettarne poi l’applicazione operativa, è un processo molto ricco e fecondo. È un processo che non solo contribuisce a rendere visibile l’oggetto di lavoro, ma contribuisce anche a valorizzare il singolo operatore che, attraverso ciò, può arrivare più facilmente a rendere visibile a sé il proprio contributo al risultato e a comprendere anche come il proprio “fare”– senza le connessioni che il gruppo, con i differenti ruoli, professioni e visioni, riesce ad esercitare –sarebbe una mera esecuzione ripetitiva di compiti.

 

Formazione – azione. Un’esperienza

Facciamo qui riferimento ad un’esperienza che, se pur breve, possiamo definire di formazione-azione1. Formazione che ha usato plurimi linguaggi (da quello poetico, a quello filmico, a quello del ricordo personale, a quello della scrittura) e differenti strumenti (dal role-playing, alla reazione ad immagini, a esercitazioni di piccolo gruppo con un compito). Ha percorso le tappe dell’imparare dall’esperienza fino a prefigurare dei cambiamenti, attraverso micro-decisioni discusse e concordate, presentate nell’ultima fase alla direzione e portate avanti a cura di un gruppo di facilitatori. Ha esplorato temi e contenuti operativi e organizzativi (cosa succede e come si fa quando muore un ospite) e relazionali (come se ne parla fra operatori, chi e come si rapporta con i parenti), i riti (a cosa servono, come sono diversi nel tempo e nei vari contesti).

 

Alla fine ne è emersa una lista di considerazioni (il concetto di cura riguarda il morente e il morto; nella cura al morente si incontra una dimensione spirituale che non è sovrapponibile alla religiosità; i riti sono modi per ricordare e per onorare la persona morta, ma sono anche consolazione per le persone che rimangono) e una di proposte, alcune di tipo operativo-relazionale, da mettere in atto da parte degli operatori. Per citarne alcune: usare linguaggi e stili comunicativi diversi, secondo gli obiettivi e gli interlocutori; esempio diverso è dare consegna o confortare un familiare in lutto; occuparsi con maggior cura degli oggetti del defunto per poi consegnarli ai familiari; proporre un ricordo del defunto nell’ambito del reparto; coinvolgere i familiari che lo desiderano nella vestizione della salma. Mentre altre proposte, di tipo organizzativo-strutturale, da consegnare come richieste perché possano essere realizzate al livello competente.

 

Per citarne alcune: camera singola per accogliere il morente e i familiari o spazio adeguato ad accogliere la salma nell’intervallo di tempo fra la morte e il trasferimento alla camera ardente; lettino e percorso adeguato a tale trasporto; indicazioni precise riguardo la vestizione della salma e il possibile coinvolgimento dei familiari; mettere in calendario occasioni di incontro degli operatori dove possano essere comunicate, condivise e governate le emozioni relative alla morte di un ospite; aprire in modo formale l’accoglienza da parte degli operatori, e considerarla lavoro di cura, dei parenti in lutto nei periodi post-mortem. Tutto ciò è diventato successivamente un documento di lavoro per il Servizio nelle sue varie componenti.

 

Passare dalla “rivendicazione” alla proposta ragionata e coerente fra obiettivi, processi e materiali e discuterne in questo modo con la Direzione, ha legittimato i partecipanti – e in particolare le figure ausiliarie –a “saperne del proprio lavoro” proprio perché si è entrati nel merito di cosa fare, perché e come, non limitandosi a elencare i titoli di qualcosa di vagamente auspicabile. L’ascolto reciproco e la valutazione attenta dei vincoli e delle criticità, hanno assunto carattere di “verità” e non di pretesto. Gli operatori hanno bisogno di essere aiutati a curare la morte dei loro assistiti in un percorso di sviluppo e di crescita: “Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé” (Kubler-Ross, 1976). Alimentare la consapevolezza della morte può significare accettazione e venire a patti (Madera,Tarca, 2004), per l’operatore e per i parenti. Accettazione che il percorso è compiuto, venire a patti per affrontare ciò che serve ora e prepararci al dopo.

 

Procrastinare oltre il dovuto le parole di speranza può corrispondere alla mancanza di parole per dire la morte e di stato emozionale per prepararsi a viverla. “Si rinfranca così il sentimento reciproco di appartenenza al comune limite umano” (Buber, 1990): il comune limite umano può però aprire le porte alla morte, cercando l’essenza. La consapevolezza non chiede molto altro.

Note

1 L’attività è stata svolta presso l’Istituto Golgi-Redaelli di Abbiategrasso. Il Servizio era sensibile ai temi della morte, avendo promosso nel 2010 una “Indagine sulla qualità delle cure di fine vita in RSA: intervista con la famiglia in lutto post-mortem”, a cura della dottoressa Gianna Carella. Le conclusioni portavano ad indicare “possibili sviluppi” in due direzioni: attivare spazi di formazione del personale e riflettere all’interno del gruppo di lavoro sulle cure di fine vita circa l’opportunità di elaborare un progetto di accompagnamento del familiare in lutto per la morte di un proprio congiunto. Da qui la proposta di formazione per gli operatori dei vari Reparti.

Bibliografia

Buber M. Il cammino dell’uomo, ed. Qiqajon, Comunità di Bose 1990. Heath I. Modi di morire, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

Kubler-Ross E. La morte e il morire, Cittadella editrice, Assisi, 1976. Madera R, Tarca LV. La filosofia come stile di vita, Bruno Mondadori, 2004.

Ostaseski F. Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte. Oscar Mondadori, Milano 2006.

Sozzi M. Reinventare la morte – Introduzione alla tanatologia. Ed. Laterza, Bari 2009.

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