1 Giugno 2013 | Editoriali

Editoriale
Spensionarsi?

Spensionarsi?

Una nuova parola gira sul WEB, unretired, che si può tradurre con “spensionarsi”: che cosa significa? Andate a vedere il sito: http://www.retirementjobs.com. Fondato nel 2005, è uno dei siti più attivi di collocamento professionale per pensionati: proprio così, per pensionati.

 

Questo è l’inizio di un lungo articolo sulle nuove esperienze di “pensionamento” comparso su “R2” di Repubblica il 25 aprile di quest’anno. Interessante che sia uno dei siti di collocamento professionale più in crescita degli ultimi tempi. Ma cosa sta succedendo? La pensione, il lasciare il lavoro per il “meritato riposo” non è più così appetibile per gli anziani? In realtà l’invecchiamento attivo, (e produttivo) è una delle risposte positive necessarie per non diffondere una visione negativa dell’ormai consolidata rivoluzione demografica cioè del miglioramento complessivo dello stato di salute e di sopravvivenza degli anziani di oggi e probabilmente di domani. Il lavoro come gratificazione e non come dannazione, come alternativa al pensionamento inattivo, per gli anziani è e sarà possibile?

 

Vi sono due considerazioni complementari che possono dare qualche strumento di comprensione in più, una di ordine analitico e di conoscenza dei dati reali della situazione (qual è la situazione del lavoro dei pensionati in Italia. Ci sono esperienze europee positive di lavoro dei pensionati?) e l’altra più di ordine socio-antropologico (la crisi dei “cicli di vita”), derivata dai comportamenti e dagli stati d’animo che li accompagnano.

 

a) La situazione: per chi volesse approfondire il tema di anziani e lavoro è bene legga il libro curato dall’ex ministro Tiziano Treu “L’importanza di essere vecchi. Politiche attive per la terza età” (Ed. Il Mulino, Bologna 2012) che si occupa di analizzare i dati del lavoro dei pensionati a livello nazionale e internazionale. Quanti sono gli anziani che ancora lavorano?

 

Nel 2008 in Italia il 20% dei 60-64enni, il 7,6% dei 65-69enni, ma nel Regno Unito, ad esempio, vi è già una percentuale doppia: 45,7% e 16,9% rispettivamente (Treu, 2012 op. cit. pag. 251, Tabella 4)! Effetto Thatcher? Forse, ma certo nel paese a più vecchia industrializzazione e mondializzazione economica dell’Europa non si può non pensare che sia un’anticipazione di ciò che potrebbe succedere anche qui. Infatti, non sembra che sia il bisogno, la povertà a condizionare la prosecuzione del lavoro, anzi semmai sembra un privilegio delle professioni e delle classi dirigenti, che meno devono fare i conti con la povertà, ma certo anche con lavori fisicamente faticosi. Di fatto la distribuzione di chi lavora dopo i 60 anni non è omogenea per titolo di studio. I 60enni laureati italiani lavorano nel 47,4% dei casi, mentre i coetanei con licenza media inferiore nel 14,8% solamente. Questo è più o meno vero in tutti i paesi europei. L’ISTAT nel 2009 ha condotto una ricerca su un campione di 5.910 individui di età compresa fra i 55 e i 74 anni in pensione da lavoro da almeno 12 mesi. La ricerca conferma i dati generali per quanto riguarda i 60-64enni tra i quali il 20% ha un reddito da lavoro che si aggiunge alla pensione, mentre fra i 65-69enni il dato di quanti hanno un reddito da lavoro è un po’ più alto di quello generale: 12,3% vs 7,6%. Anche in questa ricerca avere un reddito da lavoro aggiuntivo a quello della pensione significativo (almeno 3.000 euro/anno) disegna un profilo preciso: riguarda un maschio fra i 60 e i 65 anni, con diploma superiore o laurea, che ha svolto mansioni di quadro o di dirigente, oppure, in subordine di imprenditore o lavoratore autonomo (Treu, 2012 op. cit. pag. 259).

 

Questi dati confermano che il lavoro in età anziana oggi riguarda una categoria di privilegiati e non può essere il modello cui ispirarsi per prevedere strategie che favoriscano il lavoro in età anziana di popolazioni consistenti di lavoratori dipendenti. Per chi ha svolto mansioni più fisicamente impegnative, con predominanza dei lavori manuali, la prosecuzione del lavoro dopo l’età della pensione non è desiderabile, ma ancor più vi sono molti pregiudizi da parte delle imprese ad avvalersi di maestranze anziane. I motivi addotti sono essenzialmente tre: resistenza al cambiamento, prestazioni inferiori, costi più alti rispetto ai giovani (Treu, 2012 op. cit. pag. 163). Più che di giudizi si tratta di pregiudizi non provati, che alcune esperienze sembrano contraddire in gran parte. Per superare questi stereotipi è utile conoscere l’esperienza del reparto 2017 della BMW in Bassa Baviera. In questa azienda si è provato nel 2007 a fare i conti su come sarebbe stata la distribuzione per età, senza correttivi, nella coorte degli operai dieci anni dopo, nel 2017, quando l’età media sarebbe passata da 39 a 47 anni. Si è poi riprodotta tale prevedibile situazione, costituendo un reparto con una percentuale del 30% di lavoratori anziani, denominato “reparto 2017” ma conosciuto come “linea dei pensionati”. Gli operai anziani attraverso workshop diedero consigli per il miglioramento delle postazioni e dei metodi e tempi di lavoro rendendoli più adatti alla loro età. In pochi mesi la produttività salì del 7%, le assenze dopo un anno erano stabili al 2% (contro il 7% dell’inizio), l’affiatamento era alto, e il costo di investimento per le modifiche molto basso. La BMW sta estendendo l’esperimento ad altri reparti. Vi sono poi altre esperienze, anche italiane, che invece puntano sull’organizzazione del welfare aziendale (Luxottica ad esempio) o sulla trasmissione di contenuti e di knowledge management da parte dei più anziani verso i più giovani (le “comunità pratiche” dell’ENI), tutte iniziative che stanno dando buoni risultati.

 

b) La crisi dei “cicli di vita”: tutti parliamo di “terza età” e di una vita divisa in diverse età, ma la sua definizione è in crisi da tempo. Da una parte non ha più senso la divisione fra una prima età in cui si impara, una seconda in cui si lavora e una terza in cui si riposa (più eventualmente una quarta in cui ci si cura). Il tempo di validità delle nozioni e delle abilità apprese è oggi assai ristretto e non esiste quasi professione in cui non sia necessario anche investire una parte del proprio tempo per migliorare o aggiornarsi, pena la perdita di efficacia del proprio apporto lavorativo. Ciascuna di queste attività (apprendimento, lavoro, riposo) è in realtà presente in ogni momento della vita, certamente con percentuali di distribuzione diverse ed escludendo i periodi della dipendenza (infanzia ed estrema vecchiaia). Dall’altra parte il ciclo biologico, quello economico, quello sociale e perché no, quello spirituale, fanno fatica a coincidere, anche se in qualche modo tendono ai compensi. A che età si lascia l’adolescenza e si diventa adulti? Apparentemente su certi aspetti vi è un anticipo costante di tale età (vedi ad esempio il menarca sempre più precoce, così come l’età delle esperienze sessuali), ma a questo anticipo biologico non corrisponde affatto un anticipo dell’autonomia economica e sociale dei giovani, anzi semmai il contrario. Lo stesso avveniva per l’età anziana negli anni scorsi: l’aspettativa di vita e anche e soprattutto l’aspettativa di vita “attiva”, libera da disabilità, aumentava costantemente, mentre l’età di pensionamento si abbassava.

 

La crisi economica ha posto brutalmente il problema dei cicli economici e dei costi di tale tendenza, invertendola ope legis con le tensioni sociali conseguenti e senza mettere in discussione come le sedi di lavoro avrebbero potuto accogliere l’aumento dei lavoratori anziani. Ma si può osservare che apprendimento e produttività sono interconnessi e i dati migliori dal punto di vista produttivo sono realizzati in quei paesi e in quelle situazioni che più investono nella formazione. Questo sta portando a fenomeni, per ora di “nicchia”, di ribellione al ciclo di vita pre-determinato, cui si cerca di rispondere in vario modo, avendo forse come base le teorie della “decrescita felice” di Serge Latouche. Ovvero: “pensionarsi” in età giovane adulta, godersi la vita il più possibile lavorando il minimo, promettendo di lavorare poi fino ad età avanzata. Questi esempi, che pure nel mondo anglosassone hanno fatto scalpore e creato una sorta di movimento, sono a ben vedere possibili per chi può permetterselo, ben lontani dalla scelta radicale delle comunità hippies degli anni ‘60. Questi tentativi di invertire il ciclo di vita paiono essere figli della visione narcisistica e un po’ disperata di chi in realtà non crede più ai destini del mondo né pensa sia utile contribuirvi, mentre non v’è in essi nessuna forza di messaggio universale, nessuna spinta universalistica come nei grandi movimenti giovanili del passato. Sono tutti fatti che mettono in evidenza la necessità di accogliere con favore qualunque cambiamento della struttura della distribuzione del tempo di vita che aiuti a considerare ogni “passaggio” in termini di libertà di scelta e di flessibilità e non come oggetto solo di regole e di norme.

 

Per far sì che il lavoro possa essere momento remunerativo e soddisfacente anche per le età in cui una volta si andava in pensione, non è certo sufficiente stabilire delle normative che alzano l’età del pensionamento, spesso controproducenti. Le cose funzionano solo laddove si cerca di modificare l’organizzazione del lavoro attraverso l’applicazione di orari di lavoro più flessibili, di miglioramenti ergonomici con attenzione alla salute e al benessere, garantendo mobilità verso ruoli più adatti all’età e revisionando il sistema delle carriere, valorizzando le conoscenze degli anziani anche attraverso una diversa strategia di comunicazione aziendale e di percorsi di formazione. Meglio se accompagnata da una sufficiente flessibilità delle norme che regolano i passaggi dal lavoro alla pensione (part time, pensionamento parziale o intermittente, job sarin, ecc.). Se, come conclude Simone de Beauvoir nel suo “La terza età” (Ed. Einaudi, Torino 2002) per riscattare la condizione degli anziani non basta pagare di più le pensioni o migliorare i servizi, ”ma è tutta la vita che va cambiata”, quale cambiamento più radicale di quello proposto da Woody Allen?

 

Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così il trauma è bello che superato. Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono. Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro. Lavori quarant’anni finché non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finché non sei bebè. Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo”. Woody Allen

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