1 Marzo 2014 | Strumenti e approcci

Gli Alzheimer Cafè: un’esperienza in crescita

Gli Alzheimer Cafè: un’esperienza in crescita

Introduzione

Le persone affette da demenza non sono in costante aumento come si riteneva negli anni passati, tuttavia si incrementa la percentuale di coloro che vivono al proprio domicilio più a lungo: di conseguenza, tende ad aumentare anche il livello di stress psicofisico dei loro familiari (1 Schrijvers et al, 2012). Quali condizioni hanno determinato questo fenomeno? Certamente, l’aumento della vita media è il principale fattore di rischio epidemiologico: la prevalenza della demenza aumenta con l’età, i sopravvissuti ad altre malattie somatiche presentano nel tempo un aumento del rischio di demenza (2Trabucchi, 2012). In secondo luogo, la diagnosi di demenza sempre più rapida indirizza verso una precoce terapia farmacologica e non farmacologica (ambientale e neuropsicologica cognitiva) che hanno un effetto di rallentamento dell’evoluzione della malattia.

 

Inoltre, minore è il ricorso, nella fase lieve e moderata della malattia, al ricovero nelle strutture socio-sanitarie, favorito ultimamente anche dal progressivo impoverimento del ceto medio italiano (oggi costa meno, se consideriamo solo i termini economici, gestire a casa un familiare con demenza piuttosto che istituzionalizzarlo) (3Boffelli et al, 2011). Fattori tutti che si riassumono in una evidente verità: il caregiver vive per un tempo più lungo, e con crescente impegno assistenziale, il compito della cura. Ne può conseguire un aumento dello stress psicologico e fisico, sostanzialmente definibile dalla frase “una giornata di 36 ore”: ad indicare che la cura diventa così impegnativa che viene talvolta vissuta in un tempo dilatato e debilitante. Il fenomeno non è certo da trascurare, dato che molteplici studi hanno nel tempo dimostrato che il maggior stress del caregiver si associa ad outcome negativi, sia per il malato (precoce istituzionalizzazione) sia per il familiare (incremento di patologia somatica e psicologica, aumento della mortalità) (4 Banerjee et al, 2007).

 

La rete dei servizi dedicata alle demenze in Italia

La risposta alle problematiche fisico-psichiche e cognitive della persona affetta da demenza è già in corso, con un sistema a rete che sta diventando in grado di servire le diverse fasi della malattia: i Centri Unità Valutazione Alzheimer (UVA) per la diagnosi e la terapia, l’ospedale per le patologie somatiche, i Centri Diurni per il sollievo, l’assistenza domiciliare per i bisogni della persona, le residenze sanitarie assistenziali (RSA) per la fase avanzata (5Trabucchi, 2007). Poco invece troviamo sulle risposte formali per i caregiver: chi li ascolta? Chi li informa sulla malattia, o ha il tempo per formare il caregiver (che non nasce per questo compito, ma è costretto a diventarlo)? Alcune risposte formali esistono in specifici luoghi: incontri periodici con i familiari, counseling psicologico, gruppi di sostengo vengono organizzati da associazioni di familiari, centri UVA o reparti ospedalieri.

 

L’impressione generale, tuttavia, è che si tratti di fenomeni a “macchia di leopardo”, disomogeneamente diffusi e che non riescono a coprire il bisogno sia perché non espresso del caregiver sia perché frequentemente non esaudibile (se devo andare all’incontro, dove e a chi lascio il mio congiunto malato?). Si ravvisa, infatti, in modo sempre più consistente la necessità di fornire, alle persone affette da demenza, servizi atti a soddisfare bisogni spesso superiori alle possibilità del Sistema Sanitario Nazionale e degli Enti Comunali. La famiglia però, sebbene si ritrovi in condizioni di disagio, non deve e non può ridursi ad elemento passivo, in quanto possiede potenziali risorse, adottabili nella gestione della persona affetta da demenza. Il ruolo assunto dal caregiver è un ruolo complesso e articolato, in quanto non si esaurisce nella semplice tutela degli aspetti fisici ma si estende ad altri innumerevoli bisogni, quali la dimensione psichica, affettiva e sociale (6Logsdon et al, 2009).

 

Al caregiver si demanda l’importante e difficile ruolo di promuovere il miglioramento ed il mantenimento della qualità di vita e della dignità della persona affetta da demenza. Tale ruolo può vedersi concretizzato se al caregiver viene fornito un supporto costante e se vengono previste per il malato attività riabilitative atte a rallentare il decorso del deterioramento cognitivo (7 Trabucchi e Boffelli, 2004). Gli Alzheimer Cafè si inseriscono in questo contesto, come servizio che va a potenziare quelli già presenti sul territorio: il loro obiettivo è di affiancare il caregiver ed il suo congiunto, fornendo formazione supporto e costante durante il decorso della patologia.

 

Il modello dell’Alzheimer Cafè

L’Alzheimer Cafè (AC), proposto da Bere Miesen (8 Miesen e Blom, 2001) presso il Marienhaven Psychogeriatric Center, Warmond, Olanda, rientra negli interventi di tipo psicosociale. Dal 1997, tale esperienza si è sviluppata a macchia d’olio: ad oggi nei Paesi Bassi ne esistono più di 60 e ne sono nati altri anche nel Regno Unito, Italia, Grecia, Australia, e Stati Uniti d’America. Rivolto principalmente a coloro che affrontano le fasi iniziali della malattia, viene concepito come un luogo sicuro nel quale si respira un’atmosfera rilassata e accogliente, nel quale i partecipanti possano esprimere se stessi, essere ascoltati e trovare conforto nella loro lotta contro l’isolamento e la solitudine. Con la creazione dell’Alzheimer Cafè, Miesen identifica un luogo dove familiari e malati possono recarsi insieme, scoprire che non sono soli e capire come altri fanno fronte alla malattia e alle sue conseguenze.

 

L’idea di Alzheimer Cafè nasce proprio per dare risposta ai bisogni dei malati e delle loro famiglie, fornendo spazi per la condivisione delle numerose difficoltà pratiche e per l’espressione delle emozioni spesso inascoltate (9Miesen, 2004). Quali obiettivi sono gli obiettivi di un AC? Fornire informazioni sugli aspetti medici e psicosociali della demenza, offrire la possibilità di parlare apertamente dei propri problemi (riconoscimento e accettazione sociale), promuovere la socializzazione e prevenire l’isolamento delle persone con demenza e delle loro famiglie. Gli incontri, nel loro svolgimento, presentano una duplice natura: quella terapeutica, che dà spazio anche all’informazione, e quella della socializzazione, alla quale è riservata una notevole considerazione. Viene facilitata la comunicazione anche in maniera informale, lo scambio di esperienze, il colloquio con operatori e specialisti. È proprio questa atmosfera tranquilla e accogliente, associata al fatto che tali incontri si svolgono in un ambiente a bassa soglia di accesso, che contribuisce a soddisfare i bisogni di appartenenza, accettazione e riconoscimento.

 

Quali risultati della diffusione degli Alzheimer Cafè? Lo stress dei caregiver si riduce, i familiari riferiscono maggiore conoscenza e minore senso di vergogna, i pazienti più serenità. Negli studi olandesi si è osservato che questi incontri a cadenza mensile hanno maggiori effetti positivi, rispetto alle altre tipologie di supporto, nella riduzione del burden assistenziale e nel promuovere il senso di competenza del caregiver (10 Dröes et al, 2004). Inoltre, aumenta la percezione dei familiari della presenza di un sostegno professionale (11Dröes et al, 2006); la presenza di uno staff motivato (educatori, psicologi) e la cooperazione con gli altri servizi attivi sul territorio risulta estremamente positivo per i familiari (12 Meiland et al, 2005), soprattutto se il progetto viene creato sulle caratteristiche ed i bisogni dei familiari (13Osto et al, 2005; 14 Smith et al, 2007). Sembra infine dimostrata una riduzione dell’istituzionalizzazione nei pazienti che afferiscono al programma (10 Dröes et al, 2004; 11 Dröes et al, 2006).

 

I primi risultati italiani evidenziano come il fenomeno si stia diffondendo in modo progressivo: in Veneto come in Emilia Romagna sono stati pubblicati i primi dati dell’esperienza degli Alzheimer Cafè con dimostrazione di estrema gradevolezza da parte dei familiari e dei malati (2Trabucchi, 2012; 15 Chattat et al, 2010).

 

Il Coordinamento degli Alzheimer Cafè

Quale strumenti di valutazione e di intervento possiamo utilizzare, in modo comune, in un Alzheimer Cafè? Gli obiettivi possono essere molti, ma la limitazione delle risorse impone un’organizzazione severa e scevra da idealismi (il Cafè non è semplice come il bar delle ACLI, ma nemmeno complesso quanto un centro di studi scientifici). Inoltre, il tentativo di usare strumenti comuni è ideale per non disperdere risorse, e per confrontare i risultati (2Trabucchi, 2012). Per coniugare programmi, efficacia ed efficienza è nato, nel 2012, il coordinamento degli Alzheimer Cafè di Bergamo e Brescia, che coinvolge una decina di centri e figure professionali multidisciplinari (educatori, psicologi, geriatri, neurologi) con molteplici obiettivi: in primo luogo, identificare i criteri per la creazione di un centro, comprendendo i criteri per il personale, i programmi, i principali fruitori e le modalità di svolgimento degli incontri.  Tramite una revisione della letteratura e delle esperienze finora pubblicate, il gruppo ha creato un manuale con le indicazioni principali per gli AC, con protocolli comuni, sia per i familiari sia per i pazienti (16 Berruti et al, 2013).

 

In secondo luogo, è stata studiata una metodologia di valutazione del malato e del familiare, che permettesse di comprendere le caratteristiche cognitive e psicologiche all’inizio e durante il percorso degli incontri con lo scopo di misurare l’efficacia degli interventi. La terza parte del progetto, la raccolta dei dati a dimostrazione dell’efficacia, verrà intrapresa nel corso del 2014. Nel gruppo si sono raccolte le esperienze dei diversi AC, giungendo così ad uniformare comuni modalità di approccio e di gestione dei pazienti e familiari, pur mantenendo la specificità ed unicità relative al contesto in cui sono inseriti: ad esempio, interventi psico-educativi domiciliari, oppure il coinvolgimento delle diverse figure professionali per il coordinamento delle attività (17 Cassinadri et al, 2013). La sola differenza delle aree geografiche spiega la necessità di mantenere atteggiamenti differenziabili: in montagna, rispetto alla pianura, è più facile che vengano organizzati incontri anche domiciliari, in conseguenza delle difficoltà di spostamento. Un altro obiettivo è creare un collegamento con le Unità di Valutazione Alzheimer e gli altri Centri già esistenti (ASL, Centri Diurni, RSA), per collocare gli AC all’interno del sistema a rete delle cure per la demenza.

 

Alzheimer Cafè: alcuni principi di funzionamento

La costituzione di servizi quali l’Alzheimer Cafè è tesa a soddisfare i bisogni assistenziali delle persone anziane affette da demenza lieve-moderata che vivono al proprio domicilio, accudite dalla famiglia mediante caregiver informali (coniuge, figli, assistenti private) o con il supporto di caregiver formali (servizio SAD, ADI, etc). L’intento primario è la promozione del benessere psico-fisico-sociale e della qualità di vita dell’anziano e del suo contesto familiare, riducendo così il loro isolamento. L’attivazione di un AC può essere sostenuta da un Ente, una Struttura Socio-Sanitaria, o un’organizzazione territoriale (Associazioni). I soggetti promotori generalmente sono già coinvolti nell’assistenza rivolta all’anziano: vi sono infatti RSA, cooperative sociali, associazioni di volontariato, oppure i Comuni che, spinti dal bisogno, si adoperano per sostenere economicamente il servizio. Sovente gli AC sono il risultato di collaborazioni sinergiche fra più Enti e Associazioni, che condividendo risorse e strumenti, integrano i servizi già esistenti con un AC.

 

I luoghi dove gli Alzheimer Cafè possono essere collocati sono strutture per anziani (RSA o Centri Diurni Integrati), ma anche luoghi di ritrovo concessi da istituzioni comunali, parrocchiali, associazioni di volontariato. La cadenza degli incontri degli Alzheimer Cafè afferenti al Coordinamento è settimanale: rispetto all’organizzazione mensile, si è ritenuto più efficace e coinvolgente creare una maggiore frequenza degli incontri. L’obiettivo è di creare un gruppo che si incontra costantemente, con maggiore efficacia (il volontariato organizza anche il trasporto, se necessario).

 

Ai partecipanti vengono somministrate scale di valutazione standardizzate, all’inizio ed a distanza di 6 mesi dall’intervento, con l’obiettivo di valutare l’efficacia in diversi ambiti: cognitivo, affettivo, funzionale e comportamentale. Per il paziente, si usano strumenti validati:

  • Mini Mental State Examination – MMSE (18 Folstein, 1975;19 Magni et al, 1996),
  • Geriatric Depression Scale – GDS (20Yesavage, 1986)
  • Attività di base della vita quotidiana – BADL (21Katz et al, 1963)
  • Attività strumentali della vita quotidiana – IADL(22 Lawton e Brody, 1969),
  • UCLA Neuropsychiatric Inventory (23 Cummings et al, 1994; 24 Binetti et al, 1998)
  • Prima dell’intervento, ed al follow up, anche ai familiari vengono somministrate scale di valutazione che consentono di esaminare la percezione della qualità di vita (Quality of Life-AD, 6 Logsdon et al; 1999) e del carico assistenziale (Caregiver Burden Inventory; 25 Novak et al, 1989).

 

Le modalità di svolgimento dei singoli incontri non differiscono da quelle predisposte da Bere Miesen, ed hanno l’obiettivo di garantire accoglienza e serenità nei frequentatori, come se si ritrovassero in un ambiente rilassante (appunto, un Caffè). Schematicamente, ogni incontro può essere suddiviso in 5 parti: la prima è naturalmente l’accoglienza, perché, come avviene in un normale Cafè, i visitatori arrivano a poco a poco e deve essere lasciato loro il tempo di accomodarsi e bere qualcosa, ambientarsi. In questa fase iniziale gli organizzatori accolgono i nuovi arrivati, favorendo la socializzazione. Segue una parte “formale” per i familiari (presentazione di un video sulla malattia, o conferenza da parte di un esperto) nella quale i caregiver possano apprendere informazioni utili. Nella terza parte, un intervallo con musica e bevande, lascia libera possibilità all’interazione personale fra gli organizzatori, o l’esperto, ed i caregiver che preferiscono non fare domande in pubblico. Mentre i caregiver sono impegnati altro personale si dedica ai malati, organizzando attività piacevoli. Al termine dell’intervallo si apre la discussione tra tutti coloro che vogliono dare il proprio contributo: spazio aperto a commenti, considerazioni personali, richieste, condivisione di esperienze.

 

Al termine del dibattito inizia la fase conclusiva dell’incontro nella quale si lascia spazio all’atmosfera informale del Cafè. Alcuni andranno via quasi subito, altri, invece, approfitteranno di questo momento per parlare con altri familiari, ascoltare le loro storie, o con gli specialisti, bevendo un drink. In alcuni Alzheimer Cafè al termine dell’incontro si balla e si canta mentre in altri i visitatori possono annotare le proprie impressioni sull’incontro su una sorta di “diario di bordo”. Ciò può essere utile per valutare l’andamento del Cafè. Gli organizzatori possono anche utilizzare questo momento informale per discutere con i partecipanti relativamente ad eventuali argomenti di futuri incontri.

 

Attività con la persona affetta da demenza e con il familiare

Per il malato è importante entrare in contatto con le persone, vivere un incontro in una situazione di serenità. Pertanto vengono soprattutto proposte attività di gruppo: interventi il cui intento è sollecitare e mantenere un ottimale livello delle funzioni fisiche, psicologiche e sociali, mediante attività ludico-ricreative che siano rispondenti ai bisogni ed alle necessità della persona.

 

In base allo scopo da raggiungere, le attività proposte sono lavori pratici, manuali, passeggiate all’aperto, motricità finalizzata, pet-terapy, attività indirizzate alle capacità cognitive (gioco a carte, canto e lettura, fotografie, preparazione di piccoli oggetti), attività che agiscono sulla capacità di ogni individuo di definire il proprio sè ed essere in grado di rapportarsi con gli altri (merenda, feste, balli). Si propongono attività in piccoli gruppi al fine di favorire la socializzazione e stimolare la partecipazione. E’ fondamentale proporre anche interventi individuali, quali, ad esempio, cicli di stimolazione cognitiva, in base alle singole necessità.

 

 

Attività con i familiari

Per il familiare è importante poter parlare con persone competenti, dalle quali ricevere informazioni su come comportarsi, sul significato della malattia e sulle possibili forme di assistenza attuabili. Il Cafè rappresenta uno spazio di condivisione del problema, di scambio e acquisizione di nuove conoscenze per i familiari, ma anche di promozione del benessere. I familiari possono partecipare alle attività dirette al proprio caro mettendosi in gioco e riscoprendo, in questo modo, la bellezza del “fare insieme”.

 

I caregiver possono inoltre svolgere attività parallele a quelle proposte ai malati, come partecipare a incontri informativi e formativi su tematiche relative alla demenza o su altri argomenti (alimentazione, malattie somatiche, aspetti economici) e partecipare a momenti di gruppo, confronto e scambio di esperienze. Le attività col caregiver si dividono in due gruppi: in primis, gli aiuti pratici. Il Café può aiutare il familiare nella preparazione alle fasi successive della malattia, tramite l’informazione sull’evoluzione dei sintomi, quanto sulla condivisione di esperienze con altri familiari; inoltre, il Café può essere considerato un luogo sicuro dove il familiare può lasciare l’assistito per qualche ora, anche solo per dedicare tempo a se stesso in assoluta tranquillità. L’altro aspetto è quello del sostegno psicologico: nel Café si favorisce il dialogo tra i caregiver secondo modalità di aiuto e confronto reciproco, oppure si cerca di facilitare la rielaborazione del proprio vissuto tramite un dialogo individuale. Il Cafè diventa inoltre un momento formativo-informativo dove il caregiver può ricevere chiarimenti sulla malattia, sulla sua evoluzione e su comportamenti, interventi e accorgimenti da adottare.

 

Una conclusione aperta

Gli Alzheimer Cafè sono eventi emergenti dal bisogno di supporto psicologico e sociale, che integrano quanto è stato fatto, a partire dagli anni ’90, per le demenze. I primi dati indicano il loro beneficio sullo stress e sull’isolamento sociale del malato e della famiglia. La sensazione di potere contare su qualcuno che ascolta, condivide ed aiuta, e conteporaneamente ricevere una cura specifica per il proprio familiare malato, sono gli elementi vincenti di questo nuova modalità di gestione della malattia.

 

Gli Alzheimer Cafè hanno bisogno, tuttavia, di fare un salto di qualità in termini organizzativi: obiettivo del Coordinamento di Bergamo e Brescia è proprio la creazione di programmi specifici su obiettivi perseguibili ed individualizzati, metodiche di valutazione ed intervento standardizzate che possano esere “esportate” e diffuse anche ad altri. E’ necessario, inoltre, dimostrare i risultati dell’intervento sia su obiettivi intuibili (benessere del paziente e del familiare) quanto su outcome forti (cognitività, disturbi del comportamento, istituzionalizzazione) perché si mantenga viva questa preziosa risorsa. I dati futuri ci aiuteranno ad indirizzare al meglio la attività degli Alzheimer Cafè, nell’ottica di un cura sempre più vicina a chi soffre.

 

Si ringraziano per la preziosa collaborazione i partecipanti al Coordinamento degli Alzheimer Cafè di Bergamo e Brescia: Stefano Boffelli (Bergamo), Diego Ghianda (Brescia), Nicola Berruti (Brescia), Sara Avanzini (Brescia), Paola Li Bassi (Brescia), Fabrizio Mercurio (Bergamo), Barbara Brignoli e Bianca Radici (Bergamo), Elena Mafezzoli e Alessandra Rodella (Brescia), Stefania Tosoni e Gabriella Rossignoli (Brescia).

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