1 Settembre 2014 | Cultura e società

Le traiettorie dal lavoro alla pensione: mutamenti istituzionali e conseguenze per il benessere individuale

Le traiettorie dal lavoro alla pensione: mutamenti istituzionali e conseguenze per il benessere individuale

Le transizioni da una fase all’altra del tipico modello di corso di vita (scuola-lavoro-pensione) rappresentano uno dei temi maggiormente indagati dalle scienze sociali. L’approccio sociologico al corso di vita in particolare si pone l’obiettivo di analizzare i mutamenti indotti dalla crescita continua di eterogeneità delle traiettorie di vita individuali e di sottolineare l’associazione tra cambiamenti a livello macro e conseguenze a livello micro, sempre tenendo in conto l’interdipendenza tra i diversi episodi di vita (George, 1993). Al tempo stesso questo approccio necessita di una prospettiva che sconfini anche in altre discipline, per comprendere a pieno il processo di mutamento.

 

Il processo di transizione dal lavoro alla pensione ben rappresenta questa esigenza: il passaggio alla vita inattiva richiede una prospettiva in grado di interpretare gli esiti individuali del cambiamento di stato per gli aspetti riguardanti ad esempio le conseguenze economiche, fisiche, psicologiche come risultato della relazione tra contesto sociale e benessere individuale, ovvero come prodotto dell’interrelazione tra vite individuali e il mutamento istituzionale.

 

Nel presente contributo si presenteranno sinteticamente gli elementi chiave di alcuni approcci sociologici che sono stati in grado di cogliere gli aspetti salienti del processo di abbandono della vita attiva, sia dal punto di vista macro che micro, e verranno inoltre discussi i mutamenti più significativi intervenuti negli ultimi decenni. Infine si discuteranno gli esiti più significativi per il benessere individuale della transizione al pensionamento.

 

Il pensionamento come istituzione sociale

Dalla fine del XIX secolo si è affermata in tutti i paesi industrializzati l’idea che i lavoratori non possano rimanere nel mercato del lavoro troppo a lungo in età avanzata e che sia necessario un intervento istituzionalizzato in grado di garantire il benessere socio-economico anche dopo la fine della carriera lavorativa. Il progressivo sviluppo di programmi di pensionamento ha reso l’uscita definitiva dalla vita attiva in età avanzata socialmente accettata. Attraverso le norme relative alle età di uscita verso la pensione per la prima volta si definisce istituzionalmente quando e a quali condizioni ogni cittadino possa affidare la propria sussistenza, il proprio benessere al welfare state. Con l’implementazione dei sistemi pensionistici si afferma un nuovo diritto, quello al benessere durante la vecchiaia.

 

Dai primi anni ’70 la crisi economica porta alla crescita della disoccupazione, a processi di ristrutturazione industriale e, di conseguenza, all’esubero di forza lavoro. Per fronteggiare l’accresciuta richiesta di copertura dei bisogni sociali molti paesi occidentali introducono la possibilità del pensionamento anticipato rispetto all’età minima prevista dai sistemi pensionistici nazionali per beneficiare della pensione pubblica. Considerato come meccanismo di regolazione della domanda e dell’offerta di lavoro, il pensionamento anticipato istituzionalizzato assume una duplice accezione: da una parte rappresenta un intervento della politica contro il mercato, poiché espande i diritti sociali come risposta alle fluttuazioni del mercato; dall’altra è anche un intervento a favore del mercato, poiché rende più fluidi e accettati i processi di ristrutturazione economica (Ebbinghaus, 2001).

 

L’inattività dopo i 60 anni è divenuta quindi la norma in molti paesi, tra questi in particolar modo l’Italia, dove diverse misure ad hoc hanno consentito di sfruttare l’opportunità di diventare pensionati prima del limite standard. Bisogna tuttavia sottolineare che allo stesso tempo in questo modo si è avuto un ulteriore rafforzamento delle disuguaglianze sociali, con alcune categorie di lavoratori che hanno beneficiato più di altre di misure appositamente studiate. Basti pensare all’esplosione delle baby pensioni per i dipendenti pubblici che fino ai primi anni ’90 consentivano il pensionamento dopo meno di venti anni di carriera, o ai numerosi interventi concordati tra le parti sociali che hanno permesso di ridurre la forza lavoro ultracinquantenne, spesso poco qualificata, contenendo il rischio di disoccupazione.

 

Dalla fine degli anni ’80 tuttavia le pressioni dovute al processo di globalizzazione e all’esigenza di armonizzazione istituzionale richiesta dal percorso di aggregazione europea hanno dato il via a una stagione di riforme volta a restringere i canali di accesso alla pensione anticipata, pur con notevoli differenze tra i paesi europei. I corsi di vita sono socialmente determinati dai contesti istituzionali: ogni contesto nazionale “filtra” opportunità e rischi sociali attraverso interventi sulla regolazione del lavoro e sulle misure di protezione sociale. Ogni sistema nazionale di welfare si caratterizza per le proprie peculiarità, anche se in Europa è possibile identificare degli idealtipi con tendenze comuni nelle strategie di gestione della forza lavoro ultracinquantenne.

 

Da un lato si trovano quei paesi che hanno continuato a prevedere incentivi al pensionamento per consentire ai lavoratori più anziani in esubero, con profili professionali meno aderenti alle richieste del mercato del lavoro, di terminare la carriera precocemente. Dall’altro invece ci sono paesi che, per fronteggiare la prolungata presenza dei lavoratori nel mercato del lavoro dovuta all’innalzamento dell’età minima pensionabile, hanno adottato politiche di riqualificazione della forza lavoro. Mentre nel primo gruppo si colloca l’Italia, insieme agli altri paesi dell’area mediterranea, nel secondo invece si ritrovano tutti i paesi dell’Europa centro-occidentale, tra i quali soprattutto i paesi scandinavi hanno avuto il ruolo di precursori delle politiche di prolungamento della vita attiva.

 

Passando da una visione macro a una più micro, il dibattito tra gli studiosi si è concentrato sulla natura delle transizioni individuali dal lavoro alla pensione alla luce dei mutamenti occorsi negli ultimi tre decenni. Due contrapposizioni tra concetti utilizzati per interpretare l’evoluzione storica dei percorsi verso la pensione risultano particolarmente efficaci per cogliere la natura del mutamento. La prima dicotomia è tra istituzionalizzazione e individualizzazione: il primo concetto individua il processo che attraverso norme e regole definisce in maniera formale l’organizzazione sociale e temporale del pensionamento; il secondo invece identifica la garanzia per gli individui di un elevato grado di controllo sulle proprie vite e di maggior liberta nel pianificare la fine della carriera lavorativa. La seconda dicotomia vede contrapposti i concetti di standardizzazione e differenziazione: nel primo caso si identificano transizioni che risultano uniformi per tutti gli individui, o per categorie di individui, mentre nel secondo si sottolinea la presenza di traiettorie composte da episodi che per ordine e natura differiscono tra un individuo e l’altro, rendendo il pensionamento un’esperienza interpretabile alla luce delle differenti caratteristiche dell’individuo e del contesto istituzionale cui si adattano (Mayer, 1991).

 

Quest’ultimo sembra il concetto più efficace nel cogliere anche quanto avvenuto in Italia in merito alle più recenti novità nel sistema pensionistico. Dai primi anni ’90 diverse riforme si sono susseguite per tentare di porre rimedio alla difficile sostenibilità economica del sistema pensionistico. Prima la riforma Dini nel 1992, poi quella Amato nel 1995 furono attuate con l’intento di prolungare la vita attiva stabilendo nuove età minime di transizione lavoro-pensione e soprattutto dando il via al processo di sostituzione del tradizionale sistema pensionistico retributivo con quello contributivo. Piccoli aggiustamenti furono poi introdotti negli anni successivi con le riforme di Prodi nel 1997, Maroni nel 2004 e ancora Prodi nel 2007. Tuttavia, prima della riforma Fornero del 2012, tutti gli interventi attuati furono caratterizzati da un’implementazione delle nuove norme molto diluita nel tempo e, soprattutto, dalla presenza di numerose eccezioni e regole ad hoc per alcune categorie di lavoratori.

 

Questa impostazione normativa ha fatto sì che i lavoratori anziani, pur avendo a disposizione diverse traiettorie di uscita dal lavoro, dovessero comunque adattarsi al percorso aderente alle loro caratteristiche. Più che individualizzare la transizione alla pensione il nuovo contesto istituzionale italiano ha differenziato ancor di più che in passato le opportunità di fine carriera, contribuendo però a confermare, se non ad accentuare, l’elevato grado di disuguaglianza tra le diverse categorie di lavoratori. La classica dicotomia tra protetti e non protetti continua a permanere nel mercato del lavoro italiano e si riscontra anche nella parte finale della carriera. A questo si associa un contesto regolativo ed economico del mercato del lavoro che rispetto al passato si sta caratterizzando per una maggiore instabilità anche per i lavoratori ultracinquantenni, fino a pochi anni fa protetti dal rischio di disoccupazione o sottoccupazione. Questo elemento di novità che dagli anni 2000 ha interessato i mercati del lavoro occidentali, e più recentemente anche quello italiano, deve indurre a porre l’attenzione su quelle che possono essere le conseguenze della transizione al pensionamento sul benessere individuale.

 

Gli effetti del pensionamento sul benessere individuale

Di seguito si presenteranno brevemente alcune evidenze scientifiche riguardanti gli effetti della transizione alla vita inattiva sul benessere individuale, con particolare attenzione alla salute psico-fisica. Se è infatti noto che diventare pensionati comporta spesso una riduzione delle capacità di spesa, anche in Italia dove tuttavia grazie al sistema retributivo si è perseguito per anni il mantenimento dello status acquisito durante la vita attiva, più controversi sono i risultati degli studi che hanno analizzato come il diventare pensionati influisca sul declino cognitivo, sui sintomi depressivi e sullo stato di salute fisica.

 

La transizione dal lavoro alla vita inattiva rappresenta un passaggio cruciale che si ripercuote sugli aspetti sociali e psicologici: il pensionamento da una parte può migliorare il benessere, diminuendo fatica e stress derivanti dal lavoro, dall’altra invece può indurre un peggioramento delle condizioni di salute psichica limitando le reti di relazioni sociali e incidendo sull’identificazione del sé individuale e nella società poiché, come afferma Sen (1975), il lavoro attribuisce riconoscimento sociale.

 

Alcuni studi hanno sottolineato l’effetto negativo del pensionamento poiché, a causa della diminuzione degli impegni e delle relazioni sociali, porterebbe a un incremento dei livelli di depressione e dei problemi di salute (Alavinia e Burdorf, 2008; Bossè et al., 1990; Freedman, 2007). Altri studi enfatizzano invece come l’aumento del tempo libero conseguente all’abbandono della carriera, incrementi la possibilità di impegnarsi in nuove attività, di prendersi cura della propria salute, di coltivare i rapporti sociali (Drentea, 2002; Mein et al., 2003; Mojon-Azzi et al., 2007). Infine un altro gruppo di studiosi ha sottolineato come non ci sia un effetto significativo del pensionamento sul benessere individuale: secondo la loro tesi la salute psico-fisica successiva al pensionamento seguirebbe quanto avvenuto nelle fasi precedenti di vita senza mutamenti evidenti durante o dopo il pensionamento, così come il grado di coinvolgimento sociale deriverebbe dalle attitudini personali più che dallo status nel mercato del lavoro (Butterworth et al., 2006; Neuman, 2007; van Solinge, 2007).

 

Tuttavia numerosi tra gli studi che si sono occupati di analizzare le conseguenze del pensionamento soffrono spesso di due elementi di debolezza: dal punto di vista metodologico, le analisi sono spesso state condotte su dati di tipo cross-sectional, tralasciando quindi il concetto di percorso di transizione e confondendo quindi elementi antecedenti o endogeni come causali; dal punto di vista sostanziale ci si è concentrati quasi esclusivamente sui lavoratori maschi, non solo trascurando il fatto che grazie all’accresciuta partecipazione femminile al mercato del lavoro anche una quota importante di lavoratrici negli ultimi due decenni ha affrontato l’evento del pensionamento, ma anche tralasciando l’aspetto relazionale del passaggio alla vita inattiva, ovvero la condivisione tra partner, più o meno simultanea, dell’uscita dal lavoro. Un approccio esaustivo invece dovrebbe adottare la prospettiva del corso di vita, considerando i mutamenti di status come esito di percorsi di transizione in cui diversi elementi entrano in gioco e le conseguenze individuali sono frutto dell’interdipendenza tra questi.

 

Un recente lavoro di Mazzonna e Peracchi (2012) che segue l’approccio longitudinale, ha analizzato l’impatto del pensionamento sul declino cognitivo, sottolineando anche l’importanza di queste analisi per le scienze economiche e sociali. Il declino cognitivo infatti ha ripercussioni sulle abilità di decision making degli individui e, insieme all’istruzione e alle capacità relazionali e fisiche, rappresenta un elemento essenziale di quel concetto di capitale umano tanto caro ai sociologi. Utilizzando i dati dell’indagine longitudinale internazionale SHARE, Mazzonna e Peracchi misurano l’impatto del percorso di transizione alla pensione sui punteggi ottenuti dagli individui del campione ad alcuni test cognitivi che riguardano l’orientamento nel tempo, la memoria, la fluenza verbale e la capacità di calcolo. I risultati, al netto dell’effetto età, dimostrano il declino delle abilità cognitive dopo il pensionamento, confermando le ipotesi degli autori riguardo a un minor investimento nelle attività di mantenimento delle capacità individuali che necessariamente avviene mentre si affronta l’uscita definitiva dal mercato del lavoro, nonostante si debba tener conto che il livello di istruzione gioca un ruolo chiave nello spiegare l’eterogeneità delle capacità cognitive.

 

Per quanto riguarda gli effetti del pensionamento sulla salute fisica i risultati sembrano invece ancora molto ambigui. Westerlund et al. (2010) hanno analizzato l’impatto del pensionamento sui livelli di fatica e stress e sull’incidenza di malattie croniche nella popolazione francese del GAZEL Study, composta da più di 14000 individui seguiti nei sette anni precedenti e successivi al pensionamento . Mentre l’abbandono della vita attiva risulta significativamente associato a una diminuzione dei carichi di fatica psico-fisica, nessuna evidenza emerge in merito ad un incremento del rischio di patologie cardiovascolari, respiratorie o del diabete, che sono più che altro associate al fattore età. Moon et al. (2012) si sono concentrati sul rischio di patologie cardiovascolari analizzando circa 5000 lavoratori dell’indagine statunitense Health and Retirement Study, seguiti per dieci anni dal 1998, distinguendo inoltre tra gli effetti nel primo anno dopo il pensionamento e quelli più a lungo termine. Emerge qui l’associazione significativa tra ritiro dal lavoro e rischio di infarto soprattutto nel primo anno di pensionamento con un declino invece negli anni successivi.

 

In questo caso però si potrebbe trattare di un effetto causale inverso, ovvero sarebbe l’insorgenza di patologie cardiovascolari a indurre al ritiro dal lavoro e non il contrario. Ancora differenti sono gli esiti delle analisi effettuate da Coe e Zamarro (2011) che hanno preso in esame circa 5000 individui coinvolti nelle prime due rilevazioni dell’indagine SHARE. In questo studio sono stati messi a confronto gli esiti del pensionamento sulla salute percepita e su un indicatore di salute oggettiva. I risultati evidenziano in questo caso un effetto positivo, seppur solo a breve termine, del pensionamento sulla salute percepita e un più durevole effetto protettivo rispetto all’indicatore di salute oggettiva.

 

Le evidenze più interessanti si riscontrano però in quegli studi che hanno preso in esame la relazione tra pensionamento e benessere psicologico, con particolare attenzione agli effetti sulla depressione e, più in generale, sulla percezione del proprio benessere. Molto convincente risulta l’approccio che segue la prospettiva tipica delle scienze sociali applicate al corso di vita che si potrebbe definire culturale-istituzionale (Dannefer, 2011). Seguendo questa prospettiva il timing del pensionamento sarebbe il fattore determinante del benessere individuale: il pensionamento normato istituzionalmente, con l’indicazione delle età necessarie per l’uscita dal mercato del lavoro, produce di conseguenza i concetti di pensionamento anticipato, ritardato o normale (Borsch-Supan e Jurges, 2009). Ci sono alcune evidenze empiriche che dimostrano come i livelli migliori di salute psichica si registrano quando le esperienze avvengono in linea con lo schema temporale socialmente condiviso (George, 2010) rispetto ai casi in cui le transizioni sono meno aderenti allo schema tipicamente diffuso (van Solinge e Henkens, 2007). Calvo et al. (2012) trovano conferma di questa ipotesi nelle loro analisi condotte su un campione di circa 6000 individui del Health and Retirement Study: i maggiori sintomi depressivi sono infatti associati al ritiro molto anticipato rispetto all’età standard di pensionamento, mentre nessun effetto negativo si riscontra quando il pensionamento avviene molto in ritardo rispetto all’età attesa.

 

Ovviamente questa prospettiva necessita di essere adattata a ciascun contesto nazionale con le sue norme e restrizioni poiché, come si è discusso in precedenza, differente è stato l’impatto delle riforme e delle politiche di sostegno alla forza lavoro più anziana nei paesi occidentali. La discrepanza tra il timing socialmente accettato e l’effettiva transizione sperimentata da ciascun individuo avrà effetti tanto più negativi quanto meno istituzionalizzate sono le traiettorie di uscita anticipata dalla vita attiva. Pensando in particolare all’Italia, per diversi decenni il pre-pensionamento ha rappresentato un fenomeno diffuso e socialmente accettato, mentre un maggiore stigma negativo verso questa opportunità si è sempre avuto nei pesi dell’Europa del nord.

 

Alla luce dei numerosi mutamenti in atto nei sistemi regolativi del lavoro, delle sempre più pesanti pressioni derivanti dal continuo processo di globalizzazione dei mercati e del conseguente aumento del livello di differenziazione e instabilità delle traiettorie di transizione dal lavoro alla pensione, sarà sempre più utile approfondire la conoscenza degli effetti causali del passaggio alla vita inattiva se si vuole mantenere intatto il diritto al benessere in età anziana e quindi rafforzare la coesione sociale.

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