“Se ti mancano i medici, siano per te medici queste tre cose: animo lieto, quiete e moderata dieta”
Scuola Salernitana
“Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo”, Ippocrate. Questa esortazione ancora oggi ci convince, anche se pensata in tempi diversi dai nostri in cui nutrirsi era il problema dominante, perché prevaleva la penuria o la ricorrente carestia rispetto all’abbondanza odierna.
Il cibo è fonte di energia e di vita per ogni vivente e la sua disponibilità ha condizionato lo sviluppo della nostra specie e del suo genoma (come per ogni specie) attraverso il meccanismo selettivo della sopravvivenza del più adatto. L’Antropologia ci fornisce dati e reperti sempre più precisi e consistenti sui condizionamenti ambientali e fra questi quelli della disponibilità di risorse alimentari che hanno determinato la nostra dotazione biologica enzimatica. Il percorso evolutivo evidenzia che i nostri lontani “antenati” da vegetariani sono diventati onnivori. Ne è prova, ad esempio, la modifica della mascella, dei denti e della masticazione, ma anche di altre caratteristiche scheletriche e funzionali come la lunghezza del femore, l’altezza, la mano, lo sguardo a supporto delle modifiche di raccolta e procacciamento del cibo, per finire con la modifica della dotazione enzimatica e della struttura dell’intestino.
Come è noto, la nostra specie ha perso la destrezza delle scimmie nell’arrampicarsi sugli alberi, ma ha acquisito la capacità di camminare eretta con la modifica del piede e dell’arco plantare e la capacità di correre più di ogni altro animale con la perdita del pelo, con un indubbio vantaggio competitivo. L’uomo ha potuto correre per cacciare le prede in gruppo, e correre a lungo, disperdendo il calore dello sforzo fisico, stremando la preda fino a che fosse a tiro degli attrezzi da caccia (in alcune tribù indiane del Messico questa pratica si è mantenuta fino a epoche recenti). La cattura di animali, per nutrire il clan, era diventata possibile anche senza artigli e zanne, legando la sopravvivenza della specie all’attività motoria. Questo aiuta a capire perché ci è rimasto in dote il beneficio dell’attività motoria oggi più che mai capace di portare sia alla riduzione della mortalità generale che della mortalità specifica, prima fra tutte quella cardiovascolare, ma anche ad esempio, tumorale.
L’attività motoria è anche un fattore di protezione e di benessere in grado di contrastare molti aspetti deleteri che si accompagnano all’invecchiamento, dall’evitare i danni della sindrome metabolica al miglioramento dell’invecchiamento cerebrale/ cognitivo, oltre a dare benessere, aumentando le endorfine che aiutano a sentirci bene quando siamo attivi. La letteratura e i dati prodotti sui benefici dell’attività motoria è oggi talmente sterminata e concorde, da farne un tema ormai più da promozione di politiche della salute che non un oggetto di discussione scientifica.
Il paleoantropologo Tattersall (1) fa risalire a 2,6 milioni di anni fa la comparsa dei primi strumenti di pietra: da allora comincia il pieno utilizzo dei proventi della caccia, dando il via a una crescente dipendenza dalle proteine animali. Questo cambiamento della dieta finì per alimentare una rapida espansione delle dimensioni cerebrali, per il genere Homo. La capacità di procurarsi il cibo con la caccia e la raccolta ha consentito un vantaggio evolutivo, migliorato le chances di sopravvivenza e, come si è visto studiando le rimanenti popolazioni primitive, la partecipazione di maschi e femmine al procacciamento del cibo ha permesso di vincere la sfida competitiva, in tempi dove erano ricorrenti periodi di penuria o carestia, determinanti sia per i carnivori che per gli erbivori. A quei tempi era ovviamente impossibile essere obesi e la poca dotazione di grasso depositato era a favore dei fianchi delle donne (distribuzione ginoide dell’adipe) per una predisposizione ad avere riserve energetiche importantissime per l’allattamento della prole; una salvaguardia all’alta mortalità infantile di quelle epoche e quindi un vantaggio per la specie.
Inoltre, a sostegno dei vantaggi evolutivi a noi tramandati geneticamente dalla dieta onnivora, Cavalieri argomenta che l’assunzione di proteine animali ad alto valore nutritivo (compreso il midollo delle ossa lunghe) ha innescato “cambiamenti morfologici, metabolici e nel comportamento sociale: aumento della stazza corporea e dell’encefalizzazione (… omissis), riduzione dell’intestino e migliore capacità di adattamento a un regime alimentare ricco di grassi e di colesterolo” (2). La riduzione dell’intestino coincide con minor consumo metabolico necessario all’organo per le funzioni digestive a tutto vantaggio della crescita di consumo calorico del cervello che arriva al 20% del consumo calorico totale, pur essendo il 2% circa del peso dell’organismo (1330 gr è il peso medio attuale). A questo risparmio energetico di un organo a favore di un altro ha concorso nella storia dell’uomo la maggior digeribilità della carne rispetto alle fibre dei vegetali in generale e, infatti, la specie umana ha il più grande coefficiente di encefalizzazione, in altre parole il cervello più grande rispetto alla massa corporea fra tutti i mammiferi con un rapporto inverso con le dimensioni dell’intestino.
La cottura del cibo rappresenta una svolta nella disponibilità di energia, poiché il cibo cotto è più facilmente digeribile e con minor utilizzo di kilocalorie. La cottura ha inoltre protetto dalle tossinfezioni alimentari, un incidente di percorso mortale molto diffuso ed endemico nella nostra specie. “L’addomesticamento del fuoco probabilmente influì sullo sviluppo fisico dell’uomo oltre che sulla sua cultura …omissis…, cioè quando il cibo cotto sostituì una dieta costituita esclusivamente di carne cruda e materiale vegetale fresco, fu alterato l’intero schema della masticazione, della digestione e della nutrizione”, come propone Kenneth Oakley in On Man’s Use Fire, with Comments Tool-Making and Hunting 1963.
I vantaggi evolutivi di un adattamento ai cibi cotti emergono chiaramente mettendo a confronto l’apparato digerente umano con quello degli scimpanzé e di altre grandi scimmie: rispetto a loro noi abbiamo una bocca piccola, mandibole deboli e così pure sono piccoli stomaco, colon e apparato intestinale nel suo insieme (3). Le fibre muscolari della nostra mandibola sono 1/8 di quelle dei macachi a causa di una specifica mutazione del gene, chiamato MYH16, responsabile della produzione di miosina (una proteina contrattile), diffusosi nei nostri antenati circa 2 milioni e mezzo di anni fa: i nostri muscoli mandibolari non sono adatti per i cibi duri e crudi ma perfetti per quelli teneri e cotti.
Anche la dimensione dello stomaco risulta inferiore a quella del 97% degli altri primati e il colon presenta una massa inferiore del 60% rispetto a quella prevista per un primate del nostro peso. Una riduzione delle dimensioni dell’apparato intestinale accresce l’efficienza e ci evita di sprecare energia metabolica altrimenti necessaria per digerire grossi quantitativi di fibre, con un risparmio quotidiano calcolato in circa il 10% rispetto a quella utilizzata dalle grandi scimmie. Il processo di digestione per fermentazione del crasso restituisce solo il 50% nel caso di carboidrati come l’amido e quasi niente nel caso delle proteine che vi transitano; la parte preponderante dell’assorbimento del cibo avviene nell’intestino tenue e gli studi di digeribilità mostrano che utilizziamo con grande efficienza l’amido cotto, con assimilazione al 95%. La cottura dei cibi ha ottimizzato l’energia assimilabile, con un risparmio di fatica per masticare di circa 4 ore al giorno.
Aiello e Wheeler sostengono che i primati che spendono meno energia per l’apparato digerente possono impiegarla per potenziare il tessuto cerebrale (il cervello è un organo ad alto consumo energetico) secondo “l’ipotesi del tessuto costoso” (4). Col passare del tempo e delle generazioni, insieme alla costruzione di attrezzi è cresciuta la capacità di organizzarsi fino a passare dalla raccolta all’agricoltura. Questa, con tutte le altre note positive e storiche conseguenze, come la coltivazione dei campi e l’allevamento di animali, ha dato ai gruppi umani la stanzialità, la conoscenza tramandabile del territorio, la sicurezza nell’approvvigionamento e una migliore organizzazione. Fra le conseguenze dell’allevamento l’introduzione del latte extraspecie nell’alimentazione, evento cronologicamente piuttosto recente e non posteriore a 7.000 anni, vi è l’emergere di una mutazione genetica indispensabile (dopo lo svezzamento) alla digestione del disaccaride lattosio che per idrolisi si trasforma in zuccheri semplici e assimilabili. La distribuzione tra la popolazione umana di questa mutazione non è omogenea, ma varia considerevolmente per individuo ed etnia, confermando il legame con la diffusione della pratica della pastorizia e dell’arte casearia. Tutto questo è ben descritto negli studi genetici di Cavalli Sforza, prima, e di Gerbault poi (5).
La pratica casearia ha costituito una stabile fonte proteica e alimentare che, insieme alla cottura dei cibi, ha fornito indubbi vantaggi all’evoluzione della nostra specie e del nostro cervello. Ai giorni nostri, tempi di abbondanza, grazie alla catena del freddo e all’industria alimentare, la disponibilità smisurata di cibo rappresenta un problema per la salute a cui non siamo abituati, dopo che per milioni di anni l’uomo ha avuto una pressione selettiva legata alla penuria di cibo.
L’obesità rappresenta oggi una condizione epidemica: nel 2014 più di 600 milioni di adulti in tutto il mondo erano obesi e altri 1,9 miliardi di individui erano in sovrappeso. In Italia il 46% degli adulti è obeso e il 10% in sovrappeso (6). L’obesità è uno stato clinico pericoloso, prevenibile, da considerarsi come una malattia cronica con effetti avversi su salute, longevità e qualità della vita. Nell’aumento del tasso di obesità sono importanti i fattori fisiologici e genetici, ma anche quelli ambientali, inclusi il reddito disponibile, il luogo di residenza, il lavoro, i viaggi e il tempo libero svolgono, un ruolo significativo. L’abbondanza di cibo e la scomparsa delle carestie ha offerto indubbi vantaggi alla specie; ha favorito il prolungamento della vita media e l’invecchiamento della popolazione, ma ci ha dato anche il rovescio della medaglia: un’obesità diffusa con un carico di malattia e disabilità che è tuttavia possibile evitare e contrastare più facilmente che non le malattie da fame di due generazioni fa.
Quindi ora è soprattutto necessario raggiungere un buon livello di consapevolezza che l’equilibrio metabolico del nostro corpo dipende da noi; infatti si registra che il problema è più diffuso negli ambienti culturalmente più poveri ed è influenzato dal nostro stile di vita e dalle nostre scelte. Il passaggio da Homo sapiens a Homo obesus ha radici lontane: i fattori che condizionano la possibilità di disporre di cibo sono legati all’organizzazione economica, sociale, commerciale e non alla sua disponibilità che è (o sarebbe) sovrabbondante per tutta la popolazione del pianeta. È con questa recentissima abbondanza che stiamo facendo i conti: molto cibo senza la necessità di correre per procacciarselo.
Non è più il muscolo, ma il neurone che muove il mondo. Da qui occorre ripartire per costruire nuovi modelli sociali, un diverso pensiero su di noi, sul nostro futuro come specie che non ha più il problema di procacciarsi gli alimenti, ma di come meglio distribuirli e di come migliorarne la qualità.
Bibliografia
1. Tattersall I. I signori del pianeta. Codice Edizioni, Torino 2013.
2. Cavalieri R. E l’uomo inventò i sapori. Storia naturale del gusto. Il Mulino, Bologna 2013.
3. Wrangham R. L’intelligenza del fuoco, l’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo. Bollati Boringhieri Torino, 2009.
4. Aiello LC, Wheeler P . The Expensive-Tissue Hypothesis: The Brain and the Digestive System in Human and Primate. Current Anthropology . 1995;36:199-221.
5. Gerbault P , Liebert A, Itan Y , Powell A, Currat M, Burger J, Swallow DM, Thomas MG. Evolution of lactase persistence: an example of human niche construction. Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. 2011;366:86377.
6. Hauner HJ. http://medscape.org/clinicalupdate/obesity-pandemic