1 Agosto 2003 | Cultura e società

Journal of American Geriatric Society (JAGS)


Chi come me – a motivo dell’età – si è accostato alla Geriatria a metà degli anni 70, ha subito forte il fascino della Geriatria inglese e del modello britannico dei servizi per gli anziani. Non si trattava solo di una sorta di “egemonia” culturale, allora promossa soprattutto dal Professor Antonini e dallo straordinario laboratorio gerontologico rappresentato dalla Scuola di Firenze: erano i più facili e frequenti contatti con la realtà britannica, con i luoghi nei quali all’indomani della seconda guerra mondiale era nata e si era sviluppata la Geriatria inglese – e da lì la cultura e la pratica geriatrica internazionali – a farci toccare con mano la possibilità di mettere in pratica principi (in Italia ancora ben lungi dal trovare una pur minima traduzione concreta) quali l’approccio globale al paziente anziano, la interdisciplinarietà, la pari dignità riconosciuta alle diverse culture ed alle diverse professionalità coinvolte nell’assistenza e, ancora, la continuità della cura, la centralità del territorio e della domiciliarità, l’enfasi posta sulla riabilitazione, l’attenzione costante alle tematiche più squisitamente geriatriche (le piaghe da decubito, l’incontinenza, la demenza, …) con altrettanta sistematicità disattese dalla medicina clinica. Era d’altra parte più facile, soprattutto per chi operava nell’ambito dei servizi, ispirarsi ad un sistema sanitario nazionale simile a quello che si stava cercando di costruire nel nostro Paese, e che dimostrava la possibilità di rispondere in modo più adeguato al mutare delle domande di salute di una popolazione in rapido invecchiamento.

 

Il sistema sanitario americano appariva allora troppo diverso e lontano, come il nostro ancora saldamente centrato sull’ospedale e troppo poco proiettato sul territorio, quasi incompatibile con la possibilità – che noi ritenevamo alla portata solo di uno stato sociale forte ed universalistico – di garantire risposte di qualità alle fasce più deboli della popolazione. E la geriatria americana ci appariva allo stesso modo troppo legata alla pratica ospedaliera, ancora fortemente radicata in un approccio clinico. Poi, all’inizio degli anni ’80, abbiamo conosciuto i lavori di Rubenstein sull’assessment geriatrico, le pubblicazioni di Kane, i primi risultati degli studi longitudinali condotti negli Stati Uniti sull’invecchiamento, e la nostra (o quanto meno la mia) attenzione alla gerontologia ed alla geriatria americane sono del tutto cambiate.

 

Mediatore fondamentale di questo incontro con la geriatria americana è stato per me proprio JAGS, il Journal of the American Geriatrics Society, che da molti anni rappresenta uno degli strumenti basilari del mio aggiornamento. Fondato nel 1953, il Journal – come ha ricordato David Solomon, che ne è stato direttore tra il 1989 e il 1994 – ha allo stesso tempo rispecchiato e stimolato lo straordinario sviluppo della Geriatria americana, diventando uno dei principali luoghi di pubblicazione delle ricerche condotte non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.

 

Ho provato a riprendere in mano la prima annata del Giornale che, abbonandomi, ho cominciato a consultare regolarmente (il 1985). Prevalgono ancora i contributi clinici, volti a delineare le modalità di presentazione e di valutazione delle malattie negli anziani, la loro evoluzione, la loro prognosi. Ma allo stesso tempo colpisce l’attenzione riservata alle problematiche più prettamente geriatriche (i famosi “giganti” della geriatria), agli aspetti funzionali, alla metodologia dell’approccio geriatrico. Basterebbe una rapida elencazione degli argomenti trattati dagli editoriali di quei dodici fascicoli (dai criteri diagnostici e di gestione della malattia di Alzheimer ai trial clinici negli anziani, dalla promozione dell’autonomia nelle Nursing Homes all’epidemiologia dei problemi psichiatrici, dalle problematiche di natura etica al rapporto tra qualità e costi delle cure sanitarie, dall’assessment geriatrico all’importanza dell’ambiente per la persona anziana) per ritrovare molti nodi di una riflessione culturale e metodologica tuttora viva e l’annunciarsi di problemi destinati ad assumere un’importanza sempre più rilevante in ambito epidemiologico come nella pratica geriatrica e nella rete dei servizi.

 

Negli anni successivi, in parallelo con lo sviluppo della ricerca e della pratica gerontologica e geriatrica statunitense, il Giornale è andato continuamente crescendo, e non solo di dimensione (nell’annata del cinquantesimo, il 2002, ho contato, escludendo i supplementi, un numero di lavori pressoché doppio di quelli pubblicati nel 1985!). E’ aumentata progressivamente la percentuale degli articoli dedicati ai problemi funzionali, alla fragilità, alle sindromi ed ai problemi “geriatrici”, mentre anche i lavori di argomento clinico vengono affrontati in un’ottica squisitamente gerontologica, con un’attenzione particolare al target proprio della nostra disciplina – i grandi vecchi, i frail elderly – ed all’impatto della malattia e degli interventi medici sullo stato funzionale e sulla qualità della vita dei pazienti.

 

Sono andate costantemente crescendo sia la qualità che la complessità dei lavori pubblicati, agli studi osservazionali si sono via via sostituiti lavori basati su disegni sperimentali più rigorosi, dagli studi trasversali (cross-sectional) e longitudinali ai trial interventistici. Proprio l’enorme massa di dati messi a disposizione dai grandi studi epidemiologici longitudinali, oltre alla propensione degli autori americani a condividere studi multicentrici di ampio respiro, ha stimolato uno dei percorsi di approfondimento che più ha caratterizzato JAGS negli ultimi anni, lo studio della pathway tra senescenza, malattia cronica (comorbidità) e disabilità, la ricerca dei determinanti e dei fattori predittivi – biologici ma anche psico-sociali e comportamentali. Basta pensare alla grande attenzione posta al tema dell’attività motoria – dell’invecchiamento, del declino funzionale e della “fragilità”: nello sforzo di meglio comprendere il processo di invecchiamento, ma anche per riuscire ad individuare precocemente segni e sintomi di un’evoluzione passibile di interventi correttivi.

 

E’ difficile rendere la ricchezza dei contributi che JAGS offre mensilmente; un’idea può essere offerta dall’elencazione delle 9 sezioni (ciascuna affidata ad un editore) in cui oggi il Giornale si articola: Progress in Geriatrics; Geriatric Bioscience; International Health Affairs; Geriatric Literature; Ethnogeriatrics and Special Populations; Ethics, Public Policy, and Medical Economics; Education and Training; Drugs and Pharmacology; Nursing. Sezioni completate da due serie speciali dedicate alla Managed Care e ai Models of Care. Credo colpisca, dalla sola lettura delle sezioni del Giornale, l’ampiezza degli orizzonti della riflessione gerontologica e geriatrica. Mi sembra degna di particolare rilievo la scelta, recente, di ampliare la sezione dedicata all’etnogeriatria e al differente impatto dell’invecchiamento e della malattia in diversi contesti culturali e sociali, che non solo prende atto dell’eterogeneità dei percorsi di senescenza, ma testimonia la sensibilità di una società al tempo stesso multi-etnica e proiettata su scala mondiale. Così come significativa è l’importanza assegnata alle tematiche della formazione e dell’aggiornamento degli operatori sanitari e dell’assistenza infermieristica.

 

Voglio però sottolineare tre tematiche che percorrono quasi trasversalmente i contributi di JAGS. Innanzitutto l’attenzione ai risultati – agli outcome – dell’intervento geriatrico, non solo sul versante della pratica clinica quotidiana ma anche in rapporto alla sua incidenza complessiva sul sistema sanitario, alla riproducibilità dei modelli, alla compatibilità dei costi: una ricerca dell’evidence-based health care che sollecita il confronto tra diversi modelli di servizi e di sistemi e l’apertura a contributi internazionali, ma anche una “contaminazione” costante con tematiche di ordine gestionale, economico, di politica sanitaria.

 

In secondo luogo l’interesse per le cure continuative, per la long term care: è doveroso ricordare l’attenzione dedicata dal Journal e dalla geriatria americana al miglioramento continuo dell’assistenza sanitaria erogata dalle Nursing Homes, e rimarcare al tempo stesso la qualità dei contributi scientifici che provengono da queste realtà (frutto ancora una volta di una più diffusa disponibilità alla collaborazione tra soggetti diversi, oltre che della condivisione da parte della larga maggioranza delle Nursing Homes americane dello stesso sistema di raccolta di dati, il Minimum Data Set, ma anche della lungimiranza di un sistema accademico che ha individuato le Nursing Homes come un luogo importante di formazione medica e di ricerca). Così come è andato crescendo, soprattutto negli anni più recenti, l’interesse per le cure domiciliari e per un’organizzazione dei servizi che assicuri la continuità della cura e la salvaguardia della dimensione domiciliare.
Infine, la centralità delle riflessioni etiche: su libertà e possibilità di scelta da parte del paziente anziano, su possibilità e limiti della cura della persona affetta da demenza, sulle direttive avanzate e l’accanimento terapeutico, sulla qualità della cura nelle fasi terminali della vita. Ma anche sui limiti dell’intervento medico e sulla contraddizione tra le potenzialità quasi illimitate della tecnologia e la finitezza delle risorse.

 

William Applegate, che nel dicembre del 2000 ha ceduto la direzione del Journal all’attuale direttore Yoshikawa, nel tracciare un bilancio della sua attività di editor e dello “stato di salute” della geriatria americana, ricorda con orgoglio che la geriatria ha avuto il coraggio non solo di farsi carico dei pazienti più fragili e vulnerabili, quelli gravati da problemi medici e sociali complessi ed interattivi, ma anche di sindromi cliniche apparentemente “senza uscita”, delle quali è riuscita a contenere l’impatto devastante sui pazienti e sulle loro famiglie (quali, ad esempio, l’assistenza ai pazienti affetti da malattia di Alzheimer, il trattamento e la gestione di molti problemi di incontinenza, le possibilità di recupero funzionale in persone considerate irreversibilmente disabili, la stessa cura dei malati terminali), e che, probabilmente unica tra le discipline mediche, ha saputo “spingersi così avanti” nel valutare i risultati dei propri sistemi di cura. E conclude che tutto il sistema sanitario americano potrebbe trarre un grande beneficio dall’utilizzo di un approccio, come quello geriatrico, integrato, sistemico, centrato sul paziente, multidisciplinare e capace di stabilire un’alleanza con i caregivers informali.

 

Mi sembrano considerazioni che – mentre ribadiscono un sistema di valori che cerchiamo di tenere al centro della nostra professione difficile e al tempo stesso esaltante – ben sintetizzano gli stimoli che la lettura sistematica di JAGS può offrire alla nostra riflessione ed al nostro lavoro quotidiano.

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