1 Settembre 2015 | Residenzialità

Aspetti teoretici e funzionali della motivazione nel setting riabilitativo

Aspetti teoretici e funzionali della motivazione nel setting riabilitativo

Sebbene il campo di ricerca in ambito riabilitativo abbia trovato il suo sviluppo solo recentemente, numerosi sono stati gli sforzi per individuare indicatori predittivi di successo riabilitativo in setting selezionati. La riabilitazione si basa sul principio che tutti gli individui siano dotati di un valore intrinseco e devono poter preservare il proprio diritto ad essere autonomi il più a lungo possibile (1). Il processo riabilitativo è dunque un processo di cura volto a restituire alla persona il grado di autonomia funzionale quo ante l’evento indice e a ridurre l’impatto economico che la disabilità comporta. Culturalmente l’assistenza al paziente anziano non è più disease-focused, bensì orientata ai bisogni del paziente.

 

È noto alla gran parte di noi che la persona anziana è spesso affetta da più patologie croniche, talvolta in labile compenso, che richiedono un approccio multidimensionale e soprattutto multimodale, cioè con l’intervento di più figure riabilitative e di cura. In virtù di questa osservazione pluriangolare delle necessità del paziente, capita di “scontrarsi” con la scarsa compliance o “motivazione” dello stesso al trattamento riabilitativo. Il compito del team è saper screenare e diagnosticare patologie che si “esprimono” attraverso questo apparente rifiuto alla partecipazione al programma riabilitativo. Si pensi ad esempio alle forme di delirium ipocinetico, o all’instabilità clinica cardiovascolare o all’insorgenza di patologie infettive che riducono la “resilienza” del paziente. Un altro aspetto clinico che inficia la partecipazione attiva del paziente al programma di recupero funzionale è la comparsa e/o l’esacerbazione di alterazioni del tono dell’umore che oscurano le possibilità potenziali di recupero di ciascun individuo. Tuttavia la scarsa motivazione al voler eseguire e affidarsi proattivamente alle cure clinico-riabilitative è spesso confusa con depressione del tono dell’umore e il rischio è di trattare in modo inappropriato tali pazienti.

 

La motivazione è l’espressione dei motivi che inducono un individuo a compiere una determinata azione. Da un punto di vista psicologico può essere definita come l’insieme dei fattori dinamici aventi una data origine che inducono il comportamento di un individuo verso una data meta; secondo questa concezione, ogni atto che viene compiuto senza motivazioni rischia di fallire. È possibile fare una distinzione tra motivazioni biologiche (fanno riferimento alla sfera fisiologica) e psicologico-cognitive (risentono dell’esperienza individuale di ciascuno). Un’altra distinzione avviene attraverso il concetto di motivazione intrinseca (impulsi) e motivazione estrinseca, ovvero quella che il soggetto dichiara verbalmente (2).

 

L’orientamento motivazionale, infine, sta a sottolineare l’evolversi degli studi in ambito psicologico: dal termine “motivazione” si è giunti all’“orientamento motivazionale” come più appropriato, in quanto, secondo l’approccio cognitivista, ciascuno di noi nell’età evolutiva costruisce attivamente il suo orientamento motivazionale, cioè indirizza il proprio percorso verso ciò che più “piace”. Questo avviene grazie alla rappresentazione degli obiettivi che ognuno di noi vuole raggiungere, all’auto-percezione dei propri mezzi e limiti, attraverso la stima di sé e l’attribuzione causale (cioè attribuire i propri successi/ insuccessi a cause interne/esterne, controllabili/incontrollabili, dove per interne-controllabili si intendono abilità-impegno-uso di strategie appropriate e per esterne-incontrollabili si intendono casualità-stato di salute-pregiudizi) (3).

 

La motivazione è un’importante variabile nella possibilità di recupero funzionale di un soggetto anziano dopo un evento disabilitante. La teoria della self-efficacy afferma che “il credere nella propria efficacia influenza il comportamento, il livello motivazionale, il pensiero e le reazioni emozionali in risposta ad ogni situazione” (4). Nei soggetti anziani la presenza di comorbidità e di instabilità clinica rende il fattore “attribuzione causale” sbilanciato in favore di cause esterne e incontrollabili da parte dell’individuo, tanto da depauperare quell’energia interna che spinge all’azione. Questo concetto si applica molto bene in ambito riabilitativo, dove l’obiettivo di raggiungere il più alto grado possibile di indipendenza funzionale è concetto cardine su cui si basa la riabilitazione, ed è il goal che il team terapeutico si prefigge di raggiungere. L’intero team è inoltre “motivato” a garantire un risultato in termini di efficienza e di efficacia in virtù delle risorse e competenze investite. La realtà spesso ci offre risultati diversi e spesso non riusciamo a garantire lo stesso risultato per tutti i pazienti a parità di condizioni. Tuttavia, a pensarci bene, l’obiettivo di un recupero funzionale ottimale deve essere garantito dalla motivazione del singolo individuo, che da oggetto delle nostre cure, deve essere considerato protagonista principale del suo percorso riabilitativo.

 

In ambito riabilitativo, grandi passi in avanti in quest’ottica sono stati compiuti negli anni con l’introduzione di strumenti che garantissero un progetto personalizzato sulle necessità del singolo. Il Progetto Riabilitativo Individuale esplicita i problemi aperti e attraverso indicatori dell’area clinico-assistenziale-riabilitativo-sociale offre uno strumento di azione e monitoraggio del percorso terapeutico multimodale. Il paziente è invitato alla condivisione dello stesso, ma spesso ci si limita ad enunciare in maniera descrittiva quanto stiamo mettendo in atto in favore del suo stato di salute. Difficilmente lo rendiamo protagonista del suo percorso affidandogli la “responsabilità” dell’outcome finale. Questo prevederebbe uno screening iniziale anche della componente di motivazione al recupero e la messa in atto poi, di strategie che rinforzino l’orientamento motivazionale. La motivazione è un concetto molto usato a livello aziendale e scolastico, applicato dunque a una fascia di età giovane-adulta, ma allo stato attuale non ci sono studi in setting geriatrico-riabilititativi.

 

Motivazione: basi biologiche

Uno dei temi oggi più studiati dalle neuroscienze riguarda la motivazione. Le ricerche sulle basi nervose della motivazione hanno origine dagli esperimenti di James Olds e Peter Milner sulla cosiddetta ‘autostimolazione cerebrale’ (5). Questi ricercatori, studiando le basi biologiche della memoria, osservarono che se si faceva percorrere un labirinto ad un ratto al quale era stato impiantato un elettrodo nel cervello e se il ratto, una volta trovata la via d’uscita, riceveva una blanda stimolazione elettrica attraverso l’elettrodo, allora l’animale ricercava attivamente il luogo in cui aveva ricevuto la stimolazione elettrica cerebrale, come se esso fosse associato a una situazione piacevole, gratificante. Per approfondire questa osservazione, venne messo a punto un apparato in cui l’animale, premendo una leva, attivava un meccanismo che induceva una stimolazione elettrica del cervello. Si notò che gli animali, dopo aver scoperto l’uso della leva, la premevano sempre più spesso; inoltre, se si impediva agli animali di stimolarsi dopo che si erano abituati agli effetti dell’autostimolazione e successivamente si dava loro la possibilità di farlo nuovamente, le autostimolazioni erano effettuate a un ritmo superiore all’usuale, come se dovessero recuperare le precedenti (5).

 

Studi successivi indicarono che gli effetti gratificanti per l’animale dipendevano dall’attivazione del sistema di ricompensa cerebrale. Tale sistema è costituito da un insieme di neuroni localizzati in un’area cerebrale (a livello pontino e dei gangli della base) e possono anche essere attivati da una serie di sostanze che inducono sensazioni di piacere e poi dipendenza. Il sistema dopaminergico esercita un ruolo critico attraverso i meccanismi di rinforzo, ma anche facendo sì che venga prestata attenzione ad alcuni stimoli piuttosto che ad altri, agendo da filtro sulle diverse componenti della realtà ed ‘etichettandola’ a seconda delle situazioni. Questa attenzione selettiva caratterizza, ad esempio, il comportamento delle persone depresse, le quali interpretano molte situazioni in modo negativo anche quando queste sono neutre o potenzialmente positive. I gangli della base non si limitano a governare la motivazione attraverso il meccanismo della gratificazione, ma filtrano in modo molto raffinato stimoli e input provenienti dal mondo esterno, contribuendo in tal modo a determinare il tipo di realtà con cui un individuo può entrare in contatto. L’azione dei gangli della base si esplica attraverso un effetto esercitato sul talamo, la sede alla quale pervengono tutte le informazioni sensoriali (6). Il talamo, però, non recepisce in modo neutro ogni tipo di stimolo e sensazione: l’incremento del livello di dopamina nello striato, infatti, fa sì che il ‘filtro’ del talamo si allarghi lasciando passare una maggiore quantità di input.

 

Quest’azione di filtro non riguarda soltanto l’informazione di tipo cognitivo, ma anche altri aspetti del comportamento, dalla motricità all’emozione. Al talamo giungono infatti informazioni dalla corteccia frontale e dal sistema limbico (cioè da amigdala, ippocampo, corteccia prefrontale ed entorinale), cosicché esso è un crocevia tra funzioni cognitive, motorie e motivazionali. Lo striato ventrale (una parte del talamo) è quindi al centro sia dei comportamenti motivati rivolti verso un fine, sia del trattamento di informazioni relative al contesto, basate su complesse associazioni tra stimoli diversi. Inoltre, di grande rilievo in questa complessa architettura, è il ruolo della corteccia frontale e prefrontale coinvolte in funzioni come la memoria procedurale, la rappresentazione degli obiettivi, la fluenza verbale, valutazione e anticipazione delle conseguenze delle proprie azioni. Sono inoltre coinvolte nella processazione dell’esperienza emozionale e nell’attivazione di certe emozioni positive (6).

 

In generale tali strutture intervengono nella regolazione delle funzioni esecutive, del comportamento sociale e della motivazione. Le differenze che si riscontrano tra gli individui non sono legate a differenze nell’anatomia ma nel modo in cui i neuroni sono collegati tra loro. I circuiti neurali che si creano in un individuo sono la conseguenza di un’interazione tra biologia e ambiente. La ripetizione di nuovi gesti e comportamenti, effettuata per un tempo sufficientemente lungo, crea nuovi circuiti neuronali che regolano nuovi comportamenti e nuove percezioni. Il concetto di neuroplasticità ha offerto poi numerose possibilità di recupero in ambito riabilitativo sfruttando appunto queste interazioni.

 

Apatia, un deficit di motivazione: sindrome e sintomo di patologie neurodegenerative

L’apatia è stata spesso considerata una condizione piuttosto vaga, per lo più caratterizzata da perdita di interesse ed emozioni e spesso viene confusa con depressione del tono dell’umore. Tuttavia tali condizioni si riferiscono a costrutti anatomo-funzionali diversi sebbene interconnessi. Infatti, sia i sintomi che la sindrome apatica sono relativi all’area motivazionale mentre la depressione appartiene alla dimensione dell’umore (7). L’apatia è attualmente considerata come un sintomo che riflette un danno dei circuiti cerebrali frontali-subcorticali. Pertanto lesioni focali (ad es., uno stroke), così come processi neurodegenerativi diffusi (malattia di Alzheimer), o ancora alterazioni della sostanza bianca (Sclerosi Multipla) o della sostanza grigia (malattia di Parkinson) o anche disturbi funzionali (schizofrenia) possono dare origine a comportamenti dismotivazionali, per coinvolgimento di zone del sistema frontale subcorticale (7). Uno studio con Tomografia ad Emissione di Positroni in pazienti parkinsoniani, con marker per il trasportatore della dopamina e della noradrenalina, ha mostrato una correlazione inversa tra il grado di severità dell’apatia e il binding (legame recettoriale) a livello dello striato ventrale (8).

 

La risonanza magnetica in pazienti geriatrici con depressione maggiore ha mostrato una maggiore prevalenza di apatia relazionato alla perdita di volume della sostanza grigia nell’area del cingolo anteriore di destra (9). Di fatto, i circuiti frontali sottocorticali costituiscono una complessa struttura che può, in parte, spiegare l’anatomia, la biochimica e la farmacologia del comportamento. I tre sistemi principali relazionati al comportamento originano dalla corteccia pre-frontale dorso-laterale, dalla corteccia orbito-frontale e dalla porzione anteriore della corteccia del cingolo. Specifici markers comportamentali associati a questi circuiti sono: le disfunzioni esecutive (circuito dorsolaterale prefrontale-subcorticale), disinibizione e disturbi ossessivocompulsivi (circuito orbitofrontale-subcorticale) e apatia (circuito mediale frontale-subcorticale). I sistemi neurotrasmettitoriali, che attualmente sembrerebbero essere alla base dei comportamenti motivazionali e pertanto implicati non solo nell’insorgenza dell’apatia, ma anche negli effetti farmacologici di queste sostanze da abuso, includerebbero i pathways catecolaminergici, ed in particolare il sistema dopaminergico mesolimbico, così come le proiezioni alla corteccia prefrontale e i gangli della base, con coinvolgimento di neuroni serotoninergici e colinergici (10). Queste basi biologiche sottolineano l’importanza in ambito geriatrico riabilitativo di differenziare l’apatia dalla depressione del tono dell’umore o dal tratto di personalità individuale al fine di individuare markers clinici di eventuali patologie neurodegenerative non ancora diagnosticate.

 

Valutazione della motivazione

Esplorare l’area motivazionale è un compito articolato e non sempre di facile attuazione anche perché manca un’armonizzazione o una codifica dello screening/diagnosi da effettuare. È possibile affrontare la valutazione utilizzando scale ad hoc che esplorino il deficit motivazionale (Apathy Inventory, Apathy Evaluation Scale, Neuro Psychiatric Inventory,ad esempio) (11), oppure tramite un counseling motivazionale applicando la “person-object theory of interest” (12).

 

Questo principio postula l’importanza di riconoscere per singolo individuo l’interesse suscitato dall’oggetto/azione attraverso cui sviluppare un percorso motivazionale personale. Inoltre la valutazione della motivazione individuale dovrebbe includere un assessment globale degli altri circuiti cognitivo-affettivi con questionari etero/autosomministrati e/o osservazioni dirette ed indirette dell’iniziativa personale e partecipazione del paziente al programma riabilitativo come anche dell’adeguatezza nell’integrazione sociale nel setting riabilitativo. Tuttavia al momento non vi è un percorso diagnostico strutturato e questo approccio risulta ancora meramente speculativo sebbene di grande interesse per i risvolti terapeutici e scientifici che potrebbe determinare.

 

Motivazione: possibilità terapeutiche riabilitative

Come precedentemente illustrato, diverse evidenze scientifiche cliniche e precliniche supportano attualmente l’ipotesi secondo la quale la sindrome apatica derivi dalla disfunzione dei sistemi di proiezione fronto-subcorticali, e che, di solito, insorge in concomitanza di una varietà di processi patologici. In questi termini l’apatia potrebbe essere il target di un razionale intervento farmacologico. Attualmente non esiste un intervento medico-riabilitativo approvato e nessun farmaco in uso presenta prove di sicura efficacia. Gli agenti farmacologici più frequentemente utilizzati (off-label) nei pazienti apatici includono: farmaci dopaminergici antiparkinsoniani, inibitori dell’acetilcolinesterasi, antipsicotici atipici e psicostimolanti. La maggior parte dei lavori pubblicati in merito all’efficacia di questi farmaci come terapia per l’apatia, è risultata limitata ed inconcludente.

 

Sebbene nessun modello pre-clinico si è dimostrato valido per mimare le manifestazioni cliniche dell’apatia, né tanto meno di prevederne il decorso clinico o la risposta alla terapia, i modelli che presentano un danno al lobo frontale e alterazioni dei comportamenti motivazionali hanno incominciato ad evidenziare qualche elemento e ad assumere un certo valore. Verosimilmente, farmaci attivi su questi modelli potrebbero essere considerati come potenziali candidati per essere valutati clinicamente nel trattamento dell’apatia. Un derivato ciclico gabaergico, il nefiracetam, potrebbe essere un esempio farmaceutico di questo tipo (13). Diverse evidenze precliniche indicano che il nefiracetam potrebbe incrementare l’attività colinergica e monoaminergica nella corteccia cerebrale, come anche la perfusione sanguigna cerebrale e l’utilizzo di glucosio nelle regioni frontali e dei nuclei della base affette. Allo stesso dosaggio, nefiracetam si è rivelato attivo sulle attività comportamentali che presentano una componente motivazionale e che implicano attività interattive nei modelli animali (13). Dal punto di vista clinico, in un trial randomizzato che includeva pazienti con lesioni ischemiche, il farmaco si è dimostrato sicuro migliorando l’apatia e le misure funzionali ad essa correlate (14).

 

Stimolare la “motivazione” individuale non può prescindere tuttavia da interventi di tipo ambientale. Infatti, affinché i processi di riorganizzazione corticale abbiano luogo, l’ambiente deve fornire un adeguato supporto. Lo scopo della riabilitazione neuropsicologica è dunque migliorare l’adattamento funzionale del paziente nonostante il danno cerebrale subìto creando un ambiente stimolante che risponda ai bisogni cognitivi, emotivi e motivazionali del paziente. L’applicazione ad esempio della teoria person-object interest potrebbe strutturare un intervento riabilitativo che preveda:

  1. una valutazione dell’interesse che porta la persona a dirigere la propria attenzione verso un oggetto;
  2. l’individuazione dell’oggetto, o finalità di un trattamento, che permette di aumentare l’interesse;
  3. la misura del grado di efficienza nell’apprendere determinato dalla perseveranza (tempo sul compito);
  4. rinforzo di processi cognitivi come la perseveranza che portano a una sempre più profonda integrazione nel concetto del sé relazionato all’ambiente circostante.

 

Volendo esemplificare, in ambito riabilitativo una speculativa strategia per l’incremento motivazionale del paziente potrebbe consistere in uno screening degli interessi pregressi (ad es. andare in bicicletta, walking, nuotare, ecc.) e una valutazione iniziale degli esercizi che più suscitano interesse e compliance da parte del paziente (pedaliera, percorso ad ostacoli, esercizi propriocettivi, …). Una volta individuato l’interesse e messo in atto un programma riabilitativo che tenga conto degli interessi del paziente, sarebbe utile illustrare al paziente che finalità ha quel tipo di esercizio ai fini del recupero funzionale.

 

Ad esempio, ad un paziente con disturbi del cammino cronico che preferisce un particolare esercizio piuttosto che un altro e dunque si “dismotiva” nel momento in cui è “obbligato “ ad eseguirlo, l’operatore potrebbe insistere sul fatto che quel tipo di ginnastica migliora l’equilibrio che è essenziale durante la deambulazione ma che dopo aver acquisito queste capacità (tempo sul compito) sarà necessario procedere ad ulteriori percorsi per consolidare i risultati ottenuti (rinforzo, perseveranza). Al momento questi interventi rimangono sul piano ipotetico e non ci sono studi sperimentali che supportino tali suggestioni.

 

Motivazione: il ruolo dell’operatore sanitario

L’invecchiamento è spesso definito “l’epoca delle perdite”. Tra queste, anche la perdita di motivazione nel rimanere autonomi soprattutto se manca un substrato sociale, economico e di salute che configuri un “buon “invecchiamento. Tuttavia questo concetto usato ed abusato rientra in un contesto di ageism piuttosto che di aging, laddove per ageism intendiamo quell’atteggiamento culturale che interpreta la vecchiaia come condizione negativa (15). Nel lavoro con gli anziani la consapevolezza della motivazione diventa importante per un più raffinato ed approfondito percorso comportamentale da parte dell’operatore.

 

La performance dell’operatore sanitario subisce l’influenza di molti fattori personali ed extra-personali/lavorativi ma spesso essa stessa è determinante sulla salute psico-fisica dei propri pazienti. Se la relazione di aiuto si fonda sulla fiducia, sull’empatia e sulla professionalità, l’operatore potrebbe giocare un ruolo discriminante nel raggiungimento dell’outcome riabilitativo. Un aspetto poco discusso ma con valenza scientifica di grande rilievo, risiede nello sviluppo di un processo motivazionale che tenga conto di una teoria recentemente acquisita: la teoria dei neuroni a specchio. I neuroni specchio sono cellule localizzate nella zona fronto-parietale capaci di reagire non soltanto ad un semplice stimolo, ma anche di ‘comprendere’ il significato di quello stimolo.

 

Grazie a questa scoperta si è stabilito che le diverse aree cerebrali non sono suddivise per eseguire distintamente compiti esecutivi e compiti di controllo, ma azione e percezione costituiscono un’unica funzione. Questi neuroni hanno dimostrato di potersi attivare sia per eseguire una determinata azione sia in seguito all’osservazione di un’azione simile compiuta da un altro individuo. Le ricerche si stanno focalizzando sulla determinazione del ruolo di tali cellule specializzate nel determinare empatia fra gli individui (16), e sarebbe altresì interessante comprendere se grazie ai positive beliefs del team riabilitativo si possa migliorare la performance motoria-motivazionale del soggetto e ottenere un miglior successo riabilitativo. Allo stato attuale queste sono solo speculazioni, ma tale filone di ricerca è ancora un continente inesplorato. La sinergia tra neurobiologia e neuropsicologia e la conduzione di studi sperimentali in ambito clinico-riabilitativo potranno eventualmente darci delle risposte più pertinenti.

Bibliografia

1. www.who.int/disabilities/world.

2. Anolli L, Legrenzi P. Psicologia Generale. Ed. Il Mulino, Bologna, 2006.

3. Deci EL, Ryan RM. The “what” and “why” of goal pursuits: Human needs and the self-determination of behavior. Psychological Inquiry. 2000;11:227-268.

4. Bandura A. Self-efficacy: toward a unifying theory of behavioral change. Psychol Rev. 1977;84:191-215.

5. Olds J, Milner P. Positive reinforcement produced by electrical stimulation of septal area and other regions of rat brain. J Comp Physiol Psychol. 1954;47:419-27.

6. Ikemoto S, Yang C, Tan A. Basal ganglia circuit loops, dopamine and motivation: A review and enquiry. Behav Brain Res. 2015;290:1731.

7. Starkstein SE, Leentjens AF. The nosological position of apathy in clinical practice. J Neurol Neurosurg Psychiatry. 2008;79:1088-92.

8. Remy P, Doder M, Lees A, Turjanski N, Brooks D. Depression in Parkinson’s disease: loss of dopamine and noradrenaline innervation in the limbic system. Brain.2005;128:1314-22.

9. Lavretsky H, Ballmaier M, Pham D, Toga A, Kumar A. Neuroanatomical characteristics of geriatric apathy and depression: a magnetic resonance imaging study. Am J Geriatr Psychiatry. 2007;15:386-94.

10. Bressan RA, Crippa JA. The role of dopamine in reward and pleasure behaviour-review of data from preclinical research. Acta Psychiatr Scand Suppl. 2005;427:14-21.

11. Clarke DE, Ko JY, Kuhl EA, van Reekum R, Salvador R, Marin RS. Are the available apathy measures reliable and valid? A review of the psychometric evidence. J Psychosom Res. 2011;70:73-97.

12. Krapp A. Structural and dynamic aspects of interest development: theoretical considerations from an ontogenetic perspective. Learning and Instruction. 2002;12:383-409.

13. Crespi F. Nefiracetam. Curr Opin Investig Drugs. 2002;3:788-93.

14. Robinson RG, Jorge RE, Clarence-Smith K, Starkstein S. Double-blind treatment of apathy in patients with poststroke depression using nefiracetam. J Neuropsychiatry Clin Neurosci Spring. 2009;21:14451.

15. Kydd A, Fleming A. Ageism and age discrimination in health care: Fact or fiction? A narrative review of the literature. Maturitas. 2015. [Epub ahead of print]

16. Ferrari PF, Rizzolatti G. Mirror neuron research: the past and the future. Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. 2014;28:369:20130169.

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