1 Settembre 2015 | Strumenti e approcci

Il patto di privacy nella comunicazione della diagnosi di Alzheimer

Il patto di privacy nella comunicazione della diagnosi di Alzheimer

Introduzione

Il problema della comunicazione della diagnosi di demenza, tipo Alzheimer o altre forme, è già stato affrontato in un documento dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP) del 2010 (1) e più recentemente l’ho ripreso per riesaminarlo, dal punto di vista dell’Approccio capacitante (2), restando in consonanza con il documento dell’AIP.

 

In particolare ho proposto che, in linea di massima, la comunicazione della diagnosi di demenza:

  • sia inserita in un contesto di Alleanza terapeutica (3);
  • sia il risultato di un percorso che coinvolge in modo partecipe il paziente già durante la fase diagnostica;
  • sia fatta per primo al diretto interessato, appena possibile e in modo chiaro;
  • dia pieno riconoscimento alle Competenze elementari (competenza a parlare, a comunicare, emotiva, a contrattare, a decidere) (4) del paziente, così come le ha, in qualsiasi fase di malattia si trovi;
  • coinvolga anche il caregiver principale, col consenso del paziente;
  • garantisca una fase successiva in cui vengano affrontati tutti i problemi connessi con il piano terapeutico, i problemi di vita emergenti e le ripercussioni emotive della comunicazione stessa.

 

In questo articolo mi limito quindi ad affrontare dal punto di vista dell’Approccio capacitante un problema specifico, quello della privacy e propongo un patto per la privacy, in modo analogo a come ho già proposto un patto per l’accoglienza(5) al momento dell’ingresso in RSA. Nel testo che segue, quando cito il medico capacitante non mi riferisco a un medico ideale, ma semplicemente a un medico, in particolare un geriatra, che svolge la sua normale attività professionale indirizzando la relazione medico-paziente secondo l’Approccio capacitante(4).

 

Il momento della diagnosi sta diventando sempre più precoce

evoluzione culturale, scientifica e della prassi medica ha portato, almeno nelle grandi città e nei centri dove le UVA sono più attive, a formulare la diagnosi di probabile malattia di Alzheimer in fase abbastanza precoce, quando il paziente è ancora autosufficiente nelle attività di base della vita quotidiana e presenta solo qualche difficoltà in alcune attività strumentali. Talvolta il soggetto svolge ancora un’attività lavorativa o è appena andato in quiescenza ed è del tutto consapevole dei deficit cognitivi che presenta. È utile fare riferimento proprio a questi soggetti perché con la tendenza a ottenere una diagnosi sempre più precocemente questo tipo di persone nei prossimi anni non costituirà l’eccezione bensì la regola. Già oggi, personalmente, è sempre più frequente che mi trovi a formulare la diagnosi di Disturbo Neurocognitivo lieve o maggiore (DNC nel DSM 5) (6) in persone ancora ben inserite nella vita sociale.

 

Una situazione tipica

La situazione tipica cui faccio riferimento è quella di una persona di circa sessant’anni che giunge all’osservazione perché preoccupata per la presenza di disturbi di memoria associati a qualche episodio di deficit che lo ha particolarmente turbato (un momento di disorientamento nello spazio o di vuoto mentale, un mancato riconoscimento di una persona cara, la dimenticanza di un appuntamento importante …). Spesso il soggetto viene di propria iniziativa ma si fa accompagnare dal coniuge, anch’egli visibilmente preoccupato. In questi casi il medico capacitante si occupa innanzitutto di favorire la costituzione dell’Alleanza terapeutica, poi procede agli accertamenti necessari informando di volta in volta l’interessato dei risultati.

 

Inoltre chiede l’autorizzazione a coinvolgere e informare anche il coniuge. Nella mia esperienza sono abituato a dividere le consultazioni in due parti; la prima in cui è presente solo il paziente, la seconda in cui chiedo al paziente di chiamare il familiare che fino a quel momento è rimasto in sala d’attesa. Il percorso diagnostico richiede sempre più di un incontro, spesso alcuni mesi, e questo tempo è utile per consolidare l’Alleanza terapeutica.

 

Una pratica clinica lontana dalle Linee Guida

Quando il medico arriva a raccogliere gli elementi sufficienti per formulare la diagnosi, si pone il problema della comunicazione. C’è chi ritiene che la comunicazione della diagnosi sia dannosa per l’ammalato, ma questa tesi non è confermata da diversi studi (7-10) citati nel documento dell’AIP (1). Si tratta solo di un pregiudizio dietro cui qualcuno si rifugia.

 

Al contrario, la comunicazione della diagnosi, non solo:

  • risponde a un principio etico e deontologico
  • rispetta l’autonomia del paziente
  • rispetta il desiderio del paziente di conoscere la diagnosi ma anche
  • rende più facile spiegare al paziente i suoi sintomi
  • migliora la compliance ai trattamenti medico-assistenziali
  • favorisce l’accettazione delle limitazioni e delle difficoltà che la malattia comporta
  • rende più facile discutere con il paziente dei suoi problemi e delle sue paure per trovare nuove soluzioni adattative.

 

In Italia, purtroppo, la pratica clinica è ancora molto distante dalle linee guida, anche se su queste c’è un ampio consenso teorico. Spesso la comunicazione viene rinviata nel tempo, oppure viene delegata a un familiare, oppure è parziale e reticente. Non è eccezionale che la diagnosi venga comunicata solo al familiare e che il paziente ne resti all’oscuro, immerso nel segreto (altrove ho già discusso sulla “tossicità” del segreto) (11). Comunicazioni di questo tipo, non solo sono inadeguate, ma dal punto di vista dell’Approccio capacitante sono incapacitanti e contribuiscono a creare ulteriori problemi. Il medico che non comunica la diagnosi al paziente in modo chiaro e a tempo debito lo fa illudendosi di fare del bene, si autogiustifica pensando di agire per non fare soffrire il paziente. In realtà questo atteggiamento nasce dal timore di non essere in grado di reggere le proprie emozioni e quelle del destinatario della comunicazione; in altre parole, nasce dall’incapacità di far fronte a un proprio dovere professionale. Il risultato di questa situazione è molto sfavorevole per il paziente.

 

Le conseguenze dell’errore comunicativo

Oggi la paura dominante per le persone intorno ai sessant’anni è proprio quella di avere la malattia di Alzheimer. Il soggetto che abbiamo preso ad esempio è già preoccupato per le eventuali conseguenze della malattia, per il rischio di perdere la considerazione degli altri, di perdere il controllo della propria vita; teme di perdere la stima di familiari, amici e colleghi e si sente minacciato nella propria autostima. Quando il medico è reticente, il soggetto si conferma nei suoi timori, pensa che la sua malattia sia tanto terribile da essere indicibile, inconfessabile. Le sue paure sono tanto grandi che non ha il coraggio di parlarne, di incalzare il medico per ottenere le informazioni veritiere che gli spettano. Comincia così un declino che passa attraverso il silenzio, la tristezza, l’isolamento e che porta alla progressiva rinuncia a vivere in modo attivo. Quello che si ottiene è un aumento della sofferenza e un vero effetto dementigeno (excess disability).

 

Il punto di vista dell’Approccio Capacitante

Per capire la questione dal punto di vista dell’Approccio capacitante è necessaria una breve premessa. Nel corso degli ultimi dieci anni ho proposto l’Approccio capacitante come stile relazionale da adottare con tutte le persone con demenza, dal grado lieve al grado severo, 24 ore su 24, in tutti i contesti [vari contributi sono già stati pubblicati su questa rivista (12-17); per una bibliografia più completa si può consultare www.gruppoanchise.it] L’approccio si basa sull’ascolto e sulla scelta delle parole da dire, in modo da restituire all’interlocutore il riconoscimento delle sue Competenze elementari (5), così come lui le manifesta, nel momento in cui si esprime: la competenza a parlare, a comunicare, emotiva, a contrattare, a decidere.

 

In questo modo si può davvero fare una medicina centrata sulla persona, una medicina cioè che riconosca all’altro la sua dignità e la sua validità come interlocutore, anche se con demenza. Tornando alla situazione descritta sopra, dal punto di vista dell’Approccio capacitante essa comporta, invece, la negazione delle Competenze elementari che il paziente possiede e che non gli vengono riconosciute: in particolare, La competenza a comunicare e La competenza a contrattare. Lo si tratta come se non fosse in grado di dialogare sulle cose che lo riguardano, di capire e di farsi capire; come se non fosse in grado di discutere, negoziare e prendere decisioni sulla propria vita. Così facendo si tende a svalutare la persona; anche se si è animati da buoni propositi si tende a negare la sua dignità e si impedisce il nascere di una reazione resiliente, di una reazione cioè che spontaneamente può aiutare il soggetto a far fronte alle sue difficoltà con le sue stesse forze.

 

Che cosa fare?

Il medico capacitante agisce in modo opposto a quello descritto sopra, parte cioè dal riconoscimento delle Competenze elementari dell’interlocutore, anche se ha un Declino Neurocognitivo. Il soggetto tipo che ho preso ad esempio, lo conosco bene nella mia pratica professionale e ogni geriatra lo incontrerà sempre più frequentemente. Non dobbiamo avere paura a comunicare la diagnosi. Facciamolo con prudenza, ma facciamolo! In questo modo, non solo adempiremo a un dovere deontologico, ma scopriremo che così facendo l’Alleanza terapeutica si rinforza, il paziente si sente davvero riconosciuto come persona, nella sua dignità e con le sue competenze. E ce ne è grato. Perché tutto questo avvenga in modo positivo, pur nella gravità della malattia, è però necessario completare la comunicazione con un patto di privacy.

 

Il patto di privacy

Fin dall’inizio di questo articolo ho sostenuto l’opportunità di comunicare la diagnosi in modo chiaro al diretto interessato, ma nella pratica clinica si incontrano vari ostacoli. Uno consiste nell’abitudine sociale, almeno in Italia, di ricevere in consultazione contemporaneamente il paziente e il familiare che lo accompagna, come se fosse necessario tenerlo sotto tutela anche nell’ambulatorio medico.

 

Una questione di setting

Per poter realizzare il patto di privacy è necessario suddividere la consultazione in due parti, come già accennato sopra. Nella prima parte la comunicazione avviene con solo il paziente presente. In questa occasione il medico specifica anche che il rapporto medico-paziente è un rapporto a due, appunto tra il medico e il paziente, tra noi due. Il medico si impegna a fornire le informazioni a lui per primo e solo col suo permesso a fornirle anche al familiare di riferimento che lo accompagna. Poi aggiunge che, trattandosi di una malattia che comporta disturbi di memoria, il medico ha bisogno di sentirsi libero, se lo ritiene necessario ed eccezionalmente, di rivolgersi direttamente anche al familiare e, se lo ritiene opportuno, di rispondere alle sue richieste. Il medico capacitante contratta apertamente col paziente i termini della questione e, personalmente, dico al paziente che per me è necessario avere il suo consenso. Tutto questo richiede circa cinque minuti.

 

Il riconoscimento delle Competenze elementari

Il tempo dedicato al patto di privacy è tempo necessario e ben speso. In questo mo il paziente riceve sì la diagnosi di una malattia grave e che fa paura (inmolti casi già lo sospettava), ma partendo da una chiara diagnosi e dal patto di privacy si sente riconosciuto e trattato come persona. Una persona dignitosa e competente, una persona in grado di capire e di comunicare, di sopportare anche le cattive notizie. In questo modo sente di poter far fronte alle proprie difficoltà e nel seguito potrà trovare le sue personali risposte per reagire a una situazione che ora conosce chiaramente e saprà che può chiedere aiuto ed essere ascoltato.

 

La seconda fase della consultazione

Dopo aver contrattato col paziente il patto di privacy, il medico capacitante invita il paziente a coinvolgere anche il familiare e contratta con lui, con altrettanta chiarezza, lo stesso patto:

  • il rapporto medico-paziente è, appunto, tra medico e paziente, quindi il medico fornirà le informazioni direttamente a lui;
  • dato che ci si trova di fronte a una malattia che comporta disturbi di memoria, la presenza del familiare è importante, qualche volta è necessaria, ma in linea di massima resta in secondo piano;
  • il medico dichiara anche di aver concordato col paziente che, se risultasse opportuno, potrà rivolgersi direttamente al familiare e questi potrà rivolgersi al medico.

 

C’è un problema di tempo?

La sostenibilità della procedura proposta è difficilmente compatibile con la tempistica delle visite nelle UVA. Me ne rendo conto, questo è un problema serio e deve essere affrontato. D’altra parte è necessario trovare delle soluzioni perché solo così si fa della buona medicina e si contribuisce alla cura dei pazienti che si affidano a noi. Una proposta concreta consiste nel richiedere e registrare una doppia visita, una a nome del paziente e una a nome del familiare, in occasione della comunicazione della diagnosi.

 

Conclusione

In precedenza molto è stato scritto riguardo alla comunicazione della diagnosi. In questo breve articolo ho messo a fuoco problemi e soluzioni che riguardano il momento preciso della comunicazione della diagnosi di Disturbo Neurocognitivo lieve o maggiore, sottolineando l’importanza di contrattare un patto di privacy, prima con il paziente, poi con il familiare di riferimento. In tal modo il medico realizza davvero la medicina centrata sulla persona che tutti auspicano, rafforza l’Alleanza terapeutica e permette al paziente di continuare ad essere responsabile della propria vita e a sentirsi tale.

Bibliografia

1. Documento preparato da Fabrizio Asioli, Alberto Cester, Massimo Musicco e approvato nel X Congresso Nazionale SIGG. La comunicazione della diagnosi di demenza. Psicogeriatria. 2010;3:7-13.

2. Vigorelli P. Alzheimer. Come favorire la comunicazione nella vita quotidiana nonostante la malattia. Cap. 5. La comunicazione della diagnosi. Franco Angeli. 2015 (in press).

3. Vigorelli P. L’Alleanza terapeutica con la persona malata di Alzheimer. Psicogeriatria. 2010;2:73-76.

4. Vigorelli P. L’Approccio Capacitante. Come prendersi cura degli anziani fragili e delle persone malate di Alzheimer. Franco Angeli, 2011.

5. Vigorelli P. Aria nuova nelle Case per Anziani. Progetti capacitanti. Cap. 10 (pag. 142-144) Il Patto d’accoglienza. Franco Angeli, 2012.

6. American Psychiatric Association Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Raffaello Cortina Editore, 2014.

7. Jha A, Tabet N, Orrell M. To tell or not to tell. Comparison of older patients’ reaction to their diagnosis of dementia and depression. Int J Geriatr Psychiatry. 2001;16:879.

8. Dautzenberg P, van Marum R, van Der Hammen R, Paling H. Patients and families desire a patient to be told the diagnosis of dementia: a survey by questionnaire on a Dutch memory clinic. Int J Geriatr Psychiatry. 2003;18 (9):777-9.

9. Elson P. Do older adults presenting with memory complaints wish to be told if later diagnosis with Alzheimers disease? Int J Geriatr Psychiatry. 2006;21(5):419.

10. Campbell K, Sticking C, Hougham G, Whitehouse P, Danner D, Sachs G. Dementia, Diagnostic Disclosure and Self-Reported Health Status. J Am Geriatr Soc. 2008;56(2):296-300.

11. Vigorelli P. Aria nuova nelle Case per Anziani. Progetti capacitanti. Cap. 2 (pag. 32-41) Il segreto. Franco Angeli, 2012.

12. Vigorelli P. Sugli effetti del parlare e del fare degli operatori geriatrici. I luoghi della cura. 2014;3:14-16.

13. Vigorelli P, Carli Ballola L. L’Approccio Capacitante nei progetti museali per persone con demenza . I luoghi della cura. 2014; 2: 2227.

14. Vigorelli P. La tutela della sicurezza degli assistiti attraverso metodi alternativi alla contenzione: un commento. I luoghi della cura. 2014;1:3031. 15. Vigorelli P. Non esiste una riabilitazione per l’autonomia, è l’autonomia che riabilita. I luoghi della cura. 2010;1:22-26.
16. Vigorelli P. La Capacitazione come metodologia di empowerment nella cura del paziente affetto da demenza di Alzheimer. I luoghi della cura. 2006;4:15-18.

17. Vigorelli P. L’arte di conversare con il paziente afasico post ictus. I luoghi della cura. 2004;2:28-31.

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