La comunità internazionale non ha ancora raggiunto una definizione univoca di “cure intermedie” (Bartoli et al., 2012; Melis et al., 2004). Ci sono interpretazioni molto diverse in campo. Taluni paesi le considerano delle soluzioni strutturali ben individuate o unità operative, mentre altri, come l’Inghilterra, le ritengono una modalità di intervento, un processo assistenziale da realizzare attraverso il concorso di molteplici servizi (Bartoli et al., 2012; Comodo e Maciocco, 2004). I diversi paesi sono partiti dalla volontà di garantire una migliore continuità assistenziale ed una as-sistenza territoriale più appropriata, ma hanno poi sviluppato in modo diverso il concetto di cure intermedie adattandolo alla propria preesistente organizzazione e alle proprie necessità.
In assenza di modelli europei condivisi, anche l’Italia ha avviato il percorso di introduzione delle cure intermedie, con una sua specifica caratterizzazione organizzativa. La letteratura prodotta in questi ultimi anni è in parte fuorviante per interpretare il fenomeno delle cure intermedie in Italia. Molti studiosi hanno inserito all’interno delle cure intermedie una serie molto ampia di servizi che comprendono, a seconda dei casi, tutti i servizi residenziali e semiresidenziali o, in alternativa, tutti i servizi domiciliari, semiresidenziali e residenziali. In realtà le norme nazionali hanno identificato nelle cure intermedie un nuovo setting assistenziale residenziale sanitario.
La struttura per le cure intermedie
Negli ultimissimi anni, prima l’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) e poi il Ministero della Salute con il Decreto ministeriale n. 70/2015, hanno identificato la “struttura per le cure intermedie” (SCI) quale nuova struttura residenziale sanitaria extraospedaliera, con le caratteristiche indicate nella Tabella 1 (Pesaresi, 2015). All’interno di tale tipologia, secondo il D.M. n. 70/2015, è il cosiddetto ospedale di comunità.
La motivazione che ha indotto lo Stato italiano a introdurre nel sistema una nuova strutture residenziale va ricercata nella difficoltà di dimissione dei pazienti che hanno terminato la fase acuta e la fase di riabilitazione intensiva, ma che necessitano ancora di un supporto sanitario ed assistenziale di una struttura protetta (Pesaresi, 2014). L’Agenzia sanitaria nazionale ha spiegato che le strutture residenziali rispondono solamente in minima parte a questo tipo di esigenze, e quindi impediscono, anche nelle regioni in cui sono numerose rispetto alla media nazionale, la gestione dei pazienti ad un livello più appropriato rispetto a quello ospedaliero, con un’assistenza pienamente sufficiente al bisogno e ad un costo minore (Agenas, 2011).
La nuova struttura assistenziale è “intermedia” fra ospedale e territorio. Nel senso che è intermedia fra ospedale ed altre strutture residenziali ma anche intermedia fra ospedale e domicilio. Il problema è che tale nuovo setting assistenziale va ad inserirsi in una rete di strutture e servizi (lungodegenza post acuzie, riabilitazione ospedaliera, RSA, strutture residenziali riabilitative, ecc.) già abbastanza affollato per cui la sua implementazione richiede una attenta regolamentazione.
L’organizzazione delle cure intermedie nelle regioni
Le regioni italiane hanno avviato l’attuazione di queste nuove indicazioni ministeriali con un’ampia variabilità. Tutte le norme regionali hanno identificato nelle cure intermedie un nuovo setting assistenziale residenziale sanitario che in talune regioni può svilupparsi in due diversi modelli organizzativi.
Le denominazioni identificate dalla normativa nazionale – strutture di cure intermedie ed ospedali di comunità – sono state utilizzate dalla maggioranza delle regioni. Alcune hanno invece utilizzato una terminologia diversa per indicare strutture che hanno caratteristiche assimilabili a quelle del primo e maggioritario gruppo di regioni. Per questo motivo anch’esse sono state inserite tra le 15 regioni che hanno regolato l’attivazione delle cure intermedie, indicate nella Tabella 2.
Le Strutture di cure intermedie sono caratterizzate dall’accesso attraverso l’unità valutativa multidimensionale (UVM), dalla redazione del piano assistenziale individualizzato (PAI) e dalla temporaneità della degenza. Gli obiettivi prevalenti sono quelli della stabilizzazione/recupero funzionale del paziente fragile unitamente alla gestione più appropriata delle degenze ospedaliere (prevenire i ricoveri ospedalieri inappropriati, garantire la continuità assistenziale in uscita dall’ospedale).
Sebbene non sia possibile presentare un quadro complessivo rispetto a come ed in che misura le indicazioni nazionali e regionali sono state attuate, in quanto non ci sono dati ed in molti contesti l’esperienza delle cure intermedie è troppo recente, l’analisi approfondita della normativa regionale1permette di mettere in luce un primo quadro di rischi e di opportunità.
Rischi ed opportunità
Il nuovo setting assistenziale: un’opportunità
Pur nella varietà della terminologia e delle diverse esperienze regionali, le strutture di cure intermedie si configurano, comunque, come strutture sanitarie residenziali di degenza extra-ospedaliera, ad alta intensità assistenziale, a vocazione internistica (e in qualche caso anche riabilitativa: Piemonte, Veneto) da utilizzare quando l’ospedale, il domicilio e la residenzialità sociosanitaria risultano inappropriate. Gli obiettivi prevalenti sono quelli del recupero funzionale del paziente fragile, della preparazione dell’ambiente familiare al ritorno al domicilio del paziente e della gestione più appro-priata delle degenze ospedaliere (prevenire i ricoveri ospedalieri inappropriati o il loro prolungamento, garantire la dimissione ospedaliera in continuità assistenziale con il territorio).
Nel diversificato panorama nazionale sono emersi due diversi modelli organizzativi: un primo modello che assume spesso la denominazione di ospedale di comunità in cui la gestione organizzativa viene affidata agli infermieri e la gestione clinica dei pazienti viene affidata ai MMG; un secondo modello più tradizionale con direzione della struttura e gestione clinica dei pazienti affidata ad un medico dipendente della ASL, che in qualche caso ha uno specifico orientamento specialistico (per esempio riabilitativo).
L’introduzione di elementi di innovazione, la presenza di due modelli principali di riferimento che dovrebbe garantire la necessaria flessibilità del sistema e l’esplicita missione della garanzia della continuità assistenziale dei pazienti mette le cure intermedie in condizione di rappresentare una possibile soluzione ad alcune criticità del sistema sanitario.
L’organizzazione delle cure intermedie: un rischio
Ma se quelli appena visti sono gli elementi prevalenti emergenti che caratterizzano le cure intermedie, altra cosa è la loro attuazione nelle singole regioni.
La “giovinezza” dell’esperienza e la tendenza delle regioni italiane a muoversi in ordine sparso non hanno favorito la creazione di modelli organizzativi di riferimento. Diversi elementi contribuiscono a definire un modello organizzativo per le strutture di cure intermedie: per esempio la durata della degenza (breve-lunga); la responsabilità organizzativa (infermiere-medico); la responsabilità clinica e l’assistenza medica (MMG-medico dipendente); gli standard assistenziali (alti-bassi).
Le regioni su questi ed altri aspetti hanno fatto scelte molto diversificate e disomogenee che, per ora, hanno prodotto tanti modelli regionali quante sono le regioni che si sono misurate con le cure intermedie.
Adesso occorre sperimentare le strutture per le cure intermedie per arrivare alla definizione di un piccolissimo numero di modelli organizzativi condivisi ed efficaci perché certo non si può ipotizzare che, a regime, le medesime strutture in regioni diverse eroghino, per esempio, il doppio dell’assistenza (in minuti di assistenza giornalieri per paziente) di altre.
Le risorse: un rischio
Le Cure Intermedie sono state introdotte nel Regno Unito negli anni ’90 con l’obiettivo di ridurre i costi sanitari legati ad un’impropria occupazione dei posti letto nei reparti per acuti da parte di soggetti anziani fragili, anticipando i tempi di dimissione e riducendo il numero di richieste di nuovi ricoveri dopo il rientro a casa. E’ così anche per l’Italia?
In buona parte si può rispondere di sì. L’introduzione in Italia delle strutture di cure intermedie sono la risposta a due spinte contrapposte: da un lato la spinta al contenimento della spesa sanitaria che ha portato ad una costante riduzione dei posti letto ospedalieri e ad una ridefinizione della loro attività, e dall’altro lato la spinta proveniente dai mutati bisogni della popolazione italiana che invecchiando chiede al sistema di far fronte in modo crescente alla gestione delle condizioni croniche (specie ad alta complessità) e della non autosufficienza.
Le risorse sono dunque uno dei driver della scelta politica ma senza risorse non si può innovare il sistema. Eppure le regioni, in genere, hanno previsto la realizzazione delle strutture di cure intermedie senza stanziare risorse aggiuntive per la loro realizzazione. Dato che le cure intermedie sono ottenute dalla riconversione di strutture ospedaliere, secondo quasi tutte le regioni, le risorse da utilizzare sono le stesse che si liberano dalla riconversione ospedaliera.
Questo orientamento ha rallentato il processo di sviluppo delle strutture di cure intermedie e non ne ha permesso un avvio davvero originale e di qualità, dovendo fare i conti con i modelli organizzativi e strutturali preesistenti. La disponibilità di risorse aggiuntive, anche solo nella fase iniziale di avvio, è invece indispensabile per far partire nel modo giusto un nuovo modello assistenziale ed organizzativo anche laddove sono disponibili delle risorse da riconvertire.
Il rischio delle sovrapposizioni
La creazione di un nuovo setting assistenziale crea rischi significativi di sovrapposizione. Le Strutture di cure intermedie vanno a collocarsi fra la Lungodegenza post-acuzie e le RSA (ed altre strut-ture residenziali similari) sovrapponendosi per taluni aspetti all’una e all’altra tipologia.
A ben guardare, in termini assistenziali le Cure intermedie si differenziano dalla Lungodegenza post-acuzie per una minore presenza medica e dalle RSA per una maggiore assistenza infermieristica e dell’OSS. Non sfugge però che i livelli di assistenza infermieristica e di OSS garantiti dalle strutture di cure intermedie di alcune regioni sono assimilabili a quelli previsti per le RSA in altre regioni (Chiatti et al., 2013; Masera et al., 2011) per cui occorrerà ridefinire i modelli assistenziali e gli standard assistenziali per utilizzare al meglio le risorse messe in campo e per assegnare ad ogni struttura una specifica funzione.
Molti altri valori e standard delle strutture di cure intermedie sono intermedi rispetto alla Lungodegenza post-acuzie e alle RSA, come la degenza media che si colloca solo lievemente al di sopra di quella dei reparti ospedalieri post-acuzie e molto al di sotto delle RSA, o come la tariffa di riferimento che, addirittura in base alla norma, deve collocarsi fra le due strutture.
Le cure intermedie, per la loro collocazione, presentano rischi significativi di utilizzo inappropriato sia in “eccesso” (ricovero di pazienti gestibili a livelli di minore complessità) che in “difetto” (ricovero di pazienti che avrebbero bisogno di un ricovero ospedaliero). Eppure poche regioni hanno posto la dovuta attenzione sul sistema di valutazione dei pazienti e su un adeguato sistema informativo per verificare il corretto funzionamento delle strutture.
Per questo occorre definire bene funzione ed organizzazione delle strutture di cure intermedie ma anche delle RSA e delle unità ospedaliere di Lungodegenza per evitare sovrapposizioni e confusioni che mettano in discussione l’efficacia del sistema. L’appropriatezza si persegue solo se sono chiari i ruoli, la tipologia dei pazienti, gli obiettivi delle diverse unità operative e le differenze che su questi aspetti caratterizzano l’una o l’altra struttura. Il rischio è che i pazienti possano indifferentemente essere accolti nell’una o nell’altra tipologia di struttura indipendentemente dalle loro condizioni e necessità, o che si registrino diatribe opportunistiche tra i professionisti su quale debba essere la struttura di ricovero per i pazienti più impegnativi, rendendo del tutto inutile l’introduzione della struttura di cure intermedie.
I rischi per la lungodegenza post-acuzie
L’altro nodo riguarda il rapporto fra Lungodegenza ospedaliera post-acuzie e le strutture di cure intermedie. Queste ultime sono destinate a sostituire le Lungodegenze ospedaliere?
Negli ultimi 20 anni la programmazione sanitaria nazionale ha ridotto da 0,50 ad almeno 0,20 i posti letto per mille abitanti per la lungodegenza post-acuzie mentre i posti letto attivi sono passati da 0,20 a 0,17 posti letto per mille abitanti. Nel contempo, il programmatore nazionale propone le strutture per le cure intermedie che pur mantenendo la caratteristica di struttura extraospedaliera presenta uno standard assistenziale più importante, capace di intercettare ed assistere un target di pazienti che, in parte, oggi fanno capo alle Lungodegenze. Per le cure intermedie si propone una dotazione di posti letto che è di 0,40 per mille abitanti, addirittura doppia di quella oggi indicata per la Lungodegenza post-acuzie. C’è da chiedersi se le strutture per le cure intermedie, nel tempo, soppianteranno le Lungodegenze ospedaliere che oggi sono in riduzione o se si affiancheranno ad esse.
Il ridimensionamento delle lungodegenze ospedaliere post-acuzie costituisce un rischio per l’organizzazione ospedaliera e per il mantenimento della completezza della rete dell’assistenza post-acuzie. Le cure intermedie non sono in grado di sostituirsi ad esse. Le unità di lungodegenza post-acuzie sono necessarie per le situazioni più instabili che hanno bisogno di una presenza medica prolungata e della possibilità di accedere tempestivamente ad una pluralità di servizi ospedalieri, da quelli diagnostici cure alle specialistiche. Peraltro, proprio la stabilizzazione dei pazienti, in genere, viene esclusa tra le attività cliniche delle cure intermedie. Ecco dunque che per garantire l’appropriatezza e l’efficacia delle cure e la continuità dell’assistenza dei pazienti occorre mantenere una presenza significativa delle lungodegenze ospedaliere post-acuzie che sono chiamate a svolgere un’attività non delegabile ad altri.
L’educazione terapeutica: un’opportunità
Solo due regioni (Emilia-Romagna, Marche) sottolineano la necessità di garantire un’attività di educazione terapeutica nei confronti del paziente e dei caregiver familiari in prospettiva della dimissione al domicilio.
L’educazione terapeutica, come è noto, è un processo educativo che si propone di aiutare la persona malata ed i suoi familiari ad acquisire e mantenere le conoscenze e le competenze per la gestione ottimale della sua vita con la malattia. E’ necessario che l’educazione terapeutica diventi un’attività ordinaria delle strutture per le cure intermedie. Ne trarranno un grande vantaggio soprattutto i pazienti con malattie croniche sin dal momento della loro dimissione. L’educazione terapeutica, preceduta da una valutazione operata dal personale della struttura, prevede che i caregiver ritenuti “idonei” vengano successivamente sensibilizzati e addestrati a uno o più specifici compiti assistenziali che possano essere gestiti in autonomia a livello domiciliare per migliorare la qualità della vita del paziente. Assistenza ai pasti, mobilizzazione attiva e passiva, gestione del catetere vescicale e dell’alimentazione artificiale enterale, somministrazione di insulina ed eparina sottocute sono alcuni esempi indicativi del valore aggiunto che l’educazione terapeutica può garantire sia al paziente sia al sistema. Per raggiungere lo scopo occorre che anche il personale di assistenza sia preliminarmente sensibilizzato e formato all’analisi del contesto relazionale che caratterizza ogni singola situazione oltre che a fornire le corrette istruzioni per la trasmissione efficace della mansione delegabile (Salsi e Calogero, 2010).
Note
- Nel capitolo “Le cure intermedie”, pubblicato all’interno del volume L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia – 6° Rapporto. 2017/2018. Il tempo delle risposte, a cura di NNA, Franco Pesaresi analizza diverse caratteristiche delle cure intermedie nelle regioni: la denominazione, i pazienti eleggibili; i posti letto; la durata della degenza; l’accesso; la responsabilità gestionale e clinica; il personale, le tariffe. Ad esso rimandiamo per ogni approfondimento.
Bibliografia
Agenas (2011), Il piano di riorganizzazione dell’assistenza sanitaria nelle regioni in piano di rientro, Monitor, n. 27, pp. 12-86.
Bartoli S., Ferro S., De Palma R. (2012), Le cure intermedie come soluzione per affrontare le malattie croniche: il programma Stoke Care, Italian Journal of Medicine, n.6, pp. 139-143.
Chiatti C., Barbabella F., Masera F. (2013), Gli standard ed i requisiti di qualità nei servizi di assi-stenza residenziale, in N.N.A. (a cura di) L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia – 4° rapporto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, pp. 71-91.
Comodo N., Maciocco G. (2004), Cure intermedie: basi concettuali, Prospettive sociali e sanitarie n. 3, pp. 1-3.
Masera F., Chiatti C., Rocchetti C. (2011), Gli standard di qualità e di personale nelle residenze, in N.N.A. (a cura di) L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia – 3° rapporto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, pp. 103-122.
Melis R.J., Olde Rikkert M.G., Parker S.G., Van Eijken M.L. (2004) What is intermediate care?, British Medical Journal, n. 329, pp. 360-361.
Pesaresi F. (2015), I servizi per le cure intermedie, Welfare Oggi, n.1, pp. 48-53.
Pesaresi F. (2014), Specificità, contenuti operativi e risultati attesi dei reparti di post-acuzie e di cure intermedie, in Brizioli E., Trabucchi M. (a cura di ) Il cittadino non autosufficiente e l’ospedale, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore.
Salsi A., Calogero P. (2010), Le cure intermedie, Italian Journal of Medicine, n. 4, pp. 57-62.