(dall’articolo di Mitchell et al: Clinical and organizational factors associated with feeding tube use among nursing home residents with advanced cognitive impairment. JAMA, 290: 73-80, 2003)
Il dibattito sull’adozione di procedure assistenziali razionali, e quindi sull’uso delle risorse, nelle strutture per anziani è sempre molto aperto ed anche la nostra rivista avrà modo in diverse occasioni di occuparsene. Infatti prevalgono atteggiamenti di cura non sempre fondati; è necessario compiere ancora molta strada per arrivare a costruire un panorama di linee guida e di protocolli che aiutino nei diversi processi decisionali. E’ una scelta obbligata se si vuole davvero portare le strutture che ospitano anziani ammalati ad un buon livello qualitativo, così come sarebbe richiesto dal progresso culturale, dalla dimensione quantitativa del problema, dal compito di accudimento della parte meno fortunata dei suoi componenti che la società affida alle case di riposo.
Il dibattito è molto intenso in tutto il mondo avanzato ed anche in Italia, come testimoniato dalle proposte che continuano ad essere elaborate per la classificazione degli ospiti, che sono al tempo stesso strumenti amministrativi, ma anche guide per una razionalizzazione dell’assistenza nelle molteplici aree di interesse. D’altra parte, si deve riconoscere che l’evoluzione della domanda (e quindi l’esigenza di risposte adeguate al bisogno di pazienti clinicamente e funzionalmente sempre più compromessi) è avvenuta in maniera così rapida da giustificare l’assenza di un corpo strutturato di norme fondate sull’evidenza e largamente condivise. E’ già un notevole passo avanti quello compiuto da numerose strutture che hanno riconosciuto l’esigenza di abbandonare l’assoluta autorefenzialità che ha caratterizzato in passato il loro lavoro, per ricercare modalità standardizzate nei comportamenti clinico-assistenziali. Fino ad ora è mancata anche una pressione civile realmente efficace, in grado di stimolare un’evoluzione positiva della prassi; oggi, invece, anche le sempre più marcate difficoltà economiche concorrono ad una precisa presa di coscienza sulla necessità di adottare procedure razionali e moderne, che sono fonte di risparmio rispetto al raggiungimento di precisi outcomes.
Nell’ottica di ricercare una razionalizzazione dei comportamenti assistenziali in casa di riposo (si usa questo temine in maniera generale, pur conoscendone i limiti, per indicare tutte le diverse tipologie che caratterizzano nel nostro paese l’assistenza continuativa istituzionale alla persona anziana ammalata) è interessante recensire il lavoro indicato nel titolo, perché rappresenta uno dei risultati più maturi del filone di ricerca che parte dalla lettura del presente per identificare i punti deboli di comportamenti clinico-assistenziali largamente diffusi. L’augurio è che in un futuro non molto lontano anche in Italia potremo disporre di data base come il Minimum Data Set (MDS) americano, fonte importantissima di informazioni per monitorare l’evoluzione del sistema delle residenze per anziani. Appunto su questa raccolta di dati, compiuta in ben 15135 strutture, si fonda il lavoro di Mitchell et al che ha identificato le caratteristiche dei pazienti e delle case di riposo che sono associate all’adozione di procedure di alimentazione enterale nei pazienti affetti da gravi disturbi della cognitività. L’interesse del lavoro risiede nel tentativo di identificare i fattori che determinano l’adozione di procedure di alimentazione artificiale, pur in presenza di un’ampia serie di dati empirici e controllati sull’inutilità di tale procedura, da taluni ritenuta addirittura non priva di rischi per lo stesso paziente.
Lo studio è stato fatto dall’equipe di Vincent Mor, studioso ben noto a livello internazionale come uno degli analisti più raffinati della condizione dei residenti nelle nursing home degli Stati Uniti. Di tutti gli ospiti esaminati, circa 180 mila erano affetti da una grave compromissione delle funzioni cognitive, accompagnata da problemi nell’alimentazione; di questi ben il 33.8% erano alimentati artificialmente. Schematicamente i dati della ricerca indicano una grande variabilità della prevalenza di alimentazione artificiale nelle diverse strutture e nei vari Stati dell’Unione; ciò induce a ritenere che vi sia una serie di fattori esterni alle condizioni del paziente che determinano la frequenza con la quale si adotta l’alimentazione artificiale. Infatti nei pazienti affetti da un disturbo cognitivo in fase avanzata sono indipendentemente associati con una maggior frequenza di alimentazione artificiale l’essere uomo, giovane, il non appartenere alla razza bianca, l’ essere divorziato, il non aver predisposto direttive anticipate e l’essere stato colpito da ictus. Per quanto riguarda invece le caratteristiche delle diverse strutture, sono associati ad una più elevata prevalenza di alimentazione artificiale il non disporre di unità speciali per dementi, la localizzazione urbana, l’essere strutture for profit, la mancanza di uno staff stabile medico-infermieristico.
Quali indicazioni si possono trarre dalla lettura di questi dati, che di per se si presentano sotto una luce del tutto particolare, caratterizzata dall’elevata (o elevatissima) frequenza del fenomeno e da una forte variabilità? Alcune osservazioni si prestano a commenti interessanti; altre invece sono più difficili da analizzare. Vanno però lette nel loro insieme, per costruire un quadro complessivo particolarmente intricato, al cui interno le diverse componenti legate all’ospite, alla cultura dell’ambiente di cura, alle condizioni oggettive della struttura sono difficilmente separabili tra di loro e confermano come le nursing home (così come le nostre case di riposo) sono microcosmi tendenzialmente autoregolati, verso i quali è necessario indirizzare grande attenzione ed impegno di studio e ricerca, per trasformarle in strutture aperte al rapporto con il mondo esterno, con le novità culturali e scientifiche, con gli imperativi etici che si richiamano al riconoscimento del valore e del rispetto della persona, anche quando si trova in condizioni di fragilità e marginalità. La stessa grande variabilità nella decisione di nutrire artificialmente un paziente affetto da una grave demenza denota ad un tempo la mancanza di regole, ma anche il fatto che ogni struttura si autoorganizza e si illude di dare la risposta migliore. Quante volte nella mia lunga frequentazione di questi luoghi mi sono incontrato con la generosità mal riposta di chi credeva di fare il bene del paziente solo realizzando le proprie fantasie, dotate di scarso contatto con la realtà e di ancor più scarso contatto con il minimo di scienza che è possibile realizzare anche all’interno delle case di riposo.
La lettura del lavoro di Mitchell si presta ad alcuni commenti mirati su specifici problemi. Ne riassumiamo alcuni tra quelli che ci sembrano più significativi.
Un primo commento può essere così schematizzato: dove il servizio reso è meno qualificato, in questi stessi luoghi si tende a dare un’alternativa aggressiva e semitecnologica (l’alimentazione artificiale) alla mancanza di un progetto assistenziale articolato, fondato su una care attenta e intelligente dell’ospite affetto da una grave compromissione cognitiva. Ciò vale per la mancanza di moduli riservati all’assistenza al demente (le famose special care units), per un ridotto numero di operatori sanitari qualificati in staff, per la mancata raccolta di direttive da parte del paziente (indice di una scarsa attenzione al rapporto tra operatori ed ospiti). Questo aspetto si presta a gravi considerazioni rispetto ai tentativi di ridimensionamento delle attività delle case di riposo in atto in molte regioni, a cominciare dalla Lombardia.
Dove si taglia su personale e strutture si mette in atto una reazione difensiva –dettata da sensi di colpa più o meno coscienti e più o meno diffusi- che può portare ad interventi sul paziente non sempre necessari o razionali. Si tenga conto, inoltre, di comportamenti indotti da esigenze puramente economiche: costa meno l’alimentazione enterale che non le risorse umane dedicate ad un imboccamento lento e faticoso. Si aggiunga anche il fatto che il sistema americano di Medicaid prevede un rimborso più elevato per pazienti alimentati artificialmente; la tendenza –soprattutto nel strutture profit- potrebbe essere quella di ricorrere all’alimentazione artificiale in assenza di un vero bisogno (peraltro tutto da dimostrare anche in condizioni di particolare gravità). Chiaramente sarebbe necessario implementare anche nelle case di riposo sistemi rigidi di controllo dell’appropriatezza, come avviene in molti ospedali per il pagamento a DRG (si pensi, ad esempio, al rimborso elevatissimo previsto per una tracheostomia, che potrebbe indurre qualche amministratore ospedaliero a suggerire ai suoi medici una certa …larghezza di vedute rispetto all’eventualità di fare qualche tracheostomia solo marginalmente indispensabile!).
Infine la ricerca dimostra che nelle case di riposo americane vi è la tendenza ad instaurare con maggiore frequenza l’alimentazione artificiale negli ospiti non di razza bianca. Perché? E’ la reazione ad un senso di colpa verso le altre razze, troppo spesso private di adeguati sistemi di protezione della salute? Oppure è una richiesta che proviene dai pazienti e dai loro medici, che ripongono una fiducia eccessiva e altrettanto non fondata nella tecnologia (evidente conseguenza di una certo sottosviluppo culturale)? Oppure è la conseguenza di una diversa visione della vita e della morte che caratterizza il modo di vivere delle popolazioni non bianche?
Queste sono solo alcune delle considerazioni che potrebbero essere dettate dalla lettura dell’articolo di Mitchell e altri; a noi non resta che l’impegno ad estendere queste ricerche anche nel nostro mondo, per riceverne indicazioni importanti al fine di migliorare la care in ambienti difficili e complessi come sono le case di riposo. In un momento di particolare difficoltà del comparto (una crisi di crescita?), una risposta colta di ricerca è l’unica possibile alternativa alla lenta decadenza.