1 Agosto 2004 | Cultura e società

Urbanistica e invecchiamento: alla ricerca dell’uomo invisibile

Urbanistica e invecchiamento

Vivere e curare anziani in una delle province più vecchie del paese più vecchio del mondo (demograficamente parlando) sarà una credenziale sufficiente per esprimere un’opinione politicamente poco corretta? L’opinione, che cercherò di argomentare e che per ora propongo apoditticamente, è che le nostre città assistano indifferenti, e in qualche caso ostili, all’invecchiamento delle persone che le abitano, senza che esista, da parte dei pianificatori, l’attenzione che meriterebbe un fenomeno demografico importante qual è quello cui stiamo assistendo.

 

Gli ultimi cento anni hanno visto mutamenti demografici che conosciamo bene, ma che forse vale la pena di ricordare per dare più consistenza al nostro assunto. La piramide delle età si è sgretolata nella sua base, costituita dai giovani e dagli adulti, ed è aumentata nel suo vertice, costituito dagli ultra65enni. Il controllo dei due fenomeni che principalmente incidono sull’assetto demografico di una popolazione -nascita e morte, i fenomeni migratori essendo per ora meno rilevanti- ha portato il nostro paese alla situazione attuale, con la più alta concentrazione di ultra65enni del mondo, stimata al 24.3% nel 2001, e contemporaneamente la più bassa proporzione di ragazzi sotto i 15 anni, il 15.1%. La crescente longevità ha portato nel 2001 la vita media dei maschi a 76.7 anni, quella delle femmine a 82.8 (Istat, 2003).

 

Le ripercussioni sociali, sanitarie ed economiche di questi eventi sono di enorme portata, tanto da farci spesso guardare a questo fenomeno, che oggettivamente è un successo, come a un problema e a una collettiva preoccupazione. Accanto a questi aspetti, relativi alla diversa distribuzione delle classi di età, c’è il fenomeno della urbanizzazione, che investe in misura diversa tutto il mondo. Anthony J. McMichael (2000) afferma che l’homo sapiens sta affrontando una radicale trasformazione ecologica; la percentuale mondiale di persone che abitano in città è passata negli ultimi due secoli dal 5 al 50% e nel 2030 i due terzi di tutta la popolazione mondiale abiterà nelle grandi città; inoltre “..in futuro le popolazioni urbane avranno una proporzione di anziani nettamente più alta di oggi” (McMichael, 2000). A fronte di uno scenario di questo tipo ci si aspetterebbe che le società, soprattutto quelle più esposte, si fossero attrezzate per tempo, adeguando ai fenomeni dell’invecchiamento e dell’urbanizzazione non solo l’apparato sanitario e assistenziale ma anche la pianificazione urbana. Non ci sembra che così sia stato.

 

Qualche decennio fa i vecchi erano pochi, e un numero cospicuo di giovani, di adulti e di bambini costituiva il nucleo forte della società, contribuendo a proteggere la vecchiaia sia sul piano privato e famigliare, che su quello collettivo. Accanto a una rete familiare articolata e numerosa, nelle città e nei paesi erano sorti luoghi che, preferibilmente ai margini dell’abitato, davano ospitalità alle persone anziane quando la famiglia non era più in grado di accudirle. Le città erano ancora, come si usa dire, a misura d’uomo e anche di vecchio.

 

Per togliere qualsiasi sospetto agiografico a queste note, bisogna dire che il meccanismo aveva in sé qualcosa di ipocritamente espulsivo. Si costruivano ospizi, appunto per offrire ospitalità: la loro sede però era in genere lontana dal centro abitato, cioè dal cuore vitale della città; spesso alte mura li separavano fisicamente dalla vita vera; al loro interno si riproducevano le caratteristiche organizzative, relazionali, umane (o disumane) di quelle che Goffmann (1968) per primo negli anni ’60 definì istituzioni totali. Luoghi dove tutto accade all’interno, dove i legami con l’esterno sono deboli o inesistenti, dove i ruoli sono nettamente separati, dove la gerarchia si manifesta in tutta la sua negatività. Al di là dell’intento umanitario che spronava i fondatori, la dinamica sociale che portava agli ospizi era la stessa che produceva manicomi e carceri.

 

I tempi sono cambiati, anche negli istituti geriatrici. Si sono sviluppati sistemi e metodi volti a rendere la vita degli ospizi più vicina alla vita vera: tutto ciò è diventato “animazione”, “uscite”, “progetti”. Si è assistito in misura sempre crescente all’aggravamento delle condizioni fisiche e mentali di questi anziani, che approdano agli istituti sempre più vecchi e sempre più malati. Gli istituti sono complessivamente e generalmente migliorati, sia sul piano ambientale sia su quello professionale. Rimane però il fatto che gli ospizi (diventati poi case di riposo, strutture protette, residenze sanitarie assistenziali ecc.) sono sempre là, testimonianza fisica ben visibile di un meccanismo sociale che tende a segregare e che nel tempo ha sviluppato ben poche risposte alternative alla domanda “come assistere gli anziani che la famiglia non riesce più ad assistere?”. Nel frattempo, fuori da queste mura, é drammaticamente cambiato il numero degli anziani (sani e malati, se vogliamo usare questa semplicistica e poco geriatrica categorizzazione) che da esigua minoranza sono diventati oggi una grande fetta della popolazione. Fuori dalle mura degli ospizi non c’è più, in metaforica attesa, uno sparuto gruppo di vecchi, ma una folla di anziani che la città in qualche modo respinge, con un assetto sociale che ha il suo baricentro sugli adulti e sui giovani, con un sistema sanitario che sembra confinare gli anziani in un limbo assistenzialistico (come se i problemi sanitari finissero a 65 anni di età..). Con una urbanistica, dei servizi e uno stile di vita che sembrano concepiti per rendere difficile la vita di un vecchio.

 

L’impressione, a volte, è che i vecchi li vediamo solo noi addetti ai lavori. Per gli altri, per chi amministra e governa, e anche per l’ uomo qualunque, sembrano una massa indistinta e un po’ fastidiosa, di cui ci si occupa nei casi clamorosi di malasanità, quando c’è un coinvolgimento personale, o in prossimità di tornate elettorali. E dunque, i vecchi sono davvero invisibili? Perché questa grande massa che popola il nostro paese si vede soltanto quando diventa malata tanto da richiedere un intervento medico urgente o l’istituzionalizzazione? Come si sono preparate e adeguate le nostre città, soprattutto le metropoli, al fenomeno previsto da decenni dell’invecchiamento della popolazione, e che cosa si è fatto di strutturale per rendere più semplice e gradevole la loro vita?

 

Proviamo a muoverci in una delle nostre città (Milano?) con gli occhi, le articolazioni, la mente di un anziano. Ci imbatteremo in marciapiedi sconnessi, in attraversamenti stradali troppo lunghi (in realtà, in semafori con tempi troppo brevi), in predelle di autobus troppo erte da salire e da scendere; e una volta saliti bisogna rimanere in piedi (mi ha sempre stupito il basso numero di cadute durante le frenate: forse la specie si adatta…). Ci troveremo alle casse dei supermercati a subire una tempistica e una gestualità non adatte agli anziani, a fronteggiare distributori automatici di biglietti e bevande con simbologie oscure. Lascio a chi legge la prosecuzione dell’elenco, chiarendo che non si vuole qui mitizzare il passato, ma soltanto sottolineare le molte inadeguatezze del presente. Infine, diamo uno sguardo a quello che “si è fatto per gli anziani” nelle grandi città: qualche sparuta panchina di giardino, qualche montascale all’ingresso delle metropolitane, qualche scivolo all’ingresso di una banca. Urbanistica, in inglese, è “town planning”, pianificazione della città; ambiente è “environment”. Entrambi i termini rendono con molta efficacia, nella loro versione anglosassone, quei concetti di progettualità e di avvolgimento- accoglienza di cui, secondo me, si sente tanto il bisogno.

 

Cinquant’anni fa un antropologo canadese, Edward Hall, nel suo fondamentale lavoro “The hidden dimension” (“La dimensione nascosta”) (Hall, 1968), per primo analizzò i modi di usare lo spazio e di attribuirgli un significato. Inventò il termine prossemica, una sorta di semiologia dello spazio che ci rende ragione anche del diverso comportamento di fronte allo spazio e ai rapporti spaziali che esiste nelle diverse culture. Ci spiegò che lo spazio in cui viviamo non è solo percepito con i nostri sensi, ma è anche interpretato, ricordato, analizzato. Non c’é solo una dimensione visiva -che sembra quella prediletta dagli architetti- ma esistono anche dimensioni acustiche, olfattive, tattili; e intorno a queste percezioni sensoriali la nostra mente costruisce ricordi, determina comportamenti, stabilisce relazioni. Questa semiologia dello spazio impregna la nostra vita: del professore che parla ai suoi allievi, dell’arredatore che dispone i mobili, del medico che si avvicina a un malato (Lembi, 1995/96).

 

Le affascinanti analisi di Hall e poi di altri hanno dato l’avvio a discipline come la psicologia ambientale (environmental psychology), definendo l’importanza dell’ambiente nella vita degli uomini. Abbiamo così imparato che la capacità adattativa dell’uomo all’ambiente è inversamente proporzionale alla sua competenza cognitiva e che, diminuendo le capacità cognitive, l’ambiente dovrebbe facilitare l’uomo adattandosi ad esso, e non viceversa. Invecchiando l’uomo ha sempre più bisogno di riferimenti chiari, semplici, possibilmente carichi di significati e ricordi. Il pensiero va invece a certe periferie di città: uguali fra di loro e ugualmente prive di personalità, senza storia, prive di coerenza con i centri storici di cui sono emanazione. Queste città prive di memoria, quale supporto potranno dare, quale effetto protesico potranno avere per la persona che invecchia, che vede in molti casi allentarsi i fili della memoria e che richiede sicurezza, serenità, agganci con il passato? Il nostro patrimonio di memoria è fatto di stimoli multimodali e di connessioni che, opportunamente elaborati dalla nostra cultura, costituiscono la trama su cui si disegna la nostra esistenza.

 

Proviamo a leggere, fra i tanti possibili esempi di memoria, il ricordo di un luogo, Capri, nelle parole di Rilke: «Un fiume di vento, una strada di vento, sopra la quale stava immoto, profondo e silenzioso, un cielo in fiore, cielo di primavera con grandi stelle solitarie e aperte». Ecco, la traccia di memoria nasce da una percezione dello spazio fatta di elementi sensoriali, ma profondamente improntata dalla cultura, in questo caso quella decadente mitteleuropea di fine ‘800, di chi elabora questa percezione.

 

I bambini e gli anziani -estremi della vita- sembrano oggi i più dimenticati nelle città, intrusi per i quali si ricava qualche spazio sottraendolo alla figura dominante, l’adulto che lavora e produce. Il futuro (i bambini) e il passato (gli anziani) vivono sullo sfondo di una società, la nostra, drammaticamente ancorata al presente, affetta da un narcisismo collettivo che le impedisce quella fondamentale azione di memoria che consiste nel collegare il nostro passato con il nostro futuro, passando attraverso il nostro presente. Ci piace immaginare, nel nostro futuro, una città moderna nella quale le persone anziane si muovano a proprio agio, senza sentirsi fuori posto, ospiti scomodi in un luogo che non gli appartiene più. Utopia? Winckelmann parlando di classicità, diceva che “.. è il sentimento di chi sente di essere scaldato dallo stesso sole che scaldò Omero”. Più semplicemente speriamo che la persona anziana possa sempre sentirsi scaldata dallo stesso sole di quando era bambina.

Bibliografia

Goffman E. Asylum. Anchor Books, Doubleday, New York 1961 (tr. It. Einaudi, Torino, 1968).

Hall ET. The hidden dimension. Doubleday, New York 1966 (tr. It. La dimensione nascosta, Bompiani, Milano, 1966).

Lembi P. Percezione e organizzazione dello spazio nelle istituzioni totali. Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura. Tesi di laurea. Anno Accademico 1995/96.

McMichael AJ. The urban environment and health in a world of increasing globalization: issues for developing countries. Bulletin of the World Health Organization, 78 (9), 2000.

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