1 Agosto 2004 | Strumenti e approcci

Anziani e sperimentazioni cliniche in oncologia

Anziani e sperimentazioni cliniche in oncologia

Anziani e patologia tumorale

I pazienti anziani affetti da patologie tumorali necessitano (o dovrebbero necessitare) di un’attenzione particolare, sia perché il cancro è un problema clinico molto diffuso in questa fascia di età (il 55% di tutti i tumori maligni colpiscono le persone di età superiore ai 65 anni) (Yancik e Ries,1991), sia per la rilevanza degli esiti, intesi come disabilità, peggioramento della qualità della vita e morte.

 

Nel 1988 il 67% di tutte le morti conseguenti a tumori hanno riguardato persone di età superiore ai 65 anni. L’età rappresenta il più grande fattore di rischio per l’insorgenza di un tumore. Per molte sedi l’incidenza delle neoplasie aumenta con l’avanzare dell’età, per decrescere dopo gli 85-90 anni. Alcuni tipi di tumore sono molto frequenti negli anziani: il cancro allo stomaco, al colon, retto, prostata e polmone rappresentano il 50% di tutti i tumori che colpiscono le persone con più di 60 anni. Inoltre occorre considerare che i rischi associati con la terapia antiblastica aumentano con l’età anagrafica.

 

Il tumore è devastante per tutti i pazienti, a qualsiasi età. Gli anziani ammalati, tuttavia, devono far fronte alla prospettiva della morte in una fase della loro vita nella quale riflettono sul proprio passato e sul bagaglio di regole morali che si sono costruiti nel tempo. La dinamica della patologia tumorale spesso influenza l’autonomia della persona; la perdita dell’autosufficienza è causa di sofferenze che possono essere sottovalutate dai caregiver sostenitori del prolungamento della vita del loro caro ad ogni costo. Gli operatori sanitari, in generale, credono che la maggior parte degli anziani abbia una ridotta aspettativa di vita e che l’applicazione rigorosa di schemi terapeutici o test diagnostici presenti maggiori rischi e/o abbia un impatto negativo sulla qualità di vita residua. Il medico può omettere di informare l’anziano delle scelte relative al trattamento della patologia tumorale, può non proporgli l’arruolamento nello studio o indirizzarlo subito verso le cure palliative. Il follow-up che segue il trattamento del cancro spesso è gestito direttamente dal medico di base che può decidere di non effettuarlo proprio perché il paziente è anziano.

 

Ottenere il consenso informato ai trattamenti antiblastici è importante per tutti i pazienti, ma lo è ancora di più per gli anziani. La scelta del trattamento tra diverse opzioni (es: chirurgia conservativa o demolitiva, terapia medica o “non trattamento”), deve essere discussa con il paziente. L’interruzione della terapia può essere indicata se non vi è beneficio o se gli effetti collaterali rendono la qualità di vita scadente (Thomasma, 1992). Uomini e donne anziane hanno gli stessi diritti delle persone più giovani di prender parte al processo decisionale relativo alla propria salute. L’approccio ottimale al trattamento dovrebbe prevedere la miglior qualità della vita per la massima durata della vita stessa, valutando quali sono i rischi accettabili per i pazienti (Singletary et al., 1993). Vi sono prove di efficacia che la comorbidità spieghi, in parte, il perché uomini e donne anziane debbano ricevere terapie meno aggressive delle persone più giovani. Tuttavia è sconosciuto se modificando il trattamento vi è un effettivo miglioramento della qualità o dell’aspettativa di vita (Satariano, 1992).

 

Se la presa in carico della persona anziana affetta da patologia tumorale presenta una così vasta serie di problemi – che spaziano dalla diagnosi, al trattamento, agli aspetti etici del prolungamento della vita, alla presa di decisioni su diverse opzioni, così come sono stati sinora descritti – perché la ricerca clinica sperimentale investe così poco nell’area dell’oncologia geriatrica?

 

Le sperimentazioni cliniche in oncologia: il problema dell’arruolamento degli anziani

Le sperimentazioni cliniche randomizzate controllate (SCC, o secondo la terminologia inglese – frequentemente utilizzata – Randomised Clinical Trials, RCT) costituiscono gli studi migliori, tra le prove di efficacia, per la valutazione degli interventi sanitari, l’efficacia di un farmaco, per esaminare una possibile relazione causa-effetto tra variabili. I trials, In area oncologica, sono meno numerosi nella popolazione anziana rispetto a quella dei giovani adulti. Questa disparità è ancora più evidente confrontando i pazienti anziani arruolati in trial oncologici con i bambini. In età pediatrica i risultati ottenuti negli studi sperimentali spesso significano un miglioramento della sopravvivenza dei piccoli pazienti, e questo stimola l’implementazione di ulteriori progetti di ricerca. Molti studi rivolti alla popolazione adulta, invece, escludono gli anziani sulla base del solo parametro legato all’età; patologie di base e precedenti tumori possono essere altre cause di ineleggibilità. Infine i tumori dei bambini sono spesso trattati da specialisti (oncologici pediatrici); c’è invece una quasi totale assenza di oncologi specializzati nell’area geriatria (Satariano, 1992). Nonostante un terzo dei letti ospedalieri siano occupati da anziani pochi medici sono esperti in clinica geriatrica.

 

Vi è innanzitutto un problema di arruolamento dei pazienti anziani. A dimostrazione dell’interesse (ma anche della preoccupazione) che hanno i ricercatori verso questo tema, nel corso del 2003 sono stati pubblicati ben tre articoli relativi alla scarsa presenza degli anziani nelle sperimentazioni cliniche oncologiche. Lo studio retrospettivo di Lewis (2003) ha analizzato i dati relativi a 59.300 pazienti arruolati in 459 trial condotti dal National Cancer Institute dal 1997 al 2000. Il 32% dei pazienti partecipanti a studi di fase II e III erano anziani (negli USA il 62% dei pazienti oncologici ha più di 65 anni). La percentuale era minore nelle sperimentazioni riguardanti tumori nella fase iniziale rispetto alle fasi avanzate (p<0.001). I protocolli che presentavano come criteri di esclusione deficit organici e funzionali avevano ovviamente arruolato un più basso numero di anziani. Gli autori hanno stimato che protocolli con criteri meno restrittivi avrebbero consentito l’arruolamento di oltre il 60% di pazienti anziani e hanno quindi proposto la stipula di polizze assicurative come una delle misure incentivanti.

 

L’articolo di Kemeny e al. (2003) è un’indagine volta a capire i motivi per cui le donne di età superiore ai 65 anni affette da tumore al seno, le quali rappresentano il 45% della popolazione totale, sono scarsamente rappresentate nei trial. Lo studio (caso-controllo retrospettivo) è stato condotto in dieci centri di ricerca statunitensi, selezionando tutte le donne eleggibili per studi clinici relativi al trattamento del tumore; ad ogni donna con tumore al seno di età > 65 anni è stata appaiata una donna con medesima patologia ma più giovane. Si sono ottenute così 77 coppie di pazienti; ogni donna è stata intervistata relativamente ai motivi che l’hanno condotta a partecipare/non partecipare alla sperimentazione.

 

Ai medici curanti delle donne coinvolte nell’indagine è stato somministrato un questionario relativo ai motivi che li hanno spinti ad offrire/non offrire alle proprie pazienti la partecipazione al trial. I risultati mostrano che al 60% delle donne giovani è stata offerta la partecipazione, contro il 34% delle donne anziane (p=0.004). I medici hanno riferito che il più grosso ostacolo nell’arruolare donne anziane è rappresentato dal pregiudizio riguardante l’età e la tolleranza alla tossicità del trattamento. Questa percezione è però smentita dai risultati ottenuti in clinica: Muss (2003), dell’Università del Vermont, afferma che la chemioterapia è ugualmente efficace sia nelle donne giovani che in quelle anziane affette da carcinoma mammario; i dati relativi alla sopravvivenza non mutano secondo l’età delle pazienti, ma sono direttamente correlati alla dimensione del tumore e al numero dei linfonodi interessati.

 

Uno studio retrospettivo (Yee et al., 2003) condotto in Canada ha analizzato tutte le sperimentazioni cliniche randomizzate controllate seguite dal National Cancer Institute of Canada Trials Group tra il 1993 e il 1996 e relative a trattamenti in oncologia. Sono stati arruolati 4.174 pazienti in 69 studi clinici relativi a sedici tipi di trattamenti oncologici. Di questi, il 22% erano pazienti anziani (età superiore a 65 anni), contro il 58% della popolazione anziana canadese affetta da tumore nello stesso periodo. La discrepanza tra popolazione e pazienti arruolati esisteva per tutti i tipi di tumore, eccetto i mielomi multipli. Gli studi nei quali sono stati coinvolti i pazienti anziani riguardavano: 15% trial relativi a terapia complementare; 25% trial rivolti a pazienti con metastasi; 29% relativi a sperimentazione di nuovi farmaci; 24% trial di fase I; 21% studi sulle cure di supporto.

 

La trasferibilità dei risultati degli studi nella pratica

Uno studio molto interessante di Fossa e Skovlund (2002) ha dimostrato che la non corretta scelta dei pazienti da arruolare può produrre risultati diversi nella pratica clinica. Dal 1989 al 1995 sono stati arruolati in Norvegia 85 pazienti per un trial multicentrico internazionale relativo alla valutazione di un nuovo chemioterapico adiuvante a base di cisplatino per la cura dei tumori alla vescica. Contemporaneamente, al di fuori dal trial, lo stesso farmaco è stato proposto a 45 pazienti con le stesse caratteristiche di eleggibilità (36 dei quali non avevano voluto dare il consenso allo studio) e a 106 pazienti risultati non eleggibili. La sopravvivenza a tre anni dalla somministrazione variava notevolmente tra i tre gruppi: 62% nei pazienti arruolati, 58% nei pazienti eleggibili ma non arruolati per il trial, 31% per i pazienti non eleggibili. La differenza era statisticamente significativa sia tra il gruppo degli eleggibili e gli esclusi (p<0.001) ma anche tra gli arruolati e coloro che non avevano accettato il trial (p=0.01). Gli autori affermano che i risultati e le raccomandazioni relative ai trattamenti derivati dalle sperimentazioni cliniche possono essere trasferiti alla pratica quotidiana solo se i criteri di eleggibilità e di selezione dei pazienti vengono presi in considerazione nell’interpretazione dei dati.

 

Informazione e ottenimento del consenso

Un aspetto molto delicato è quello relativo all’informazione, e conseguentemente all’ottenimento del consenso, entrambi conditio sine qua non per la partecipazione alle sperimentazioni. La Convenzione di Oviedo del 1997, all’articolo 5 (Legge n. 145, 2001), vincola qualsiasi intervento ad una preliminare libera dichiarazione di consenso da parte delle persone coinvolte, le quali devono essere informate adeguatamente sullo scopo, la natura, le conseguenze ed i rischi dell’intervento stesso. Ad esse è lasciata la facoltà di ritirare tale consenso in qualsiasi momento. Altri articoli della convenzione si occupano delle problematiche del consenso rispetto a casi particolari (minori, portatori di handicap, malati, sofferenti di gravi turbe psichiche): la regola è che quando una persona maggiore d’età è ritenuta legalmente incapace (lo può essere l’anziano in determinate condizioni psico-fisiche), fermo restando il consenso del tutore legale, il soggetto deve essere associato alla procedura di autorizzazione nella misura del possibile. Le persone affette da turbe psichiche (è il caso degli anziani dementi) non possono essere sottoposte ad un intervento senza il loro consenso, a meno che l’assenza di tale trattamento rischi di essere gravemente pregiudizievole della loro salute.

 

Alcuni autori hanno valutato l’impatto dell’informazione sulle preferenze degli uomini anziani per l’effettuazione (o non effettuazione) dello screening per la prevenzione del tumore alla prostata (ricerca dell’antigene specifico – PSA). L’efficacia di tale test è da più parti messa in discussione, specialmente negli anziani. Wolf e Schorling (1997) hanno studiato, sulla popolazione di età > 65 anni arruolata in un vasto trial randomizzato, gli effetti dell’informazione (di durata di circa tre minuti su contenuti standard) sulla scelta di effettuare/non effettuare il test di ricerca dell’antigene specifico per la prostata. I risultati hanno dimostrato che i pazienti informati erano significativamente meno interessati allo screening rispetto ai pazienti non informati (p=0.006); inoltre valutavano il test essere scarsamente efficace nella prevenzione del tumore prostatico rispetto agli anziani non informati (p=0.004). Gli autori concludono elencando i fattori che influenzano la scelta dello screening tra i pazienti informati: la percezione dell’efficacia del test; non essere sposati; la conoscenza della gravità della malattia tumorale.

 

Lo stesso studio effettuato su 205 uomini adulti (Wolf et al., 1998) ha dimostrato che i pazienti informati scelgono di effettuare lo screening (rispetto ai non informati) se sono giovani, se hanno una storia familiare di tumore alla prostata o se si considerano a rischio di sviluppare un carcinoma prostatico.

 

Gli stessi autori hanno condotto un altro studio (Aaronson et al., 1996) sull’impatto del consenso informato verso la scelta di effettuare (o non effettuare) lo screening per la prevenzione del tumore al colon (CRC). Lo studio (trial randomizzato e controllato) ha riguardato 399 pazienti di età superiore ai 65 anni, ricoverati in quattro reparti di medicina generale.

 

I pazienti, durante la prima visita, sono stati randomizzati a ricevere:

  • un colloquio che simulava la richiesta di consenso informato, che descriveva la riduzione del rischio di morire conseguente a screening per la diagnosi precoce espresso in termini relativi oppure
  • un colloquio che simulava la richiesta di consenso informato, che descriveva la riduzione del rischio di morire conseguente a screening per la diagnosi precoce espresso in termini assoluti oppure
  • un’informazione scritta contenente la descrizione sintetica dello screening (gruppo controllo).

 

Il principale esito studiato è stata la volontà, espressa dal paziente, di iniziare o continuare lo screening (ricerca del sangue occulto nelle feci o colonscopia con endoscopio flessibile, o entrambi). Non si sono rilevate differenze significative tra il gruppo controllo e i due gruppi sperimentali (p=0.8). La maggioranza dei pazienti (63%) intendeva iniziare o continuare lo screening. I pazienti informati dei gruppi sperimentali erano maggiormente in grado di misurare il valore predittivo positivo del test (p=0.0009). I pazienti del gruppo controllo stimavano maggiormente l’efficacia dello screening rispetto agli informati sul rischio relativo, e quest’ultimi più degli informati sul rischio assoluto (p=0.002). Si può affermare che i pazienti anziani sembrano capire le informazioni sullo screening CRC e lo utilizzano per valutare la sua efficacia, ma fornire più informazioni non sembra incidere sulla scelta. Nell’ottica dell’ampia percentuale di anziani (47%) che non sceglie lo screening, gli autori suggeriscono di coinvolgere i pazienti il più possibile nelle decisioni relative alla loro salute, anche se le sole informazioni non sembrano essere sufficienti per perseguire tale obiettivo ma occorre agire su altri fattori.

 

Competenza infermieristica nei trial oncologici

Il ruolo che possono giocare gli infermieri nel migliorare l’efficacia del processo del consenso informato nei trial oncologici è stato indagato in uno studio condotto da Aaronson e altri nel 1996 in Olanda. 180 pazienti ai quali è stato chiesto di partecipare ad un trial oncologico di fase II e III sono stati randomizzati a ricevere:

  • la procedura standard di consenso informato, basata su una spiegazione verbale fornita dal medico più informazioni scritte (gruppo controllo) oppure
  • procedura standard più un contatto telefonico supplementare effettuato da un’infermiera specializzata in oncologia (gruppo sperimentale).

 

Sono state poi condotte delle interviste faccia a faccia con tutti i pazienti una settimana dopo la richiesta e ottenimento del consenso. I due gruppi sono risultati comparabili per caratteristiche sociodemografiche e condizioni cliniche. Entrambi i gruppi hanno mostrato un alto livello di consapevolezza relativa alla diagnosi e alla natura/obiettivi della sperimentazione proposta. I pazienti che hanno ricevuto la telefonata da parte dell’infermiera erano significativamente meglio informati (p<0.01) rispetto a: rischi ed effetti collaterali del trattamento; protocollo del trial; obiettivi della sperimentazione; significato della randomizzazione ad uno o l’altro trattamento; possibilità di ottenere cure alternative; natura volontaria della partecipazione; diritto di uscire dal trial in qualsiasi momento. L’intervento infermieristico non ha migliorato, rispetto al gruppo di controllo, il livello di ansia/preoccupazione e l’accettazione del trial. I pazienti del gruppo sperimentale hanno riferito maggior soddisfazione rispetto alla procedura standard.

 

Gli infermieri nei Comitati etici

La competenza infermieristica nell’ambito delle sperimentazioni cliniche può delinearsi in maniera incisiva all’interno dei Comitati etici (CE). Il decreto legislativo del 18 marzo 1998 sulle Linee guida di riferimento per l’istituzione ed il funzionamento dei CE definisce anche i criteri di composizione dei CER: due clinici, farmacologo, biostatistico, farmacista, direttore sanitario, giurista ma anche professionisti con competenze nell’area infermieristica, di bioetica, di medicina generale e la presenza del volontariato. Il compito dei CE è di esprimere il giudizio di notorietà e di approvare la sperimentazione clinica (adeguatezza del protocollo, fattibilità della sperimentazione, conformità alle Good Clinical Practice, aspetti etici, sponsorizzazioni). Il Giudizio di notorietà (deliberazione) è l’atto amministrativo che dichiara che il medicinale che si vuole utilizzare nelle sperimentazioni cliniche nell’uomo non è di nuova istituzione e pertanto non deve essere sottoposto agli accertamenti previsti per i farmaci mai utilizzati nell’uomo (composizione, innocuità) o che non presentano sufficienti dati clinici di sicurezza e qualità.

 

Che ruolo hanno gli infermieri nei CE? Di cosa discutono? Quali sono i loro bisogni informativi? Un’indagine condotta dall’Istituto Mario Negri di Milano (Redazione, 2001) ci fornisce una serie di risposte. Su 43 questionari inviati ad altrettanti infermieri italiani componenti di CE hanno risposto il 53,4%. I temi affrontati nelle riunioni dei CE riguardano il consenso informato, gli aspetti infermieristico-assistenziali/tecnici/organizzativi dei trial ed il relativo monitoraggio.

 

Agli infermieri è stato poi chiesto di riportare degli esempi di temi su cui aveva dato un contributo. Sono stati riferiti aspetti legati:

  • al disegno dello studio (assunzione obbligatoria di contraccettivi orali, dubbi sull’eticità di alcuni criteri di inclusione, attenzione che il placebo non sostituisca trattamenti di documentata efficacia, numero elevato di biopsie epatiche di controllo, destino degli embrioni in sovrannumero)
  • agli aspetti organizzativi (informazione del personale infermieristico, carico di lavoro per gli infermieri e riduzione della qualità dell’assistenza agli altri pazienti; compenso economico per gli infermieri; trattamento dei pazienti non inseriti nei trial; formalizzazione del ruolo degli infermieri che seguono lo studio)
  • monitoraggio dello studio (chiarezza su effetti avversi e loro segnalazione; specificazione su chi è il responsabile dello studio; ruolo dell’infermiere, modalità di presentazione del consenso informato al paziente)
  • consenso informato (chiarezza nella stesura del consenso; completezza dell’informazione rispetto ai contenuti della sperimentazione; richiesta modifica dei moduli di consenso; definizione delle procedure di ottenimento del consenso; consenso in situazioni particolari: emergenza, Alzheimer, psichiatria, minori).

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