Introduzione
I sintomi psicologici e comportamentali della demenza (BPSD) sono comuni e tendono ad aggravarsi con l’avanzare della malattia (Brodaty e Finkel, 2003). Essi hanno una patogenesi multifattoriale comprensiva dell’ambiente, partner silente del caregiving (Noel, 1995/1996). I dati della letteratura sull’efficacia degli interventi ambientali per il controllo dei BPSD sono estremamente scarsi (Snowden et al., 2003), e non ancora del tutto convincenti (Doody et al., 2001; American Geriatric Society e American Association for Geriatric Psychiatry, 2003). L’obiettivo dell’articolo è di esporre alcune riflessioni sui motivi della scarsità e della debolezza di questi risultati.
L’ambiente purtroppo non è un farmaco
Come per la riabilitazione cognitiva, la ragione principale della scarsità della ricerca sugli interventi ambientali per la prevenzione e il controllo dei BPSD, è la mancanza di una “lobby” pronta a finanziare studi di confronto, condotti in singolo cieco tra diversi tipi di soluzioni ambientali nella loro interezza o nei loro elementi costitutivi (Cester et al., 2000). Non per niente, la International Psychogeriatric Association include nel calendario delle future ricerche l’approfondimento delle relazioni tra BPSD e ambiente (Brodaty e Finkel, 2003). Un altro motivo, non di secondaria importanza, è la tendenza a non pubblicare risultati negativi (Richards e Beck, 2004).
Interventi ambientali puntiformi
Come per la riabilitazione cognitiva, la ragione principale della scarsità della ricerca sugli interventi ambientali per la prevenzione e il controllo dei BPSD, è la mancanza di una “lobby” pronta a finanziare studi di confronto, condotti in singolo cieco tra diversi tipi di soluzioni ambientali nella loro interezza o nei loro elementi costitutivi (Cester et al., 2000). Non per niente, la International Psychogeriatric Association include nel calendario delle future ricerche l’approfondimento delle relazioni tra BPSD e ambiente (Brodaty e Finkel, 2003). Un altro motivo, non di secondaria importanza, gli interventi ambientali si basano sul principio che un malato di demenza non è più in grado di adattarsi e quindi è l’ambiente che deve essere adattato ai bisogni specifici del malato (Brawley, 2001).
Come illustrato nella tabella 1, una parte della ricerca si limita ad obiettivi puntiformi. Si tratta di modifiche ben precise dell’ambiente focalizzate su un comportamento specifico, come ad esempio, l’iperattività locomotoria, senza considerare che la sua manifestazione clinica cambia notevolmente nel decorso della demenza (Hope et al., 2001) e che molteplici cause possono alimentare e mantenere i vari sottotipi di dromomania (De Vreese, 2004). Inoltre, nessuno di questi studi riporta dati precisi sulla stadiazione dei malati. Un malato che manifesta da poco tempo doppia incontinenza non è certo paragonabile in termini “cognitivi” ad un malato con pannolone che conserva la capacità di deambulare, ma è ormai privo di linguaggio significativo da due anni (Cester e De Vreese, 2004)! Non vengono inoltre menzionate tante altre variabili, quali la compresenza di altri tipi di BPSD, il rapporto numerico tra operatore/malato, il livello di formazione o di burn out del personale, per citarne solo alcune. L’insieme di queste variabili concorre senza dubbio a spiegare i dati a volte contradditori e obbliga il lettore critico ad interpretare l’efficacia degli interventi sull’ambiente con grande cautela. è la tendenza a non pubblicare risultati negativi (Richards e Beck, 2004).
Definizione troppo generica del sintomo-bersaglio
Altri studi, invece, scelgono l’agitazione come bersaglio degli interventi ambientali (Tab.1). Una delle definizioni più accreditate dell’agitazione è quella proposta da Jiska Cohen-Mansfield che comprende tutte le “attività verbali, vocali e motorie inappropriate che non vengono percepite da un osservatore esterno come derivanti direttamente da bisogni o confusione dell’individuo agitato” (Cohen-Mansfield, 1986). Tuttavia, essa contiene un salto fenomenologico, potenzialmente pericoloso in termini diagnostici, in quanto insinua l’esperienza “soggettiva” dell’osservatore sul comportamento del malato. Per esempio, cosa significa “agitazione non derivante da bisogni o da confusione” in un malato Alzheimer, doppiamente incontinente, senza linguaggio, che girovaga in casa o in un nucleo, magari aprendo tutte le porte che cadono nel suo campo visivo? Come si può essere sicuri che questo comportamento non sia innescato da qualche “bisogno”? E che cosa si intende esattamente con “confusione”, “errori di navigazione visivo-spaziale”, “distrazione ed incapacità di tenere a mente le proprie intenzioni”? L’uso di termini troppo generici come “agitazione” rischia di invalidare la letteratura come strumento guida nella scelta degli interventi non farmacologici (Snowden et al., 2003), perché i sintomi che possono rientrare sotto questo termine “ombrello” sono troppo variegati (Fig. 1).
La neurologia comportamentale e la demenza
Non dimentichiamo che una demenza progressiva rimane innanzitutto una malattia neurologica, indipendentemente dallo stadio di malattia. Purtroppo, il ruolo della neurologia comportamentale, intesa come lo studio di alterazioni mentali e comportamentali indotte da una patologia del sistema nervoso centrale, è a tutt’oggi misconosciuto nella gestione dei malati di demenza. Il non riconoscimento di alcuni disturbi prettamente neurologici crea aspettative non realistiche nei confronti degli interventi ambientali o induce ad interpretare alcuni sintomi in termini non cognitivi, quando in realtà sono di natura neurologica, e quindi poco o per niente correggibili.
Disturbi della percezione, attenzione e consapevolezza
Oltre alle varie forme di agnosia sensoriale unimodale (agnosia visiva per gli oggetti, agnosia topografica, prosopoagnosia, anosmia, stereoagnosia, agnosia uditiva e dei colori) caratterizzate da una incapacità di cogliere le caratteristiche sensoriali dello stimolo e di integrarle in una percezione strutturata (agnosia appercettiva) oppure da una incapacità di avere accesso al patrimonio di nozioni funzionali, fisiche, categoriali dello stimolo (agnosia associativa), si altera prima o poi in tutti i malati di demenza, il sistema di referenza centrato sul corpo per le azioni motorie (Feinberg e Farah, 1997).
Questo sistema garantisce una corretta elaborazione di informazioni sulla configurazione e sulla posizione delle varie componenti del corpo, necessarie alla pianificazione ed alla esecuzione dei movimenti e gesti verso gli stimoli esterni. Una sua compromissione porta a somatoagnosia (disturbo della conoscenza dei rapporti spaziali tra le varie parti del corpo umano), alterazione del flusso ottico (il movimento visivo viene percepito come il risultato del proprio movimento nello spazio), sindrome di Balint (Feinberg e Farah, 1997). E’ chiaro che questi disturbi possono seriamente inficiare l’efficacia degli interventi orientati all’ambiente di cui sopra e non solo! Si immagini un malato di demenza con uno o più dei disturbi percettivi; come fa a seguire le cosiddette wandering paths in un Giardino Alzheimer?
La sindrome disesecutiva
Le funzioni esecutive rappresentano uno degli aspetti più complessi della cognitività umana (Baddeley, 1998) e sono precocemente compromesse nella demenza progressiva, qualunque sia la sua eziologia (Royall, 2000). Secondo Salthouse et al. (2003) le funzioni esecutive si basano su almeno tre processi fondamentali: la capacità di aggiornare continuamente le rappresentazioni interne di informazioni provenienti da un ambiente per definizione dinamico; la capacità di coordinare due o più attività concorrenti; la capacità di inibire certe riposte indotte dalle abitudini, dalla familiarità o da processi cognitivi già avviati. La sindrome disesecutiva si evidenzia anche nella sfera non cognitiva. Essa è responsabile di sintomi in difetto (ad es., incapacità di esprimere desideri e iniziative, di creare ipotesi alternative) e in eccesso (ad es., incapacità di tollerare le frustrazioni e le limitazioni o di modulare le reazioni di difesa) (Elias e Treland, 2000).
Se a questi disturbi si aggiunge la perdita del condizionamento operante per stimoli nocivi (Hamann et al., 2002), si capisce l’estrema difficoltà a prevenire o controllare il comportamento nel malato di demenza mediante accorgimenti ambientali. Ad esempio, la gravità della demenza, la presenza di alcuni BPSD (dromomania, aggressività verbale) e la convivenza con altri ospiti simili (nucleo specialistico per le demenze), incrementano significativamente il rischio di ripetuti infortuni inflitti da altri residenti (Shinoda-Tagawa et al., 2004). Le “vittime” non riescono a correggersi a causa di un deficit della memoria sia esplicita (il ricordo cosciente dell’accaduto) che implicita (condizionamento operante), mentre gli “aggressori” anch’essi smemorati, agiscono con violenza ogni volta che gli si invade lo spazio personale, immemori delle conseguenze delle proprie azioni.
La sindrome del sole calante
Clinicamente la sindrome si manifesta con la comparsa (sub)acuta di irrequietezza, ansia ed altre forme di comportamento agitato nelle ore pomeridiane e/o serotine. Un ritardato picco della temperatura corporea ed una elevata secrezione di cortisolo nel pomeriggio (Hatfield et al., 2004) fanno ipotizzare un’alterazione del ritmo circadiano regolato dal nucleo soprachiasmatico. L’intensità della sintomatologia dipende in parte anche da una tollerabilità allo stress che decresce con l’avanzare della giornata (Hall e Buckwalter, 1987). Tra le variabili che peggiorano l’intolleranza allo stress figurano stanchezza fisica da dissonnia cronica, noia e varie forme di sconforti fisici (Richards e Beck, 2004). Una adeguata illuminazione dell’ambiente può ridurre la frequenza e la gravità dei fenomeni dispercettivi (De Vreese, 2004). Un ambiente tranquillizzante che rispetta un giusto equilibrio tra stimolazione-riposo può migliorare la tollerabilità allo stress (Smith et al., 2004). Per contro, interventi ambientali risultano scarsamente efficaci nel prevenire o controllare le confabulazioni spontanee presenti durante il sundowning. Le confabulazioni spontanee nel malato di demenza, descritte anche nei cerebrolesi amnesici (Schnider, 2003), e spesso confuse con i deliri, nascono da una incapacità del malato di sopprimere esperienze e abitudini del passato interferenti così con l’interpretazione e la pianificazione della realtà in corso.
La comorbilità complicata da demenza
Da un recente studio retrospettivo condotto sugli ospiti ammessi al NSD (Nucleo Specialistico per le Demenze) presso la RSA IX Gennaio, è emersa un’ associazione statisticamente significativa tra la gravità dei BPSD e una maggiore comorbilità somatica e il conseguente carico assistenziale infermieristico, indipendentemente dall’uso degli psicofarmaci (Garuti, 2004). Questo dato conferma ancora una volta l’intersecarsi dei BPSD che aggravano e complicano ulteriormente le patologie somatiche concomitanti o intercorrenti o viceversa. Gli interventi orientati all’ambiente esterno servono a poco se non si aggiusta prima l’ambiente “interno” del malato!
Conclusioni
Queste riflessioni non intendono assolutamente fare tabula rasa sugli interventi ambientali nella demenza, bensì invitano ad applicarli con una maggiore razionalità. Se essi vogliono essere considerati una “vera terapia”, devono essere somministrati con cura, monitorando la loro sicurezza, la loro tollerabilità e la loro efficacia. Questo obiettivo può essere raggiunto solo se si tiene conto del malato (del suo vissuto, del suo carattere premorboso), della sua demenza (stadiazione, disturbi (non)cognitivi specifici) e del suo stato fisico (comorbilità). E’ una sfida non facile perché la demenza è una malattia complicata e complessa, ma che può essere vinta se si rispettano i bisogni universali dell’uomo. Ricordiamolo, un ambiente non è ambiente senza un cuore…! (Calkins e Marsden, 2000).
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