1 Giugno 2005 | Strumenti e approcci

Le persone affette da demenza: da curare o da custodire ?

Le persone affette da demenza: da curare o da custodire?

Se è vero, come dice Ippocrate, che non esistono malattie sacre, è pur vero che la malattia di Alzheimer scardina molti dei punti di vista tradizionali della medicina. Non solo a causa della “non guarigione”, ma anche per molti altri aspetti: la non reversibilità del deterioramento ed il coinvolgimento del nucleo famigliare, la sua durata (media 10 anni), la comparsa di disabilità fisica e psichica, l’instabilità clinica e comportamentale. Spesso di fronte a questo malato il medico dice: “È malato di Alzheimer, non c’è più nulla da fare”; al contrario lo scopo di questo articolo è di portare ad affermare “È malato di Alzheimer, quindi c’è moltissimo da fare”.

 

Un modo di ammalare e non un modo di invecchiare

La diffusione della demenza fra gli anziani, può portare ad attribuire questa etichetta a qualunque disturbo intellettivo della vecchiaia, a considerare quindi la demenza quasi “un modo di invecchiare” invece che “un modo di ammalare”: si finisce per trattare tutti gli anziani, specie se disabili, come dementi. Non è vero; invecchiare non significa diventare demente: anche se certamente con l’età vi sono dei mutamenti nella nostra mente di cui tenere conto. Ad esempio la memoria cosciente e “di richiamo”, cioè in grado di rievocare informazioni depositate, diminuisce la sua efficienza. Certe abilità di analisi visiva o di abilità manuali richiedono più tempo ed impegno specie se devono essere acquisite ex novo, e in generale si è più efficaci nelle connessioni fra i concetti, che non nell’acquisizione o creazione di nuovi sistemi concettuali. La mente invecchiando un pò cambia, divenendo sempre più selettiva rispetto alle nuove informazioni, ma anche più capace di metterle in relazione fra loro e di approfondirne il significato.

 

Occorre anche tenere presente che la fine dello sviluppo fisico non implica affatto la fine dello sviluppo psichico, come testimoniano decine e decine di artisti di tutte le epoche, che ci hanno regalato prodotti intellettuali meravigliosi in età senile (per citare: la “pietà Rondanini” di Michelangelo, o i film di Billy Wilder ugualmente lo testimoniano, ma per un discorso più ampio, vedi lo studio di Antonini e Magnolfi “L’età dei capolavori” Marsilio editore). È quindi un “dovere etico” fare la diagnosi e, quando siamo di fronte a mutamenti delle funzioni cognitive, saper distinguere se questi sono compatibili con l’invecchiamento o se è intervenuta una malattia, una demenza. L’anziano con demenza va trattato quindi come un malato da curare.

 

Il quadro clinico della demenza

Per meglio capire e interpretare i problemi clinici posti dalla demenza, possiamo seguire due metodi, entrambe utili:
Primo metodo: possiamo suddividere i sintomi della malattia per gruppi omogenei:

  • Disturbi cognitivi: la perdita di memoria , il disorientamento spazio temporale, etc.
  • Disturbi non cognitivi:
    – psichiatrici: allucinazioni, deliri, ansia
    – comportamentali: il vagabondaggio, insonnia, ansia, affaccendamento, richieste continue.

Disturbi non cognitivi rilevati nei pazienti afferenti al Nucleo Alzheimer

Tabella 1 – Disturbi non cognitivi rilevati nei pazienti afferenti al Nucleo Alzheimer. La somma è >100, in quanto più di un disturbo era presente nella stessa persona.

 

Secondo metodo: per meglio seguire la diversità del quadro clinico, e la sua gravità nel tempo, Riesberg ha elaborato un sistema di classificazione degli stadi della malattia basato sulla “retrogenesi”(Reisberg et al., 1999), cioè sulla involuzione tendenzialmente stereotipa della demenza di Alzheimer, che ripercorre a ritroso le tappe dello sviluppo, specialmente secondo la descrizione che ne dà Piaget.

 

Global Deterioration Scale
Tabella 2 – Global Deterioration Scale (Reisberg et al.,1982)

Le dimensioni del problema

Le ultime stime di prevalenza della demenza in Italia riportano che il 9% degli ultrasessantacinquenni è affetto da questa malattia, anche se altri studi danno prevalenze minori (studio “Appignano”: 6,7%). Ipotizzando che un medico di famiglia assista 1500 italiani, 240-255 avranno un’età superiore ai 65 anni (16-17%), circa 20 saranno dementi e 10-12 avranno la malattia di Alzheimer. La Malattia di Alzheimer rappresenta il 50-60% di tutte le demenze. In Italia si può stimare che 430.000-450.000 persone siano affette da malattia di Alzheimer e, si prevede che il loro numero raddoppi entro il 2020 (Documento di Consenso, 1999).

 

Fra gli anziani ricoverati nelle residenze, si arriva al 50% di prevalenza di gravi disturbi cognitivi variamente distribuiti, (31% di Demenze più 7% di Demenze con necessità “intensive”, secondo una ricerca del 1998/99 in 7000 residenti di RSA Lombarde). Nella RSA Golgi il 65% dei degenti presenta il sintomo “confusione” poichè parzialmente o totalmente disorientato nel tempo o nello spazio. Il 40% delle persone in RSA, al di fuori del nucleo Alzheimer, presenta una demenza vascolare o di Alzheimer. Queste percentuali si ritrovano aggravate nelle liste di attesa, per cui si può ipotizzare che in futuro siano destinate ad aumentare (in una ricerca condotta in Lombardia su di un campione rappresentativo di 3000 anziani nel 1999/2000, risultava un rischio di 9 volte maggiore di istituzionalizzazione per chi aveva disturbi cognitivi; secondo dati internazionali il rischio attribuibile alla demenza per l’istituzionalizzazione è del 61%) (Aguero-Torres et al., 2001). Sarà quindi un numero rilevante di malati affetti da demenza quello con cui, anche nel prossimo futuro dovremo confrontarci.

 

Che fare: la proposta del “Gentlecare”

Come per molte altre condizioni croniche e ingravescenti, viene da chiedersi qual’è l’obiettivo di cura per le demenze? Solo custodire i malati? Il tentativo di dare una risposta che superasse il modello “custodialistico”, assistenziale e passivo, ne ha generati due, entrambi insufficienti:

  • Il “modello clinico” centrato sulla cura della malattia, che contiene il rischio di una supervalutazione della diagnosi e che ha portato spesso a confondere mezzi e fini
  • il “modello fisiatrico”, allenante, centrato sul recupero e la rieducazione funzionale, sul riapprendimento, sul miglioramento della prestazione: più intrigante, ma possibile fonte di frustrazioni e di effetti negativi per il malato.
  • La “terza via” è quella proposta dal “Gentle care”, che individua come obiettivo il benessere del malato e di chi gli sta vicino, e come metodo la costruzione di una protesi di cura, costituita da spazio fisico, persone, attività: protesi complessa come complessa è la funzione cerebrale che deve sostenere e sostituire (Jones, 1999).

Il modello protesico di promozione del benessere permette di confrontarsi con l’irreversibilità della perdita intellettiva globale causata dalla demenza, senza rinunciare ad avere obiettivi, ma anche senza perseguire all’infinito prestazioni impossibili, cosicchè la qualità dell’intervento può essere misurata dai risultati concreti prodotti nella vita dei malati. L’assunto paradigmatico del “Gentlecare” è che il benessere è possibile, a patto di costruire su questo obiettivo la relazione fra malato e ambiente: qualunque situazione di distress va evitata e non è giustificata; anzi è la causa fondamentale dei disturbi comportamentali del malato che a loro volta sono causa di grave stress per i caregiver.

 

Nel paradigma biomedico/clinico la causa dei disturbi comportamentali della demenza va cercata nella malattia, nel paradigma protesico il motivo va ricercata in un errore nella relazione fra la persona con demenza e l’ambiente. Nel sistema protesico i disturbi del comportamento non sono considerati un “sintomo “ della malattia, ma il segno di uno stress, creato dal divario fra ciò che la persona può dare e ciò che l’ambiente richiede, situazione negativa sia sul piano psicosociale che su quello biopatologico (Orrell e O’Dwyer, 1995). L’obiettivo del “Gentlecare” è quindi di ridurre al minimo i disturbi del comportamento, vera origine della maggior parte del disagio personale e sociale e di aumentare il benessere del triangolo sociale (malato, famigliari, operatori professionali), trovando alternative ai sistemi di contenzione fisica e farmacologica, spesso abusati (Sloane et al., 1991).

obiettivi per la cura delle persone con demenza
Figura 1 – Rappresentazione schematica degli obiettivi per la cura delle persone con demenza

Nella figura 1: sono rappresentati gli obiettivi e le metodologie possibili per la cura della persona con demenza, nonché gli errori connessi. Ciascuna dimensione è in realtà presente e utile, ma genera errori quando viene considerata unica, principale o sufficiente. Solo il “benessere” riassume in maniera adeguata la globalità e l’ampiezza dei bisogni. L’assunto paradigmatico del “Gentlecare” è che il benessere è possibile, a patto di costruire su questo obiettivo la relazione fra malato e ambiente: il primo inteso in modo sistemico (la persona e la sua rete famigliare e sociale), il secondo in modo allargato e “protesico” (spazio fisico, persone, programmi ).

 

Vediamo in modo sintetico ed esemplificativo queste tre componenti:

Spazio fisico: gli elementi caratteristici dell’ambiente protesico sono la sicurezza, la familiarità, l’elasticità, il comfort, la chiarezza del messaggio d’uso dello spazio. Insomma un ambiente di tipo semplice, domestico, non hi-tech. Talvolta per coniugare elementi fra loro contrastanti, come sicurezza e libertà, occorre anche usare un’alta tecnologia, ma in questo caso occorre mascherarla (es: letti variabili in altezza ma di legno, sistemi di allarme silenziosi etc.) (Colombo et al., 1998). Ogni elemento di sicurezza ambientale si traduce in uno spazio di libertà per il malato e in una minor necessità di sorveglianza o contenimento (minor stress per malato e caregiver). Ma l’obiettivo non è evitare problemi, ma dare benessere. Non basta quindi che l’ambiente sia sicuro, occorre che sia anche possibile viverlo come piacevole. Per questo è necessario che sia chiaro e familiare il messaggio d’uso che ogni ambiente suggerisce, che vi sia bilanciamento fra spazi privati e possibilità di socializzazione “informale”, che vi sia elasticità ed adattabilità degli spazi.

 

Persone : Di solito con il termine “personale di cura” si intende solo il personale professionale che fa parte dell’equipe di cura, nel nucleo o a domicilio. Questo nella cura in RSA è una visione troppo ristretta e vanno considerate “persone” che curano, a pieno titolo anche i parenti, i visitatori, i volontari; a costoro va rivolta la stessa attenzione formativa e informativa. Se assicurare benessere è il fine della protesi, il benessere di chi cura è un elemento fondamentale del successo dell’approccio, dal momento che non si può dare ad altri ciò che non si ha. Un elemento critico della protesi-persone è rappresentato dai famigliari dei degenti. Il fine dell’equipe è di realizzare una “alleanza terapeutica” con la famiglia, che va continuamente coinvolta e informata, evitando sempre che abbia una sensazione di essere “invisibile” all’equipe di cura. Ciononostante resta un obiettivo difficile da perseguire. In una inchiesta condotta sul personale di cura del nostro istituto nell’anno scorso (1999/2000), uno dei principali aspetti “problematici” segnalati dal personale era proprio il rapporto con la famiglia, mentre non vi era lo stesso rapporto difficile con i degenti o gli altri operatori, medici compresi.

 

Attività, programmi: Con questi termini, ci si figura un elenco di iniziative, di attività di gruppo, di animazione. In RSA invece vanno considerate come “attività” innanzi tutto le attività “primarie”: mangiare, lavarsi, vestirsi… e poi le attività “necessarie”: riposare, dormire, avere momenti di privacy…; attività “essenziali”: muoversi, comunicare; attività “significative”: tutto ciò che va dal lavoro al gioco. Tutto può essere valorizzato come attività o svilito ad “assistenza” a seconda del modo con cui viene fatto. Il punto sta nella relazione fra le persone, che può essere o meno gratificante a seconda di come viene fatto. È in fondo la giornata normale che va riempita di occasioni, che siano come delle domande individuali cui il malato risponde con delle attività. Vedere cose e persone è un’ottima attività, parlare anche, così come camminare: prima di tutto occorre assicurare possibilità e significato alle attività fondamentali e necessarie. È poi naturalmente importante anche l’organizzazione delle attività espressive, creative. Disegnare, cantare, giocare, ballare, fare musica, ma anche cucinare, far lavori a maglia, eseguire piccola meccanica etc. a seconda delle persone e della gravità della malattia, avendo però come modello una bella giornata di vacanza e non una giornata lavorativa. Non dimentichiamo che per una persona disabile è estremamente difficile partecipare alla vita che tutti consideriamo “normale” se non garantiamo che il flusso di questa normale vitalità non passi loro accanto (Guaita, 2000).

 

Conclusione

Tutte le peggiori paure che circondano la vecchiaia sembrano confermate dalla demenza, che rischia così di configurarsi come un paradigma dell’intrattabilità, ma anche dell’associazione di fragilità psichica e fisica: quasi una sfida continua alle regole della vita sociale e alla possibilità di cura. Di conseguenza questi malati diventano delle persone fuori posto ovunque, perché non corrispondono certamente al canone “dell’invecchiamento normale”, ma neppure a quello del “malato”, così come lo vede il Servizio Sanitario Nazionale. Non c’è un luogo adatto a loro: non la loro casa, non la loro città, non i servizi sociali , non quelli sanitari, tutto è a loro estraneo.

 

L’applicazione di un approccio protesico alla cura della demenza ci ha invece permesso di ridurre del 50% i sintomi più disturbanti, per gravità e frequenza, quelli comportamentali, senza aumento di consumo degli psicofarmaci e con un significativo minor uso di sedativi. Contemporaneamente ha permesso anche di ridurre lo stress dei famigliari così da consentire in un alta percentuale di casi il rientro al domicilio, dopo un periodo di ricovero presso il nucleo. Davvero per le persone affette da demenza, “c’è moltissimo da fare”.

Bibliografia

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Aguero-Torres H., Von Strauss E., Viitanen M., Winblad B., Fratiglioni L. “ Instituzionalization in the elderly: the role of chronic diseases and dementia. Cross- sectional and longitudinal data from a population based study “ J Clin Epidemiol 2001; 54:795 – 801

Colombo M., Vitali S., Molla G., Gioia P., Milani M. “The home environment modification program in the care of demented elderly : some examples” Arch Gerontol Geriatr; suppl. 6 : 83 – 90; 1998.

Documento di Consenso della Società Italiana di Neuroscienze , Expert Panel Alzheimer 1999.

Guaita A. “I “Nuclei speciali di cura “per i malati di Alzheimer ed altre demenze: indicatori di qualità dell’intervento” Giorn Geront 48: 42 –47, 2000.

Jones M. “GentleCare: Changing the Experience of Alzheimer’s Disease in a positive way” Hartley & Marks, Vancouver, BC, Canada, 1999.

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Reisberg B, Ferris SH, de Leon MJ, Crook T. The Global Deterioration Scale for assessment of primary degenerative dementia. Am J Psychiatry 1982 139: 1136-1139.

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Sloane P.D., Mathew L., Scarborough M. “Physical and chemical restraint of dementia patients in nursing homes : impact of specialized units”. JAMA 265 : 1278, 1991.

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