5 Ottobre 2018 | Residenzialità

L’accoglienza e la presa in carico dell’ospite e della sua famiglia oggi nelle RSA

L’accoglienza e la presa in carico dell’ospite e della sua famiglia in RSA appartiene al sistema procedurale delle RSA ma in esso non può esaurirsi. È un percorso continuo che si muove nel divenire poiché l’assistente e l’assistito vivono la trasformazione della quotidianità. Oggi più che mai i luoghi di cura debbono passare da una identità fisica ad una identità di relazioni e, attraverso i gesti, aprirsi ad una esperienza propriamente umana che definisce l’uomo stesso.


“La conobbi agli inizi degli anni novanta, a Roma, mentre studiavo e frequentavo per tirocinio una struttura per anziani. Quasi al secolo, di origine austriaca, ultima allieva vivente di Jung, con il volto solcato da una infinità di rughe ma con due occhi vivaci e azzurri che la rendevano ancora una donna bellissima.

Arrivata in Italia a seguire un tardo amore era poi rimasta sola e confinata in un letto da cui non poteva più muoversi. Rassegnata alla sua condizione, combatteva una battaglia quotidiana col personale per bere un goccio di Rum del quale, inspiegabilmente, il suo comodino era sempre fornito.

Era un Istituto di cura ben organizzato, candido e piacevole, immerso in un bel giardino verso il quartiere Trionfale. E una mattina, mentre le porgevo il caffè nel consueto bicchierino del distributore automatico, disse: “ non so cosa darei per bere un caffè in una tazzina di ceramica e sentirmi ancora donna”.

 

Le trasformazioni dei luoghi di cura

Il termine più antico che sopravvive nell’oggi circa la scelta o la necessità di andare a vivere in un luogo di cura è “ricovero”. Come se ci trovassimo nell’alto medioevo su una delle grandi vie di pellegrinaggio verso il centro della cristianità. E questo ricovero, al tempo, non assumeva certo dimensioni di cura clinica ma rifugio, protezione, sicurezza, charitas e pietas. Se ci fermassimo al linguaggio potrebbe sembrare ancora cosi. Ci ricoveriamo in ospedale e ci ricoveriamo in una RSA.
Ma i luoghi di cura delle persone anziane sono cambiati, abbandonando sempre più l’immagine di un luogo di muri e divenendo sempre più un luogo di processi e relazioni.

 

E’ obsoleto il dibattito sulla bontà o meno di esistenza delle RSA, ed è altrettanto superata la concezione di una RSA come un luogo a parte chiuso e autoreferenziale. Il mondo delle RSA – pur nelle nutrite differenze regionali – è oggi consolidato nelle sue strutture, tutelato da standards qualitativi, assicurato dalla vigilanza degli enti preposti. I dati di ricerca descrivono anzi una situazione per la quale l’anziano non autosufficiente ha migliori probabilità di sopravvivenza in RSA che a casa. Eppure le RSA si trovano di fronte a nuove domande che definiscono il luogo non come fisico. Sono domande di senso che chiamano l’approccio multidisciplinare ad interrogarsi sul progetto personalizzato per ogni ospite. Sono domande che coinvolgono i familiari in un sistema fragile che, di fronte alla non autosufficienza, manifesta le contraddizioni delle famiglie. Sono, in sintesi domande che appartengono alla relazione e non al luogo fisico. L’accoglienza e la presa in carico dell’ospite e della sua famiglia in RSA è un richiamo al vivere.

 

Accogliere per vivere: io, te, noi

Prendersi carico è vivere.
Uso il termine accogliere perché esso è paradigma e sinonimo del vivere. Nella quotidianità non credo sia immaginabile la vita di ciascuno di noi senza pensare che noi stiamo vicino o c’è qualcuno che ci stia vicino, sia esso vissuto come benedizione o come maledizione.
Oggi viviamo la dilagante atrofia del sentimento e cioè una difficoltà nel vivere le relazioni che immaginiamo sempre più unidirezionali e orientate su noi. Ma l’uomo è animale eccentrico – non centrico – e scopre il senso di sé solo nella relazione con l’alterità. Anche il passaggio storico che si celebra nei nostri servizi dalla presa in carico versus una logica di tipo prestazionale confina la relazione ad un do ut des che riduce l’umano al rapporto costo-beneficio. Così questa società liquida, indefinita ed indefinibile, cerca sostitutivi al gesto assistenziale. Alla sua imponderabilità, alla sua sacralità pericolosa.
L’accogliere, il farsi carico, l’assistenza hanno solo il linguaggio del gesto.

 

Il gesto si sostanzia nelle due dimensioni storiche eccellenti: il tempo e lo spazio.

Nella relazione spazio-temporale l’assistenza infermieristica, come disciplina, ha un prima, un durante, un dopo. L’assistenza all’anziano prima di essere comportamento è attesa. L’assistenza in un nucleo di RSA è attesa che definisce la tensione esistente tra il bisogno di aiuto e la ricerca di possibili risposte, ancorchè in potenza. È altresì attesa poiché si manifesta, e sempre più nel vivere occidentale moderno, come ponte di congiunzione tra la persona e il mondo attorno, alla ricerca di equilibrio mai raggiunto nel “divenire”. La disciplina di cura, esaurita l’attesa, si realizza nell’ hic et nunc, attraverso il gesto. È l’adesso, l’oggi, l’azione. Il gesto non è un’azione. È qualcosa di più e di diverso. In ambito infermieristico, il gesto assume valore teorico di guida, indirizzo, senso, e relazione. Il gesto è luogo di senso sia per chi lo effettua e sia per chi lo riceve. I gesti di assistenza dicono la dignità della persona che abbiamo preso in carico, e danno significato al concetto di alterità. La persona che riceve un gesto non riceve solo una risposta alle proprie necessità, ma sente la sua dignità sollevarsi, il suo essere persona confermarsi, la sua vita gemere, anche nelle forme di maggior compromissione della coscienza. Inoltre il gesto fa nascere dignità anche in chi lo effettua e non solo a chi lo contempla ricevendolo. I gesti raccontano la voglia e la necessità dell’incontro, primo passo della realizzazione dello scopo disciplinare e quindi di qualsiasi apparato teorico. Un gesto apre quindi alla trascendenza del possibile. Il pensiero ed il gesto, uniti e riuniti, dicono l’essenza dell’accogliere in RSA: la scienza e la coscienza. Un gesto può calmare, può dare sicurezza, può esprimere partecipazione, può far sentire la speranza. Azioni quotidiane che raccontano quanto le parole non possono contenere. Gesti da gustare in silenzio. Come una tazzina di caffè in ceramica.

 

Ma il gesto è anche elemento teorico. Esso muta maggiormente rispetto al pensiero legandosi alle condizioni di contesto e alla individualità assoluta della persona presa in carico; esso raccoglie le informazioni necessarie all’inquadramento diagnostico terapeutico ed assistenziale; esso permette la personalizzazione dell’assistenza all’anziano; esso contribuisce, di sostanza, al raggiungimento dello scopo disciplinare. Esso è l’alfabeto dell’accogliere. Il gesto non è un semplice strumento ma un linguaggio, nel suo profondo significato ontologico ed epistemologico. Il gesto, può parzialmente essere misurato attraverso le azioni che in parte lo compongono pur non esaurendolo. Il gesto permane nel dopo. Il gesto cambia le due parti che lo hanno vissuto. Il cambiamento, se nasce da una valorizzazione della dignità, rende sia l’assistente che il destinatario, nuovi uomini, più consapevoli di sé e del loro essere nel mondo. E così con le famiglie che vivono il senso di colpa della delega dell’assistenza del proprio affetto.  Una scienza ed un vivere sociale come quello attuale assume la paura del gesto poiché esso mina il prevedibile, l’esatto, il certo. L’unica possibilità per dare senso alla cura per l’altro, nella dilagante fragilità assistenziale in cui viviamo, è partire dai piccoli gesti quotidiani.

 

Non c’è assistenza senza senso e significato. Chi pensa che bastino tutte le linee guida, le procedure, le evidenze scientifiche, i linguaggi, i sistemi di classificazione e quanto sia e non arriveranno mai a sollevare il senso e a cogliere l’alterità. Così è la vicenda del più grande scienziato dell’XIº: Hermann di Reichenau 1.

Quest’uomo, che nasce morente perché è sgraziato e verrà chiamato il ratratto, nasce talmente deforme che non è in grado di stare in piedi. Egli viene portato in un monastero perché la madre e il padre, nobili, non se la sentono di ucciderlo di farlo sopprimere. Questa è la vicenda del più grande astronomo medievale. Alla fine della sua vita, di tutto ciò che è stato, della esperienza religiosa ed umana, a lui rimarrà il ricordo di soli due gesti assistenziali che si sono sostanziati per lui come definizione della vita stessa. Il primo, quando la madre va a vederlo per la prima volta dopo vent’anni che l’ha partorito: lei gli toccò i capelli come una madre fa con suo figlio con quel gesto unico al mondo il gesto che è stato calibrato dei secoli dei secoli nel buio e poi dalla collisione delle prime stelle e dal sollevarsi e ritrarsi delle maree gesto preparato dai venti quando il mondo era disabitato e che solo gli uomini possono fare, loro che sono niente l’universo, spostare i capelli dal viso del figlio non gli si può evitare niente nessuna pena vera nessun pensiero nessuna solitudine si possono solo spostare i capelli del viso e sua madre lo fece. E un altro gesto che lui ricorderà sempre in fin di vita è quello del suo abate che ormai in fin di vita dice si curva sollevando il ragazzo lentamente non ha mai tenuto in braccio nessuno mentre muovendo i primi passi pensa in un duro lampo che essi forse questo è tutto il suo compito.

 

Una particella “ri”

Assistere è l’infinita pazienza di ricominciare. Ogni giorno, ripartire da capo. E la dove ti eri seduto, rialzarti. Salpare a ogni alba verso isole intatte. Ma non per giorni che siano fotocopia di altri giorni, non giorni del passato ma giorni del presente e del futuro. E utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza, contro ogni abitudine. E’ quella piccola sillaba “ri” che dice che nulla è già fatto e visto, che c’è un sogno nuovo, pur nella quotidianità del tempo.
La meravigliosa assistenza alle persone anziane in RSA, suggerisce che noi andiamo di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi.
Una relazione di scienza e coscienza, senza nessuna divisione ammessa, laddove, nel XXI° secolo, questa piccola congiunzione “e” rimane la chiave esplicativa del rapporto epistemico. L’infinita pazienza di ricominciare indica anche un secondo punto di vista che è topos dell’assistenza all’anziano e a suoi familiari. Accettare la fragilità propria e la fragilità dell’altro.  Oggi rischiamo di vivere un nuovo riduzionismo che definisce la fragilità come deficit. È pericolo forte. La fragilità è, unitamente alla dignità, sacra caratteristica della dimensione ontologica dell’Uomo e condizione fondante di interdipendenza che giustifica lo stesso concetto di assistenza. Da Nietsche fino a Agostino, la fragilità è la migliore caratteristica che ci definisce e situa nell’universo.
L’assistenza e la presa in carico trovano la loro radice storica in questo continuo nuovo inizio di generazione.

 

Conclusioni

Una bella metafora di Martin Heidegger dice che l’uomo è un’isola. La mia vita è come un’isola, io la percorro tutta, la spiaggia, i promontori, le insenature, e quando ho terminato il periplo dell’isola e torno al punto di partenza, mi accorgo di una cosa: che là dove finisce l’isola comincia l’oceano. Che il confine dell’isola è l’inizio dell’infinito. E’ altro. E l’oltre. Basta il piccolo gesto di una tazzina in ceramica perché l’altro faccia una esperienza di identità umana. Vedi, fermati e tocca. Le persone così non potranno essere declassate a problema, ma diventeranno fessure di infinito. Così l’uomo, l’anziano vulnerabile, tornerà ad abitare.

Note

  1. Rondoni D. (2010), Hermann. Una vita storta e santa puntata alle stelle. BUR Rizzoli

Bibliografia

Rondoni D. (2010), Hermann. Una vita storta e santa puntata alle stelle, BUR Rizzoli.

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