11 Aprile 2019 | Programmazione e governance

Cosa possiamo imparare dal Rapporto OECD

Dopo gli articoli che illustrarano i contenuti del Rapporto OECD “Care Needed: Improving the Lives of People with Dementia” – in particolare la sintesi delle principali evidenze offerta da Giselda Rusmini e il riepilogo dei contenuti di maggiore interesse proposto da Veruska Menghini e Giselda Rusmini – il contributo di Marco Trabucchi offre una lettura dei messaggi che se ne possono trarre per il nostro Paese.

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Nel tempo del pessimismo ben venga ogni forma di stimolo a pensare ai grandi temi del nostro tempo: la demenza è certamente tra questi. E l’OECD è un organismo di grande prestigio che aiuta la crescita di responsabilità e idee originali.

 

Gli organismi internazionali hanno la funzione di offrire uno sguardo più ampio rispetto a quelli delle singole nazioni; spetta poi a queste utilizzare le indicazioni fornite, senza ritenere che siano violazioni della sovranità nazionale! Purtroppo, peraltro, l’Italia non ha molto da difendere rispetto a quanto realizzato nel campo delle demenze, anche perché dopo il piano Cronos che ha indotto la nascita di circa 500 Unità di Valutazione Alzheimer (evento che ci ha posto per alcuni anni all’avanguardia in Europa) è seguito il Piano Nazionale Demenze, che però non ha indotto l’attesa (e doverosa!) fioritura di provvedimenti e iniziative a livello regionale. A questo proposito, chi scrive, regionalista da sempre, ritiene che rispetto alle grandi patologie si debba agire a livello nazionale, sia per quanto riguarda gli aspetti della ricerca di base e clinica, sia per quanto riguarda la strutturazione di centri di eccellenza, incaricati di sperimentazioni sulla migliore organizzazione del sistema clinico e di assistenza e di svolgere una funzione assistenziale di alto livello per patologie particolarmente complesse.

 

Nel tempo della possibile disassuefazione dalla cura delle persone affette da demenza, indotta dalle ripetute crisi delle speranze di scoprire farmaci in grado di prevenire o bloccare la malattia, un contributo come quello offerto dall’OECD rappresenta un segnale di speranza; il cittadino e l’operatore, impressionati dalla sequenza di fallimenti, potrebbero farsi guidare da una logica depressiva che – sebbene in modo non volontario – si riflette anche sulla prassi assistenziale. Ma ancor più si potrebbe riflettere sul vissuto quotidiano di chi ogni giorno si prendere cura dell’ammalato, con grandi fatiche fisiche e psicologiche (la famosa “giornata di 36 ore”), perché questi vedrebbe solo buio nel buio. Inoltre un’atmosfera generale di disattenzione rischia di coinvolgere anche il mondo politico, già di per se distratto rispetto a queste problematiche; in un paese normale un Rapporto dell’OECD sarebbe osservato e studiato con attenzione; da noi invece si sprecano finanziamenti in opere inutili e costose, il cui finanziamento sottrae all’area dell’anziano fragile una notevole disponibilità di denaro (si pensi alle ricadute potenzialmente positive che si sarebbero ottenute dedicando i finanziamenti della quota 100 ai servizi, a meno che tra gli effetti non previsti vi sia quello – peraltro improbabile – di indirizzare i neopensionati sessantaduenni alla cura dei loro genitori molto vecchi!).

 

Partendo da questo scenario, cosa indica di originale il Rapporto OECD che possa essere utile a chi studia, ma anche a chi agisce concretamente nella cura delle persone affette da demenza?

 

In queste righe quindi non mi soffermo su quanto è già largamente noto, ma su quanto riveste un certo grado di novità, sia per indurre comportamenti virtuosi, sia per stimolare discussioni ed elaborazioni volte a costruire una possibile futura innovazione. Non dobbiamo dimenticare che, anche se in una prospettiva non immediata, sono ancora molte le molecole nella pipeline delle aziende, sulle quali si ripongono speranze serie e motivate; non siamo quindi alla “fine del mondo”, ma a un nuovo inizio, faticoso e difficile, ma certo.

 

La priva novità importante è il titolo “Care needed”; invece dei consueti ricorsi all’epidemiologia per suscitare attenzione, l’OECD parte dal bisogno per “migliorare le vite delle persone affette da demenza”. E’ un’indicazione precisa, che rappresenta “a moral necessity and an economic imperative”; si sottolinea il fatto che le due esigenze vengono indicate assieme, perché tra loro strettamente legate, sia dal punto di vista programmatorio sia da quello dell’evitare interventi inutili e quindi sprechi. Questi ultimi sono estremamente negativi non solo sul piano economico, ma anche perché diffondono la coscienza che si tratti di un ambito dove non c’è più nulla da fare e quindi si procede per tentativi, incuranti della rilevazione di risultati positivi.

 

L’aspetto diagnostico viene trattato in modo marginale, perché la revisione delle indicazioni che si sono succedute negli ultimi 15 anni da parte di diversi gruppi di lavoro non portano ancora a una conclusione. Appare però sempre più chiaro che se si vuole realizzare veramente una medicina personalizzata anche nel campo delle demenze è necessario tenere conto di tutti i diversi fattori che concorrono alla sua storia naturale: partendo dalla genetica vanno considerate le molte realtà che caratterizzano la vita, dalle patologie somatiche, alla depressione, ai fattori psicosociali, come la solitudine e la povertà. In particolare nell’età più avanzata (oltre gli 85 anni) il ruolo della genetica (e quindi del substrato biologico) sembra perdere incisività rispetto al complesso delle circostanze che hanno accompagnato una lunga esistenza.

 

Il Rapporto prende in esame le varie fasi della storia naturale di una persona affetta da demenza, dai primi sintomi, alla diagnosi, all’assistenza palliativa nella fasi terminali, sottolineando per ogni tappa i punti positivi e quelli negativi dell’attuale organizzazione dei servizi nei vari paesi. E’ una lettura critica della realtà, che offre modelli e idee per i compiti di tutti i giorni che ci sono affidati, allargando la nostra visuale a realtà molto diverse.

 

L’OECD ancora una volta contribuisce con il suo lavoro a sprovincializzarci; spetta a noi il compito di studiare ed elaborare in modo diverso dal consueto, senza essere polarizzati su quanto abbiamo fatto e sulle difficolta del futuro.

 

 

Foto di Free-Photos da Pixabay

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