Il termine “capacitazione” è nuovo in ambiente geriatrico, ma è già impiegato in altri campi, in particolare in ambito sociologico ed economico per indicare una tecnica d’intervento che favorisce lo sviluppo. In quest’ottica, l’autonomia dei destinatari degli interventi non è considerata solo come un fine, ma è piuttosto il mezzo principale attraverso il quale lo sviluppo si attua. A seconda del campo di applicazione e dell’Autore il termine ha assunto diverse sfumature di significato (de Morais, 2000; Dolci, 1996, 1998; Sen, 2000). In questo articolo ne propongo l’applicazione per la cura dei malati di Alzheimer nelle RSA1.
Due premesse
Prima di articolare la proposta in modo dettagliato ritengo opportuno anteporre due premesse su cui si regge il processo della capacitazione del malato di Alzheimer:
- è possibile che il malato stia meglio;
- è più utile considerare l’autonomia come strumento, piuttosto che come fine.
È possibile che il malato stia meglio.
Proviamo a pensare ad un nostro paziente. Riflettendo sulla sua vita di tutti i giorni probabilmente riusciamo ad individuare delle giornate migliori e delle altre peggiori, oppure delle ore apparentemente più felici e altre invece più infelici. All’interno di un quadro che ci sembra stabile e stagnante, c’è una certa variabilità che ci apre a diversi mondi possibili. Esistono per il paziente dei mondi nei quali si trova talvolta a dimorare e nei quali sta meglio. Il nostro scopo è di accompagnarlo perché in questi soggiorni possa abitare, e abitare felicemente, e perché quando li smarrisce possa ritrovarli per abitarvi serenamente.
È più utile considerare l’autonomia come strumento, piuttosto che come fine.
Normalmente si considera l’autonomia del paziente come l’obiettivo di ogni trattamento riabilitativo; ma se il malato di Alzheimer è portato inesorabilmente a veder degradato il proprio livello di autonomia, mantenere questo obiettivo utopico è utile? Chi opera nelle RSA sa che l’obiettivo autonomia è fonte di frustrazione, rabbia, depressione e burn out. Io ritengo che sia meglio rinunciare a tale obiettivo, ma senza rinunciare all’autonomia. In modo paradossale succede che se l’autonomia come fine è fonte di infelicità, l’autonomia come strumento è invece fonte di benessere e rappresenta quello strumento che permette di innescare il processo della capacitazione.
Mi spiego meglio con un esempio: pensiamo a un malato che guardi con aria perplessa la camicia e il golf e cominci a manipolarli senza essere in grado di individuarne la funzione. Se mi pongo come obiettivo che il paziente riesca a vestirsi da solo, sono destinato al fallimento, anzi, siamo destinati al fallimento tutti e due. Se invece comincio a osservarlo e per prima cosa prendo atto che il paziente sta facendo qualcosa in modo autonomo, cioè studiare e manipolare quegli oggetti per lui non più familiari, allora la situazione diventa fonte di curiosità e di interesse: per lui, che sta cercando di capire qualcosa dello strano mondo in cui si è trovato a vivere, per me, che sto in ascolto e cerco di capire che cosa sta succedendo, come posso inserirmi in quel mondo (il mondo del paziente). Per esempio, dopo qualche momento di osservazione silenziosa, posso dire: “Vedo che guarda con interesse la camicia e il golf, forse non ricorda come si fa a infilarli”. Partendo poi da questo intervento capacitante può nascere una conversazione e qualche tentativo di indossare i vestiti.
Nel primo caso ho considerato l’autonomia del paziente un fine. Nel secondo caso ho considerato l’autonomia un mezzo, cioè ho preso atto del livello di autonomia del paziente: egli è in grado di manipolare degli indumenti. Partendo poi da questa osservazione ho cercato di accompagnarlo nel suo mondo, cioè ho considerato l’autonomia (e l’iniziativa) come uno strumento che il paziente ha e utilizza. In questo caso come uno strumento attraverso il quale il paziente è attivo, curioso e vitale.
Definizione
“La capacitazione è una tecnica d’intervento terapeutico che ha per obiettivo creare le condizioni per cui l’ospite possa svolgere le attività di cui è ancora capace, così come è capace, senza sentirsi in errore”.
La capacitazione si basa sul riconoscimento delle competenze elementari del paziente (Vigorelli e Peduzzi, 2002) e utilizza come strumenti l’ascolto e la parola. Un valido esempio di intervento capacitante è l’approccio conversazionale di Giampaolo Lai che ho già descritto in un precedente lavoro (Vigorelli,2004). Il fine ultimo dell’intervento è la felicità del paziente, prescindendo dalla correttezza dell’azione da svolgere. Può essere adottata da parte di tutti i curanti delle RSA, ciascuno secondo la propria professionalità e il proprio ruolo. In questa sede non prendo in considerazione l’analisi del contesto istituzionale e le azioni rivolte al suo cambiamento per rendere “capacitanti” le strutture e l’organizzazione; infatti ho scelto di delimitare il concetto di capacitazione in modo che sia sempre applicabile nell’ambito della relazione tra curante e malato di Alzheimer, in qualsiasi contesto. La capacitazione così intesa non indica solo un processo, ma un modo di essere e di relazionarsi che è sotteso ad ogni tipo di intervento che il curante mette in atto nelle interazioni della vita quotidiana.
La perdita delle competenze elementari
La perdita di autonomia dei malati di Alzheimer è un problema noto. Purtroppo siamo tanto abituati a tale evento che ci siamo assuefatti a considerarlo ineluttabile, senza renderci conto, come nell’esempio precedente, che il malato in un dato momento ha ancora una certa autonomia, ma è in grado di manifestarla solo abitando nel suo mondo possibile, in quel mondo cioè in cui esistono degli oggetti di cotone colorato con strane forme, di cui non ricorda più il comune impiego. Come fare per evitare che il malato perda la sua vitalità, la sua autonomia possibile, la voglia di vivere e di esplorare il mondo nuovo in cui viene via via a trovarsi?
Riflettendo su quanto succede nelle situazioni di ricovero si possono individuare cinque competenze che sono necessarie perché il malato possa non solo sopravvivere, ma vivere felicemente in RSA. Tali competenze vengono definite elementari (Vigorelli e Peduzzi,2002) in quanto rappresentano la base per acquisire ed utilizzare competenze più complesse, come quelle necessarie per lo svolgimento delle attività della vita quotidiana (ADL).
Esse sono:
- la competenza emotiva;
- la competenza a comunicare;
- la competenza conversazionale;
- la competenza a contrattare;
- la competenza a decidere.
La competenza emotiva
Col termine competenza emotiva intendo la capacità di entrare in contatto con i propri e gli altrui sentimenti, la capacità quindi di riconoscerli e di saperli comunicare e gestire in modo soddisfacente (Goleman, 1997). Purtroppo la situazione di istituzionalizzazione tende a oscurare il mondo emotivo dell’anziano. Il distacco dal proprio ambiente naturale, la carenza di stimoli, la deprivazione sensoriale, la perdita delle relazioni affettive significative, tutto ciò contribuisce a provocare un’eclissi emotiva.
La competenza a comunicare
La competenza a comunicare del malato di Alzheimer si riduce col progredire della malattia. Il deficit si manifesta soprattutto a livello del linguaggio verbale, solo tardivamente a livello non verbale. Chi cura si sente impotente e scoraggiato e il desiderio di cercare un modo per comunicare si affievolisce. Tuttavia sono proprio i pazienti più compromessi a essere quelli più fragili, col maggior rischio di sprofondare in un blackout comunicativo.
La competenza conversazionale
Nella fase intermedia della malattia il paziente Alzheimer è ancora in grado di formulare delle frasi ben costruite, tuttavia il significato delle parole tende a perdersi, fino ad arrivare a una fase in cui il paziente parla, ma non si capisce quello che vuole esprimere. Si arriva così alla situazione limite di una conversazione senza comunicazione (Lai e Gandolfo,2000). Anche in questa fase resta però mantenuta la competenza conversazionale, quella per cui il paziente può parlare, e parlare volentieri, rispettando le regole della cortesia conversazionale, come lo scambio del saluto e il rispetto dell’alternanza dei turni verbali (Vigorelli,2004).
La competenza a contrattare
È a tutti noto come la condizione di ricovero tenda a favorire un atteggiamento passivo dei degenti. Il paziente “ideale” è quello che si adatta completamente alle abitudini dell’istituzione, che non disturba, non crea conflitti e non manifesta esigenze diverse da quelle previste, non richiede soluzioni differenti da quelle abituali per l’istituzione stessa. Un paziente di questo tipo è più facile da gestire e in ogni istituzione esistono meccanismi espliciti e impliciti che tendono a favorire tale comportamento. Ne consegue che spesso il paziente si adatta all’istituzione rinunciando a ogni tipo di contrattazione.
La competenza a decidere
La competenza a decidere è forse la più complessa e presuppone il riconoscimento delle altre competenze elementari. A partire dal momento in cui il paziente Alzheimer entra in una struttura di ricovero si innescano in modo quasi automatico due meccanismi: da una parte il paziente tende a delegare ogni scelta che lo riguarda all’istituzione e agli operatori che vi lavorano; dall’altra l’istituzione tende a prendere in carico globalmente il paziente. Viene così a crearsi una situazione paradossale. Se il meccanismo di delega e quello di presa in carico hanno successo, il paziente perde la competenza a decidere e si avvia a un più rapido declino.
Il riconoscimento delle competenze elementari
Quando le competenze elementari risultano perse o eclissate, il loro recupero è di difficile realizzazione e comporta un notevole impegno terapeutico-assistenziale. È più utile e richiede un minor dispendio di energie cercare di prevenire tale perdita. Un investimento massimale di attenzione al primo contatto col paziente, proprio nei primi minuti di ricovero, fornisce una rendita per tutta la durata del ricovero stesso che compensa ampiamente l’impegno iniziale.
Come fare? Se è vero che l’anziano può perdere rapidamente le competenze elementari è altrettanto vero che egli riesce a conservarle se gli vengono riconosciute e se è messo nelle condizioni di poterle esercitare. È proprio questa la base di ogni intervento capacitante. Normalmente si pensa che per fare della buona assistenza è sufficiente soddisfare i bisogni dell’utente: provvedere alla sua igiene, alla sua alimentazione, alle cure mediche… Questo non è vero per i malati di Alzheimer. Se noi li accudiamo e curiamo senza stare prima qualche momento ad osservarli e ad ascoltarli, avremo sì dei pazienti lavati e nutriti, ma avremo contribuito alla perdita delle competenze elementari e a un più rapido declino funzionale. In altre parole, per evitare che i malati di Alzheimer ricoverati nelle RSA perdano le competenze elementari è auspicabile che i curanti adottino un atteggiamento capacitante.
Considerazioni conclusive
Uno dei maggiori problemi che si incontrano nella cura dei malati di Alzheimer consiste nel progressivo spegnersi del loro slancio vitale: i malati tendono a parlare sempre di meno e a perdere ogni iniziativa. I numerosi tentativi di stimolazione sia con mezzi farmacologici che non farmacologici non hanno ancora fornito risultati soddisfacenti.
In questo articolo ho proposto una tecnica d’intervento diversa, che non si basa sulla stimolazione. Tale tecnica si basa sul concetto di capacitazione, intesa come processo attraverso il quale il curante favorisce le condizioni per cui l’ospite possa svolgere le attività di cui è ancora capace, così come è capace, senza sentirsi in errore. Gli strumenti d’intervento utilizzati sono l’ascolto e l’uso consapevole della parola; mediante questi strumenti si cerca di tener vive le competenze elementari del paziente, cioè la competenza emotiva, quella a comunicare, quella conversazionale e quelle a contrattare e a decidere. Quando adottiamo la capacitazione come stile d’intervento non ci curiamo tanto dei risultati pratici raggiunti quanto della felicità del paziente.
Ringraziamenti
Ringrazio Paolo Cottino, ricercatore dell’IRS-Milano, per avermi ispirato nell’applicazione del concetto di capacitazione in ambito geriatrico e per avermi messo a disposizione la sua tesi di Dottorato di Ricerca in Pianificazione e Politiche del Territorio, Ciclo XVII, presso l’Istituto Universitario Architettura di Venezia, Dipartimento di Pianificazione, aprile 2005: Competenze possibili. Il lavoro territoriale come strategia di riproduzione della sfera pubblica plurale.
Note
- La capacitazione può essere una chiave di lettura degli interventi che in passato ho proposto per la riabilitazione dei pazienti emiplegici (Vigorelli,2000) e afasici post-ictus (Vigorelli,2004) e per la conversazione possibile con i malati di Alzheimer (Vigorelli,2004) (www.formalzheimer.it) quando ancora non avevo a disposizione questo termine
Bibliografia
De Morais CS. The large group capacitation method and social participation: theoretical considerations. In: Carmen R, Sobrado M. A future for the excluded. Job creation and income generation by the poor. Clodomis Santos de Morais and the Organisation Workshop, Zed Books Development Studies,London, 2000.
Dolci D. La struttura maieutica e l’evolverci. La Nuova Italia,Firenze,1996.
Dolci D. Dal trasmettere al comunicare.Sonda,Torino,1998.
Goleman D. Intelligenza emotiva. Rizzoli,Milano,XXIII Ed.1997.
Lai G, Gandolfo G. Conversazione senza comunicazione. Tecniche Conversazionali,2000;23:52-65.
Sen A. Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia. Mondadori, Milano,2000.
Vigorelli P. Reinserimento familiare dopo un ictus. Prospettive Sociali e Sanitarie 2000;9:6-8.
Vigorelli P, Peduzzi A. Un metodo per prevenire il decadimento dell’anziano fragile. Geriatric & Medical Intelligence. Medicina e anziani 2002; 1: 4148.
Vigorelli P. L’arte di conversare con il paziente afasico postictus. I luoghi della cura 2004:2.
Vigorelli P. (a cura di) La conversazione possibile con il malato Alzheimer. Franco Angeli,Milano,2004.
www.formalzheimer.it,sito per la ricerca, la formazione e la terapia conversazionale del malato Alzheimer.