1 Giugno 2007 | Strumenti e approcci

Utilizzo delle carte di controllo in ambito riabilitativo

Cultura e servizio per “i luoghi della cura”

Introduzione

Il documento “Biotetica e riabilitazione”, recentemente licenziato dal Comitato Nazionale di Bioetica (Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2006), sottolinea come non vi possa essere un intervento riabilitativo che possa definirsi “eticamente appropriato” senza che gli attori della cura, medici, infermieri, OSA, OTA e fisioterapisti si impegnino a controllare la correttezza dei processi assistenziali ed a misurare gli outcomes di salute.

 

Su questo tema si è largamente discusso di “etica dell’organizzazione”, sottolineando come oggi l’intervento assistenziale implichi non soltanto istanze di natura pratico organizzativa, ma anche teorica ed etica. Ciò nonostante, l’organizzazione delle procedure di cura in ambito ospedaliero e riabilitativo rimane per molti aspetti ancora carente. Infatti, soprattutto nei confronti delle persone fragili anziane e dementi, la prassi di controllare gli interventi assistenziali e di monitorare costantemente i risultati dei processi di cura appare per molti aspetti utopistica o lontana dal realizzarsi. A tal fine sono state proposte modalità di verifica dei risultati (e di controllo dei processi),alcune delle quali vengono di seguito discusse.

 

Le carte di monitoraggio nei processi di cura

Le carte di monitoraggio (CDM) “infermieristiche”

Il cambiamento del modello di cura nell’attuale panorama sanitario (da un modello di cura orientato al trattamento della malattia acuta ad un modello fortemente sbilanciato sul trattamento delle malattie croniche) ha significativamente modificato le competenze progettuali e gestionali delle figure dell’assistenza.

 

Il profilo dell’infermiere e l’introduzione di nuove figure di supporto (quali gli operatori socio-sanitari, OSS) favoriscono il modello della pianificazione e progettazione come costruzione, tra i diversi attori dell’assistenza, del significato e del senso delle azioni da intraprendere. A questo scopo è fondamentale la comunicazione, la discussione ed il dialogo tra tutte le figure dell’assistenza (medico, infermiere, OSS, terapista della riabilitazione). Perché ciò non rimanga soltanto un obiettivo a cui tendere, ma diventi una conquista acquisita, è necessario identificare le priorità della cura, pianificare gli interventi e suddividere i compiti tra le figure dell’équipe.

 

Oggi, per decreto regionale, in ogni unità di riabilitazione della regione Lombardia, l’équipe ha il dovere di compilare entro 72 ore dall’ingresso in struttura il cosiddetto “Progetto Riabilitativo Individualizzato” (PRI) con la finalità esplicita di identificare gli obiettivi della cura e la definizione dei compiti per ogni membro dell’équipe. È un percorso necessario ma che spesso rischia di restare soltanto una nobile dichiarazione di intenti. Non sempre, infatti, al PRI consegue un’analisi di monitoraggio/controllo delle procedure di assistenza effettivamente adottata. Ciò può essere dovuto ad almeno due impedimenti: un primo può essere legato alla difficoltà di strutturare sempre ed in ogni gruppo l’abitudine a lavorare insieme; un secondo, ma non meno significativo, è legato alla mancanza di strumenti specifici per il controllo delle procedure. Si prenda ad esempio il caso dell’idratazione: tutte le figure usualmente concordano sulla necessità di stimolare l’idratazione in un paziente anziano a rischio di disidratazione o incapace di assumere autonomamente i liquidi. Anche se è chiaro chi debba rilevare il rischio (medico e infermiere) non sempre si è tempestivi nel mettere in atto le procedure di controllo. Bisogna, inoltre, affinare la capacità di organizzare un programma di gestione delle procedure assistenziali che ponga sullo stesso piano, in termini di dignità di mansione, la somministrazione dei liquidi con altre procedure igienico-assistenziali specifiche per ruolo professionale.

 

Nella UO Riabilitazione Polifunzionale della casa di Cura “Ancelle della Carità” di Cremona, sono state approntate alcune carte di monitoraggio (CDM). La prima è stata approntata per l’idratazione: si tratta di uno strumento utilizzato dal personale di assistenza (infermieri, OTA e OSS) che consente di verificare in momenti predefiniti della giornata (alla fine di ogni turno) se l’introito è corrispondente alle attese del progetto assistenziale. Ogni figura coinvolta nel progetto di assistenza (e non soltanto una di queste) utilizza la CDM e verifica se il compito (“fare assumere un bicchiere di liquidi al paziente”) è stato assolto correttamente. L’infermiere ha il ruolo di controllore/osservatore del progetto assistenziale, ed eventuali difficoltà nell’assunzione dei liquidi gli devono essere prontamente comunicate. Un eventuale impedimento al raggiungimento dell’obiettivo assistenziale viene ridiscusso (in tempi rapidi) nel progetto riabilitativo da tutti i componenti dell’équipe.

 

Un’altra CDM è stata approntata per i pazienti con patologie respiratorie croniche gravi (insufficienze respiratorie); pazienti affetti da patologie di questo tipo sono infatti sempre più presenti nei reparti di riabilitazione specialistica e geriatrica, ed il bisogno di avere a disposizione strumenti che permettano di monitorare in modo preciso ed efficace le modalità di gestione degli ausili per la respirazione è molto sentito dall’équipe.

 

La CDM da noi approntata (Tab.1) permette:

  • a) di precisare gli orari di somministrazione di ogni singolo presidio (occhialini, maschera di Venturi, ventilazione meccanica non invasiva) prescritto dal medico per il paziente;
  • b) di quantificare il monte-ore di erogazione di ogni singolo presidio nell’arco delle 24 ore;
  • c) di ridurre i margini di errori dell’infermiere nell’erogazione della terapia prescritta e del medico nella sotto/sopravalutazione del tempo “effettivo” di erogazione del presidio stesso (sulla CDM è possibile segnalare se alcuni interventi programmati non sono stati attuati per problemi di salute del/la paziente);
  • d) di favorire la comunicazione tra il personale operante su turni differenti in merito a quanto è stato pianificato per il singolo paziente.

 

Le carte di monitoraggio (CDM) “riabilitative”
Le CDM possono essere utilizzate non soltanto per controllare le procedure, ma anche per controllare i risultati intermedi durante il percorso riabilitativo. Ciò è fondamentale per modulare quest’ultimo sulla base dei risultati acquisiti nel corso della degenza e permette al terapista della riabilitazione di partecipare più attivamente al progetto stesso. Poiché si assume che lo stato funzionale rappresenta un indicatore grossolano ma molto sensibile delle condizioni cliniche (ad un peggioramento funzionale corrisponde quasi invariabilmente in un soggetto anziano un peggioramento del quadro clinico),la CDM ha anche un carattere anticipatorio in termini di informazioni al clinico.

 

Presso la UO Riabilitazione Polifunzionale della casa di Cura “Ancelle della Carità” di Cremona sono state approntate, sull’esperienza di altre unità di riabilitazione (Cappadonia et al., 2006) alcune CDM che sono state definite “patologia” o “disabilità” specifiche. Le CDM “patologia specifiche” sono state predisposte per la frattura di femore, l’artroprotesi di anca e di ginocchio, per l’ictus cerebri e per i parkinsonismi, mentre le CDM “disabilità specifiche” sono state predisposte per i disturbi dell’equilibrio e della marcia, per le sindromi respiratorie (BPCO, insufficienza respiratoria, ecc.) e lo scompenso cardiaco. Più specificamente, per la frattura di femore, l’artroprotesi di anca e di ginocchio, le CDM misurano con cadenza settimanale i cambiamenti di punteggio in tre items del Barthel Index (trasferimenti, deambulazione,scale);per l’ictus cerebri viene valutata la variazione degli score nella Motor Assessment Scale (MAS), mentre per i Parkinson-parkinsonismi si verificano i cambiamenti alla subscala 3° (motoria) della Unified Parkinson’s Disease Rating Scale.

 

Per le CDM “disabilità specifiche” si registrano i cambiamenti funzionali con la scala di Tinetti (disturbi dell’equilibrio e della marcia) e/o con la 6-minutes walking test distance (6’WTD) (sindromi respiratorie e scompenso cardiaco). Il terapista della riabilitazione è tenuto a compilare settimanalmente la CDM per ogni singolo paziente, discutendo eventuali problemi (mancato miglioramento o marcato peggioramento) con il medico ed il fisiatra nella riunione settimanale.

 

I possibili vantaggi derivanti dall’uso delle CDM si possono così riassumere:

  • a) permettono di monitorare nel tempo e con strumenti oggettivi l’andamento di ogni singolo paziente dal punto di vista delle prestazioni funzionali, superando l’attuale prevalente procedura decisionale fondata su aspetti burocratici (i “tetti” dei tempi di degenza stabiliti dalla ASL);
  • b) facilitano il flusso delle informazioni tra i componenti dell’équipe;
  • c) permettono di intercettare eventi clinici intercorrenti associati ad una perdita funzionale (ad esempio una perdita funzionale o un mancato miglioramento possono anticipare la comparsa di delirium);
  • d) permettono di ipotizzare il raggiungimento del massimo recupero possibile per il paziente in base alla mancata progressione del recupero funzionale;
  • e) permettono di confrontare i risultati ottenuti su pazienti con medesime problematiche pur utilizzando tecniche riabilitative differenti.
Esempio di carta di monitoraggio per pazienti sottoposti ad intervento chirurgico dopo frattura di femore
Figura 2 – Esempio di carta di monitoraggio per pazienti sottoposti ad intervento chirurgico dopo frattura di femore

 

 

Dalle carte di monitoraggio alle carte di controllo

La teoria
Si potrebbe obiettare che non sempre ad una standardizzazione dei processi di cura corrispondono outcomes migliori. In questo senso, uno sforzo necessario è quello di sistematizzare non soltanto le procedure (attraverso le CDM infermieristiche e riabilitative) ma anche le traiettorie attese di recupero funzionale per ottenere valori di riferimento che consentano ai riabilitatori di svolgere il proprio lavoro senza autoreferenzialità.

 

Purtroppo, ad oggi, la scienza della riabilitazione non è stata ancora capace di fornire risultati convincenti in questo ambito. Più di un ricercatore ha lamentato l’insufficienza e la limitatezza degli sforzi profusi denunciando, come conseguenza di questa incapacità ad identificare parametri di riferimento, la totale autonomia di comportamento da parte dei singoli riabilitatori (Marsden e Greenwood, 2005). Chiunque lavori in reparti di riabilitazione sa infatti che la prognosi funzionale dei pazienti è basata il più delle volte su un mix di informazioni clinico-funzionali (talora desunte in modo approssimativo), esperienza dei singoli operatori e collaborazione-motivazione percepita da parte dell’équipe più che su dati circostanziati. Inoltre, i tempi di trattamento dei singoli pazienti sono non sempre determinati da variabili cliniche ma anche da variabili organizzative (ad esempio il numero e la formazione dei terapisti, la disponibilità e l’allocazione delle palestre) (Hoenig et al.,1996).

 

A supporto di questa affermazione, sono stati recentemente pubblicati alcuni lavori scientifici che dimostrano come i pazienti più compromessi per quanto concerne lo stato di salute complessivo, o le performances cognitive, tendono a recuperare di meno dal punto di vista funzionale, non soltanto perché non in grado di tollerare carichi di lavoro impegnativi, ma anche perché, in assenza di prescrizioni specifiche, vengono di fatto sottoposti ad un trattamento riabilitativo meno intensivo (Bellelli et al., 2002; Lenze et al.,2004).

 

Un tentativo di colmare le lacune in questo ambito, identificando curve ideali di recupero per pazienti (relativamente) omogenei in termini di caratteristiche cliniche e funzionali, avrebbe indubbiamente importanti ricadute sul piano clinico e programmatorio-organizzativo. Si potrebbe infatti definire già all’ammissione in reparto una prognosi funzionale attesa, le modalità di trattamento più appropriate ed i tempi di degenza necessari per i pazienti; in caso di mancato recupero, o di mancato rispetto dei tempi di recupero previsti, si potrebbero rimettere in discussione il progetto riabilitativo ed i trattamenti effettuati.

 

L’idea di realizzare modelli grafici per controllare la relazione tra procedure ed outcomes nacque nel Regno Unito. Walter A Shewhart ne fu il pioniere, implementando per primo dei sistemi standardizzati di controllo dei processi manifatturieri (Cappadonia et al.,2006; Mohammed et al., 2001), che portarono un grande impulso ed un miglioramento complessivo della qualità dei prodotti fino ad allora realizzati. Egli sviluppò un metodo grafico conosciuto come carta di controllo (CDC) che consentiva di definire un target (valore normativo di riferimento) con il minimo di variazioni (scostamenti) possibili dalla media. Secondo questo schema, la qualità era definita come l’insieme dei processi finalizzati a raggiungere il target senza discostarsi dai limiti di confidenza (le variazioni possibili). Più recentemente ,Flaherty e Kane hanno introdotto il concetto di “glidepaths” in ambito geriatrico per indicare i confini all’interno dei quali il medico deve sapersi muovere tendendo al target di riferimento (Flaherty et al., 2002; Kane, 2004). Il termine “glidepath” è mutuato dall’aeronautica ed indica, letteralmente, i segnali luminosi e sonori che la torre di controllo utilizza per aiutare il pilota dell’aereo in fase di atterraggio: essi rappresentano certamente un grande aiuto per il pilota che, tuttavia, continua ad essere il principale responsabile dell’atterraggio mantenendo il controllo del velivolo. Per similitudine, i segnali luminosi sul monitor rappresentano, in ambito sanitario, i massimi scostamenti possibili dalla striscia tratteggiata al centro che, a sua volta, è il target di riferimento.

 

Dalla teoria alla pratica: quale utilità per le CDC?
Le CDC possono essere utilizzate in ambito sanitario per numerosi scopi, tra i quali i più importanti sono legati al controllo dei macro-outcomes (come la mortalità a 90 giorni per pazienti con frattura di femore) o dell’efficacia delle procedure di cura erogate (Todd et al., 1995). In questo senso le CDC consentono un benchmark esterno (tra ospedali) ed interno (all’interno del singolo reparto) e potrebbero costituire, almeno in teoria, un significativo avanzamento concettuale rispetto agli attuali sistemi di qualità (utilizzati negli ospedali di alcune regioni italiane), che non vincolano il rispetto delle procedure al raggiungimento degli obiettivi.

 

Qualora infatti, attraverso analisi matematiche, fosse possibile includere in un unico database le CDM riabilitative di un numero consistente di pazienti provenienti da più strutture, si potrebbero identificare “curve attese” di recupero funzionale, stabilire limiti di variabilità e, secondariamente, ipotizzare tariffe di pagamento differenziate in base ai risultati ottenuti. Quei reparti (e quegli ospedali) in grado di mantenere il proprio livello qualitativo nei limiti di confidenza attesi, e di avvicinarsi il più possibile al target di riferimento, potrebbero infatti ricevere contributi maggiori, a discapito di strutture (e/o reparti) inadempienti sotto questo profilo. Non è impossibile immaginare che uno scenario di questo tipo potrebbe configurare una rincorsa alla qualità dei servizi, basata non più sul rispetto di standard strutturali e procedurali ma sugli outcomes.

 

Presso l‘UO Riabilitazione Polifunzionale “Ancelle della Carità” di Cremona sono stati raccolti nell’anno 2006 le CDM riabilitative di 170 pazienti ricoverati per frattura di femore nei due anni precedenti. Per ognuno di questi sono state misurate, con cadenza settimanale, le variazioni di score in 3 items motori del Barthel Index, oltre che altri parametri contenuti nella CDM. Sulla base dell’andamento settimanale i terapisti hanno modulato il proprio intervento e sono stati rivisti i progetti riabilitativi insieme al medico di reparto ed al fisiatra. Attualmente i dati sono utilizzati per individuare le traiettorie di recupero attese, per gruppi differenti alla baseline. Si ritiene che l’introduzione di metodologie oggettive di valutazione del paziente da riabilitare rappresenti una svolta molto incisiva nelle modalità di controllo dell’intervento riabilitativo. Ciò è ancora più valido nel paziente anziano nel quale la complessità clinica rende più difficile un giudizio empirico di efficacia dei trattamenti.

Bibliografia

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