Il caregiver di una persona affetta da demenza vive per un tempo lungo, e con crescente impegno assistenziale, il compito della cura. Ne può conseguire un aumento dello stress psicologico e fisico, già in passato definito dalla frase “una giornata di 36 ore”: ad indicare che la cura diventa così impegnativa che viene talvolta vissuta in un tempo dilatato e stressante. Il fenomeno non deve essere mai trascurato, poiché gli studi hanno dimostrato che il maggior stress si associa a precoce istituzionalizzazione per il malato, ed aumento della morbilità e della mortalità per il caregiver (Gaugler et al., 2018). Chi si prende cura della famiglia malata, intesa come la globalità delle persone fragili nello stesso nucleo familiare? Sono infatti fragili sia la persona affetta da demenza, che i loro familiari, in particolare il principale caregiver.
Le risposte formali ed informali al burden dei familiari
L’attuale sistema di rete delle cure per la demenza è cresciuto in maniera progressiva dai primi anni ’90 del secolo scorso, con differenze Regionali e locali talora spiccate, ma comunque tendenti a completare un percorso di cura ed assistenza progressiva alla persona affetta da demenza. Dai centri di diagnosi e cura delle demenze (CDCD, che hanno sostituito gli ambulatori UVA – Unità di Valutazione Alzheimer), alle risposte territoriali o residenziali, molto è stato fatto ad oggi. Tuttavia, l’attuale condizione di restrizione economica rischia di creare delle differenze nella capacità di cura a livello delle diverse Regioni, con aree clinico-assistenziali a macchia di leopardo, dove il malato ed il familiare ricevono risposte incomplete. Un’analisi dello scenario che accompagna la vita delle persone affette da demenza si deve fondare su considerazioni rispetto al momento attuale, caratterizzato infatti da una crisi economica persistente, che si riflette soprattutto sui servizi alle persone fragili. La crisi del welfare, la riorganizzazione delle macro-aree di assistenza e cura, la tendenza ai tagli nella Sanità, l’individuazione crescente di servizi low cost, permetteranno di garantire comunque la qualità assistenziale? Quali alternative vi saranno alla copertura dei servizi da parte della collettività come avviene oggi? Si ritornerà ad istituzioni finanziate dalla generosità collettiva come nell’Ottocento? Il sistema di cura delle demenze necessita di adeguati finanziamenti pubblici, come prevede il Piano Nazionale Demenze di recente istituzione, per potere assistere la famiglia nel percorso che va dalla diagnosi alle cure agli aspetti assistenziali (Trabucchi, 2012; Piano Nazionale Demenze, 2015). Quello che finora è stato costruito, tuttavia, è di valore, con un sistema a rete che sta diventando in grado di seguire le diverse fasi della malattia: dai Centri di Diagnosi e cura delle Demenze (CDCD) per la diagnosi e la terapia ed il percorso di cura condiviso coi familiari, all’ospedale per le complicanze somatiche. Dal punto di vista assistenziale, inoltre, sono nati i Centri Diurni per il sollievo familiare e la cura del malato, l’assistenza domiciliare per i bisogni fisici della persona, ed infine le residenze sanitarie assistenziali (RSA) per la fase avanzata, anche e soprattutto con nuclei di cura speciali per le demenze (Boffelli et al., 2016).
Ma la famiglia richiede altrettanta attenzione: ci vuole tempo e coraggio da dedicare alla comunicazione della diagnosi e del percorso di cura, alla formazione dei familiari sugli aspetti clinici (a partire dalla somministrazione dei farmaci) e sui sintomi neuropsicologici, ed ancora alla gestione completa della casa e degli aspetti economici. Il caregiver va ascoltato, sostenuto, consigliato, indirizzato per il suo meglio dal punto di vista clinico, cognitivo, funzionale, comportamentale, ed infine sociale. Certo, ogni area del sistema formale di cura fa la sua parte (i CDCD, gli psicologi del territorio, i consulenti socio-assistenziali, le aree territoriali), ma il sistema di sostegno alla famiglia è ancora imperfetto.
Ed ancora, dove trova tempo il familiare per informarsi, e formarsi alla cura, se tutto il tempo è dedicato al malato? Ecco la ragione per cui in Italia i Caffè Alzheimer hanno trovato terreno fertile: da una parte, rispondono alla necessità di paziente e familiare, dall’altra uniscono volontariato e professionisti in un ambiente di cura in grado di dare risposte specifiche ed organizzate alle malattie neurodegenerative (Miesen e Jones, 2004).
Se in Olanda il Caffè Alzheimer (CA) nasce con l’idea di condividere diagnosi (ed il suo insight) fra caregiver e malati, in Italia trova la sua realizzazione nella condivisione, nell’ascolto, nella formazione che avvengono contemporaneamente, anche se in modo separato (i caregiver per formazione/informazione e sostegno psicologico, i malati per il training cognitivo). Ma la grande intuizione di Bere Miesen, ideatore dei CA, è quella di letteralmente “tirare fuori di casa” il gruppo familiare, combattendo l’isolamento sociale. Le persone ed i loro familiari, isolandosi, rischiano infatti di fare i viaggi solo da casa all’ambulatorio medico, perdendo i contatti umani, la rete sociale, le occasioni di incontro e di crescita culturale e spirituale, in poche parole quanto meno il diritto al benessere, se non alla felicità. I Caffè Alzheimer non sostituiscono nessun servizio formale, già esistente, di cura: piuttosto lo potenziano, affiancando il caregiver ed il malato, fornendo formazione e supporto durante la malattia.
I primi Caffè Alzheimer italiani
Con la creazione dei CA, si identifica quindi un luogo dove familiari e malati possono recarsi insieme, scoprire che non sono soli e capire come altri fanno fronte alla malattia e alle sue conseguenze. In quel luogo si possono fornire informazioni sugli aspetti medici e psicosociali della demenza, offrire la possibilità di parlare apertamente dei propri problemi (riconoscimento e accettazione sociale), promuovere la socializzazione e prevenire l’isolamento delle persone con demenza e delle loro famiglie. Gli incontri, nel loro svolgimento, presentano una duplice natura: quella terapeutica, che dà spazio anche all’informazione, e quella della socializzazione, alla quale è riservata una notevole considerazione. Viene facilitata la comunicazione anche in maniera informale, lo scambio di esperienze, il colloquio con operatori e specialisti. È proprio questa atmosfera tranquilla e accogliente, associata al fatto che tali incontri si svolgono in un ambiente a bassa soglia di accesso, che contribuisce a soddisfare i bisogni di appartenenza, accettazione e riconoscimento. I primi risultati italiani evidenziavano come il fenomeno si stesse diffondendo in modo progressivo: in Veneto come in Emilia Romagna sono stati pubblicati i primi dati dell’esperienza dei primi CA, con dimostrazione di estrema gradevolezza da parte dei familiari e dei malati (Trabucchi, 2012).
Il Coordinamento della Lombardia Orientale
L’idea di un Coordinamento dei CA nasce nel 2012 al Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia, da una riunione fra geriatri, psicologi ed educatori, dopo la pubblicazione del primo report scientifico su sette CA italiani. I dati dimostravano un miglioramento dei disturbi comportamentali per il paziente; e per i familiari, la diminuzione del peso psicologico. Tra gli operatori, molti ritenevano necessario un coordinamento delle diverse iniziative, per potere creare il massimo dell’omogeneità e presentarsi uniti ed affidabili, da una parte ai pazienti e alle famiglie, dall’altra alle autorità che gestiscono i servizi, acquisendo maggior peso. Certamente, evitando di snaturare il servizio, per non perdere quella carica innovativa e rivoluzionaria data dalla creatività di chi lo ha progettato (Corcella, 2014). Sono quindi stati coinvolti per primi alcuni CA di Brescia e Bergamo, allargandosi poi alle provincie di Cremona e Mantova. Quindi, per coniugare programmi, efficacia ed efficienza è nato, nel 2012, il Coordinamento dei Caffè Alzheimer della Lombardia Orientale, che ha coinvolto figure professionali multidisciplinari (educatori, psicologi, geriatri, neurologi) con molteplici obiettivi: in primo luogo, identificare i criteri per la creazione di un CA, comprendendo i criteri per il personale, i programmi, i principali fruitori e le modalità di svolgimento degli incontri. Tramite una revisione della letteratura e delle esperienze pubblicate, il gruppo ha creato un manuale con le indicazioni principali, i protocolli comuni, le attività sia per i familiari sia per i pazienti (Berruti et al., 2013).
Il manuale comune, le attività di diffusione e la rete
L’identificazione di un manuale di riferimento per tutti i gruppi ha determinato un upgrading delle diverse esperienze, sia per i CA già fondati, che per quelli di nuova nascita: uniformare i criteri operativi, in base alle migliori evidenze della letteratura ed ai risultati positivi dei diversi CA, ha incrementato in livello di professionalità e cura alla famiglia. Alcuni punti forti del manuale:
- si è creata uniformità, premessa per un approccio professionale e multidisciplinare, integrato, ma anche adeguato alla realtà di ogni CA;
- è stata scelta una metodologia di valutazione, dei malati e dei familiari, con l’obiettivo di misurare l’efficacia degli interventi: da un lato, per comprendere meglio le caratteristiche cognitive, comportamentali e funzionali della persona malata; dall’altro, per capire i bisogni reali del familiare, collegati allo stress ed al peso fisico della cura;
- la scelta dei metodi di intervento su familiari e pazienti: pur rispettando le singole individualità e scelte di percorso di ogni CA, il Coordinamento ha condiviso quali attività, di dimostrata efficacia, possano beneficiare negli incontri periodici;
- le indicazioni per i “nuovi arrivati”: come fondare un nuovo CA (sede, finanziamento, personale, attività, contatti con il mondo sociale), evitando fantasiose quanto pericolose improvvisazioni poco professionali, ma facilitando i percorsi di aiuto;
- la raccolta delle esperienze comuni, segno delle molteplici attività, ma anche guida per l’espansione delle nuove realtà nel territorio.
Il Coordinamento ha visto, in questi anni, la crescita di nuovi CA, dai primi 5 agli attuali 20, con una crescita stimata in aumento anche per il 2020. Ma l’attività di sostegno è stata fondamentale: sono stati organizzati incontri pubblici che fossero di stimolo alle Comunità per comprendere la malattia ed il suo impatto sociale (con praticità e comprensibilità: guardando più all’esempio del vicino di casa, che ai dati epidemiologici internazionali). Più volte si è reso necessario ritornare in alcune aree cittadine o di periferia, per far ripartire l’interesse sociale alla malattia e diffondere la notizia della presenza di un CA. Nelle aree montane, in particolare, è stato necessario intervenire più volte, con incontri pubblici e stimolo alle autorità locali, per fare “ripartire” il progetto del CA, che entrava in crisi: la nostra esperienza ha rilevato come esistano diffidenze e paure, sensazione di vergogna più in aree extracittadine che metropolitane. E’ diventato perciò importante, come gruppo, dare disponibilità per creare strutture e facilitare la condivisione. Qualche volta, ai successi, si sono alternati i fallimenti. Per fortuna pochi, ma certamente da ricordare per fare tesoro delle esperienze, anche se negative. Alcuni CA sono partiti con entusiasmo, ma hanno perso nel tempo la loro presa sul territorio ed hanno “chiuso i battenti”: qualche volta per una minore abilità nel mantenere alto il livello di offerta al territorio, talora per mancanza di finanziamenti, per cui le necessità di sostentamento sono venute meno.
A tale proposito, il problema dei finanziamenti. Il CA è gratuito, per definizione: questo rende anche evidente al familiare ed al malato la volontà di agire per il bene e mai per lucro. Gratuito è il servizio, la gratuità si sposa bene con il concetto di beneficenza (il senso del “fare il bene”) per la famiglia. Questo non significa che il CA non abbia bisogno di denari per organizzare il servizio in modo adeguato: i locali, il personale, le spese vive per i materiali richiedono un finanziamento. E quindi, oltre alla capacità organizzativa, alla professionalità del personale dei CA, un elemento importante è rappresentato dai finanziatori. Chi sono? L’attivazione di un CA può essere sostenuta da un Ente o una Fondazione, una Struttura Socio-Sanitaria, o un’organizzazione territoriale (Associazioni), una cooperativa. I soggetti promotori generalmente sono già coinvolti nell’assistenza rivolta all’anziano: vi sono infatti RSA, cooperative sociali, associazioni di volontariato, oppure i Comuni che, spinti dal bisogno, si adoperano per sostenere economicamente il servizio. Sovente i CA sono il risultato di collaborazioni sinergiche fra più Enti e Associazioni che, condividendo risorse e strumenti, integrano i servizi già esistenti con un CA. La spinta sociale è negli ultimi anni crescente: sono sempre più i Comuni che, in associazione con Fondazioni e Cooperative, si fanno promotori della nascita di un nuovo CA, chiedendo collaborazione al nostro Coordinamento per gli aspetti organizzativi, clinici, pratici e gestionali. Spesso il nascente CA si avvale della collaborazione di uno o più esperti del Coordinamento per programmare il tempo, le attività, i programmi, anche in base alle caratteristiche dell’area geografica: la città è diversa dalla campagna e dalla montagna, e le persone devono essere coinvolte in modo differente, e stimolate a partecipare. La rete delle cure si completa anche con la stretta collaborazione fra aree informali quali il CA e le aree formali di cura, garantendo una condizione di continuità che è di estremo aiuto alla famiglia della persona malata. Molti CA sono in contatto con i medici dei centri di diagnosi e cura (CDCD), ma anche con i Centri Diurni, le RSA, le assistenti sociali. I bisogni spesso inespressi della famiglia malata, vengono perciò portati alla luce, ed il contatto con la rete di assistenza facilitato.
La raccolta dei dati ed i primi risultati
La metodologia di valutazione adottata fin dall’inizio ha permesso di raccogliere i dati relativi alle caratteristiche delle persone affette da demenza e dei loro familiari. Come sempre, la valutazione è la premessa del trattamento, e lo stimolo a cercare sempre migliori interventi per i malati ed i loro caregiver. Ai pazienti che afferiscono gratuitamente ai Caffè Alzheimer della Lombardia Orientale, a partire dal primo accesso, ed a cadenza semestrale, viene eseguita una valutazione multidimensionale del malato, che comprende: stato cognitivo (MMSE) e funzionale (IADL, BADL), depressione dell’umore (GDS), disturbi comportamentali e stress del caregiver (UCLA NPI). Sono inoltre raccolti dati relativi al caregiver: età, stato civile, UCLA NPI stress, CBI.
In particolare, la scala CBI (Caregiver Burden Inventory) analizza i sentimenti di paura e di stanchezza del familiare, permettendo di ottenere un profilo del peso della malattia sulla persona che presta assistenza al malato, ed aiutando a comprendere i bisogni sociali e psicologici dei caregiver.
Dopo la valutazione, ogni CA ha attivato interventi, di gruppo o individuali, nei confronti del paziente e del familiare. Per il caregiver vengono forniti: supporto psicologico individuale o di gruppo, interventi psico-educativi, servizi di counselling. Tali attività vengono svolte periodicamente, ad ogni incontro degli Alzheimer Caffè. Le attività rivolte alla persona malata, individualizzate in base alle singole caratteristiche, sono: cicli di stimolazione cognitiva; lavori pratici (passeggiate all’aperto, motricità finalizzata, pet-terapy); attività indirizzate alle capacità cognitive (gioco di carte, canto e lettura, fotografie, preparazione della tavola); attività che agiscono sulla capacità di ogni individuo di definire il proprio sè ed essere in grado di rapportarsi con gli altri. Dai dati ottenuti con 106 gruppi familiari, emerge che le persone sono prevalentemente di sesso femminile ed affette da demenza con decadimento cognitivo e disabilità di grado moderato, e con sintomi neuropsicologici di grado lieve-moderato (tabella 1).
I familiari sono prevalentemente di primo grado, di mezza età: dalla valutazione emerge una condizione di stress ma anche di reale burden della cura (tabella 2). Lo stress del familiare, infatti, è correlato con la gravità dei disturbi cognitivi e comportamentali, mentre il caregiver burden con l’età del caregiver, il grado di dipendenza funzionale, la gravità dei disturbi comportamentali e cognitivi.
Ai successivi follow up, stato cognitivo e funzionale dei pazienti non migliorano, ma nel tempo si riducono i loro sintomi neuropsicologici e consensualmente lo stress del caregiver (tabella 3). Questi dati confermano, su scala più ampia, quelli precedenti sia italiani che internazionali (Trabucchi, 2012; Dröes et al., 2006). Come atteso, l’attività dei CA dimostra la sua efficacia non specificamente sui sintomi cognitivi (rallentamento della evoluzione di malattia) o sullo stato funzionale, quanto sui sintomi neuropsicologici che sono la principale fonte di distress del familiare che li assiste al domicilio. La nostra interpretazione, inoltre, è che lo stress dei caregiver si riduca anche perché i familiari riferiscono maggiore conoscenza e minore senso di vergogna, più serenità. Inoltre, aumenta la percezione dei familiari della presenza di un sostegno professionale, ottenuto da uno staff motivato (educatori, psicologi), soprattutto perché il progetto viene creato sulle caratteristiche ed i bisogni dei singoli familiari. Appare evidente che i CA agiscano quindi per promuovere l’emancipazione delle persone affette da demenza e le loro famiglie, soprattutto impedendo loro di isolarsi, e di mantenere un contatto attivo con il mondo reale.
Le ricadute ed i progetti futuri
L‘attività del Coordinamento dei Caffè Alzheimer ha permesso di creare un modello di rete fra strutture informali di cura, ma altamente qualificate e professionali, grazie alla rielaborazione e condivisione delle attività, il sostegno ad ogni CA del gruppo. Ogni CA ha poi sviluppato proprie e specifiche attività, in base alle caratteristiche (non solo, ma anche geografiche) del territorio e della condizione sociale locale. Fare gruppo ha senso per aiutare chi nasce e chi cresce, o ha bisogno. Si impara e si condivide sempre: le esperienze organizzative, le diverse attività (dalla doll therapy alla museo-terapia), le vacanze della famiglia (pazienti e caregiver, insieme ai professionisti del Caffè), le attività quotidiane e culturali. Una serie di idee ed iniziative per ridare ritmo e vita alle famiglie, arrugginite dall’autoclausura indotta dalla malattia. Il Coordinamento cerca sviluppi futuri: è importante crescere, per far aumentare la consapevolezza sociale della demenza, combattere lo stigma della malattia, riaggregare le famiglie.
Aumentare il numero dei CA non è il solo obiettivo: è in fase di revisione il manuale, con una peculiare attenzione alla implementazione delle attività che si possono svolgere sia con i familiari che con le persone affette da demenza. Senza limitare l’improvvisazione creativa, l’intenzione è di aumentare la professionalità degli interventi a favore di chi soffre.
Il Coordinamento cerca confronto e partecipazione: essere presenti ad eventi nazionali (Congressi dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, Convegni della Società Italiana di geriatria e Gerontologia) con i propri risultati ed incontri pubblici, ha permesso di incontrare i colleghi di altre realtà Regionali, condividendo le esperienze e le speranze per un futuro Coordinamento Nazionale.
Inoltre, L’Alzheimer Fest ci ha visti fin dal primo evento presenti in prima fila, condividendo con la Festa i principi di beneficenza, sussidiarietà, apertura e speranza per il futuro: anche quest’anno ci saremo, a settembre, alla Festa di Treviso. Infine, non possiamo dimenticare che il 21 settembre è la giornata mondiale della malattia di Alzheimer. Non potendo ricordarla contemporaneamente in tutti i CA, il Coordinamento ha organizzato una serie di iniziative a settembre ed ottobre 2019, definite come il mese dell’Alzheimer, che coinvolge venti CA delle diverse aree lombarde.
Una conclusione (sempre aperta)
I Caffè Alzheimer svolgono un’attività di supporto e cura a favore della persona malata e dei loro caregiver, che si integra e non sostituisce, né duplica, le aree di assistenza formali delle demenze. Gli obiettivi di combattere lo stigma e l’isolamento indotti dalla malattia, la depressione del paziente, lo stress del caregiver, possono essere raggiunti. Ma il numero di famiglie coinvolte è ancora oggi limitato: più persone e caregiver devono essere coinvolti, per garantire una sempre più efficace attività di aiuto. Unire professionalità e disponibilità, attenzione e sostegno, fa parte degli obiettivi del Coordinamento dei Caffè Alzheimer della Lombardia Orientale: essere di aiuto, con cortesia e professionalità, a chi soffre.
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Bibliografia
Berruti N., Avanzini S., Podda F. (2013), Caffè Alzheimer: un progetto per dare una risposta ai bisogni degli anziani affetti da demenza e delle loro famiglie, Psicogeriatria, 1:191.
Boffelli S., Padovani A., Rozzini R., Rozzini L., Trabucchi M., Zanetti O., et al., a cura di, (2013), Il PDTA di diagnosi e trattamento della demenza, ASL di Brescia.
Corcella R. (2014), Gli Alzheimer Caffè, risorsa per l’assistenza, Corriere delle Sera, 13 marzo.
Dröes RM., Meiland FJ., Schmitz MJ., van Tilburg W., (2006), Effect of the Meeting Centres Support Programme on informal carers of people with dementia: results from a multi-centre study, Aging & Mental Health, Mar; 10(2):112-24.
Gaugler JE., Jutkowitz E., Peterson CM., Zmora R. (2018), Caregivers dying before care recipients with dementia, Alzheimers Dement (NY), 4: 688–693.
Miesen BML., Jones GMM. (2004), The Alzheimer Café concept: a response to the trauma, drama and tragedy of dementia, in Jones GGM. and Miesen BML., eds., Care-giving in Dementia. Research and Applications, Vol. 3, Brunner-Routledge, Hove.
Trabucchi M., (2012), Alzheimer Caffè: la ricchezza di un’esperienza, Verona, Unicredit Foundation.