1 Giugno 2007 | Residenzialità

Identità e senso nei percorsi della cronicità

percorsi della cronicità

La letteratura sull’invecchiamento, a partire dal De Senectute scritto da Cicerone nel 44 a.C. fino all’Elogio della vecchiaia di Paolo Mantegazza ed alle numerose pubblicazioni degli ultimi anni (cito solo, del tutto arbitrariamente, La forza del carattere di James Hillman del 2000 e, su un altro versante, le testimonianze di Rita Levi Montalcini, o di Arrigo Levi, o dello psichiatra tedesco Claude Olievenstein), è prodiga di riflessioni apologetiche sulla vecchiaia, l’età in cui sarebbe possibile “portare a compimento il carattere” come scrive Hillman, completare la propria traiettoria esistenziale, liberarsi dei fardelli del superfluo per conseguire la propria piena identità. “Il premio di una vecchiaia riuscita”, secondo Olievenstein (1999) è “la conquista della libertà”.

 

La stessa medicina gerontologica e geriatrica ha d’altra parte costruito il suo corpus dottrinale e i suoi indubbi successi proprio sul rifiuto di un’interpretazione rassegnata e riduttiva della vecchiaia e sulla valorizzazione,  al di là della malattia e della disabilità, delle riserve funzionali, delle potenzialità residue, dei nuovi equilibri possibili. In realtà è ben noto che i percorsi individuali di invecchiamento sono contrassegnati da un’estrema variabilità, in virtù dell’intervento di molteplici fattori di ordine biologico e genetico, ma anche, e soprattutto, di ordine storico, geografico, sociale, economico, psicologico. E non è sempre facile difendere o addirittura portare a compimento un’identità che sembra sgretolarsi nei lamenti del corpo malato, nelle limitazioni funzionali che negano l’automatismo anche ai gesti più semplici, nelle nebbie della memoria, nella solitudine che sopravvive alle perdite e ai lutti.

 

“Chi vive in mezzo ai vecchi (scriveva Norberto Bobbio nel 1996, a otto anni dalla sua morte, nel suo lucido pessimismo –“pessimista di stato d’animo, non di concetto” – si definiva), sa per quanti di loro la tarda età è diventata, anche grazie ai progressi della medicina, che spesso non tanto ti fa vivere ma ti impedisce di morire, una lunga, e spesso sospirata, attesa della morte. Non tanto un continuare a vivere, ma un non poter morire”. Sono parole molto amare, che interrogano a fondo chi come me opera quotidianamente nelle residenze per gli anziani ammalati, nelle RSA, con i più fragili tra i fragili. Certo, le strutture residenziali per gli anziani non sono più i “cronicari” di un tempo.

 

Ma non può lasciarci indifferenti quanto scrive Robert Kane, ancora nel 2000, a proposito delle nursing home americane: “la casa di riposo … è figlia bastarda della casa di carità e dell’ospedale, ed esprime le caratteristiche peggiori di entrambi i genitori. I pazienti ed i professionisti evitano di andarci. È considerata l’ultima spiaggia, proprio come gli ospedali del 19° secolo. Lo stereotipo è quello di un luogo brutto, spesso puzzolente, e popolato da persone fragili e spesso dementi”. Una lettura provocatoria, indubbiamente. Ma è proprio nella RSA, dove più drammatico diventa l’intreccio tra polipatologia, dipendenza funzionale e demenza, dove la convivenza non è scelta, dove tempi e modi del vivere rischiano di rispondere alla ir-razionalità della “logica istituzionale” più che ai desideri/bisogni/ esigenze dei ricoverati, dove aleggia onnipresente l’angoscia della morte, che è difficile, ed è e deve essere un impegno prioritario per noi, proprio perché difficile, aiutare i vecchi a mantenere la propria identità, a conservare o a ritrovare un senso alla propria esperienza di vita.

 

La signora Maria M., nata in Sicilia nel 1912, dalla morte del marito, nel 1980, inizia a presentare i primi sintomi di deterioramento cognitivo, e si trasferisce a vivere con la figlia. È sempre stata, per la figlia, una figura importante: chiusa, introversa, non facile alle confidenze, con una certa tendenza alla malinconia e alla depressione, ma al tempo stesso dolce, materna, accondiscendente (“mi ha sempre lasciata libera di compiere le mie scelte”) e di forte personalità (“mi induceva a fare quello che voleva senza alzare la voce, apparentemente senza forzarmi”). I rapporti col genero sono sempre stati buoni, di reciproco rispetto. Nel 1986, a seguito di una frattura di femore, viene ricoverata nella nostra RSA (la figlia, che ancora lavora, non è in grado di garantire l’assistenza richiesta dalle limitazioni funzionali e dal deficit cognitivo). Nell’arco di qualche anno la sindrome demenziale evolve fino alla perdita totale delle competenze cognitive, alla afasia totale, alla perdita di ogni margine di autonomia: da 12 anni la signora Maria è allettata, con una postura in flessione dei quattro arti; afasica, incapace di ogni movimento spontaneo, anche dello sguardo, viene alzata di peso dal letto e sistemata in carrozzella; presenta turbe disfagiche, viene alimentata con difficoltà con cibi semiliquidi e idratata grazie all’uso di addensanti.

 

La figlia, che nel frattempo è andata a sua volta in pensione, e che ha visto naufragare il suo matrimonio (si è separata, è senza figli), si dedica giornalmente, con amorevolezza, alla madre, dal primo pomeriggio fino al dopo cena: la nutre, la idrata, ne cura la cute, il cavo orale, l’igiene intima, la posiziona nel letto, ne controlla il colorito cutaneo, la temperatura corporea, la qualità del respiro. Da anni, senza un giorno di riposo, senza un’ora di ritardo! Afferma di “essersi rassegnata all’inevitabile peggioramento delle condizioni della madre”, anche se si sente ancora emotivamente ed affettivamente legata a lei e lascia trasparire ancora, a distanza di tanti anni, i sensi di colpa (“avrò fatto bene? avrò agito per il meglio?”), oltre alla stanchezza, sempre attribuita al disagio “fisico”: la distanza da casa alla RSA, il clima …), e ad un forte senso di solitudine (non ha altri parenti, non ha amici, al di fuori dell’ambiente istituzionale, con i quali condividere la sua esperienza). Riconosce di essere forse troppo coinvolta nella vicenda della madre, ma “non poteva e non può farne a meno”, così come non può mancare all’appuntamento quotidiano. Anche perché è convinta di essere ancora in grado di comprendere i bisogni e i desideri della madre, di riuscire a comunicare con lei, ad onta della sua afasia e della sua totale immobilità.

 

Quale identità permane dietro questo volto e questo corpo che da molti anni, almeno così appare, hanno rinunciato ad ogni contatto col mondo? “Una donna vecchia può essere utile semplicemente in quanto figura da apprezzare per il suo carattere. Come un ciottolo sul fondo di un fiume può darsi che si limiti a stare lì, immobile, ma il fiume deve tenerne conto e, a causa della sua presenza, modificare la propria corrente” (James Hillman, La forza del carattere, 2000). Forse il senso di questa esistenza sta proprio nel suo “stare lì, immobile”, da sopravvissuta , verrebbe da dire, nel fluire della vita, nel suo obbligarci a ricostruirne e a riconoscerne l’identità, dietro la maschera dell’amimia, ad interrogarci sul senso della nostra esistenza e del nostro operare. Ma forse questa vecchia mantiene piena la sua identità nella quotidiana relazione con la figlia, la sua vita recupera un senso, più profondo, nell’impegno di cura della figlia: un impegno costante, un donarsi totale, che negli anni ne ha riempito l’esistenza, che le ha consentito di gioire dei pochi frammenti di luce che rompono il buio della lunga malattia; una capacità di pietas che le ha permesso di riavvicinarsi, un paio di anni fa, nella condivisione dell’esperienza del dolore e della malattia inguaribile, al marito separato approdato, nel frattempo, ad una vicina RSA, per concludervi la propria traiettoria di vita.

 

Lucia P. è nata a Nocera Inferiore (SA) nel 1923, e vi è vissuta fino al 1976, quando per seguire il marito si è trasferita a Brescia. Vedova da 24 anni, ha avuto due figli, entrambi morti. A Brescia abitano la nuora e due nipoti. Viveva in un alloggio modesto ma ben tenuto (con l’aiuto dei servizi domiciliari comunali), pieno di mobili, di fotografie, di ninnoli, di bambole. Amava cucire; faceva le carte, leggeva la mano, prediceva il futuro. Affetta da morbo di Parkinson, gonartrosi, artrosi della spalla sinistra con sublussazione della testa omerale, rottura della cuffia dei rotatori a destra, obesità, BPCO e cardiopatia ischemica cronica ed ipertensiva, da un paio d’anni presentava progressive difficoltà nella deambulazione, con andatura a piccoli passi, solo all’interno della sua abitazione. Nel marzo del 2002, dopo un ricovero ospedaliero motivato da un’artrite gottosa, viene trasferita in una RSA per un tentativo di riabilitazione, senza esito. Nel settembre del 2002 entra nella nostra RSA. Cognitivamente integra, con tono dell’umore depresso, è totalmente dipendente nelle ADL (riesce appena a portare una mano al volto, per asciugarsi la bocca, talvolta per mangiare), viene alzata di peso dal letto in carrozzella, dove rimane per quasi tutta la giornata (rifiuta categoricamente di rientrare a letto per un riposo pomeridiano).

 

Dal suo ingresso ha affrontato molti episodi clinici importanti: un’occlusione intestinale da briglia con peritonite stercoracea da rottura di un’ansa ileale, un secondo episodio di occlusione intestinale da aderenze con peritonite purulenta, la deiscenza della ferita chirurgica con una voluminosa ernia in sede di laparotomia, frequenti riacutizzazioni bronchitiche, un episodio di insufficienza respiratoria restrittiva ed ostruttiva da atelettasia del lobo polmonare sinistro per probabile fenomeno ab ingestis. Nonostante questo, Lucia ha continuato a lottare e a restare aggrappata al suo passato, alla sua storia (ricorda quando era giovane, quando andava a ballare ed era ammirata per la sua bellezza; e poi il rapporto col marito; e ancora, dopo la vedovanza, la sua abilità nel tenere la casa, nel cucinare, nel confezionare i vestiti anche per i nipoti), alla sua famiglia (la nuora, e soprattutto i due nipoti, le fanno visita più volte alla settimana). Non si rassegna: piange quando l’alzata ritarda anche solo di un’ora; il tentativo di metterla a dieta (per contenere la diastasi dei retti) è stato presto abbandonato per la sua totale indisponibilità; ben presto si è dovuto rinunciare anche alla dieta per disfagici introdotta dopo l’episodio di ab ingestis, e la prima richiesta di un cibo normale da lei avanzata è stata “la mozzarella di bufala”, che un medico compiacente e un po’ incosciente le ha procurato di persona (d’altra parte ha avuto ragione la paziente: è trascorso più di un anno, e Lucia è riuscita a mangiare, senza problemi (e senza denti!) anche la pizza). Attualmente un’importante macroglossia si è aggiunta alla disfonia extrapiramidale, ed al suo stretto accento campano, nel renderle sempre più difficile farsi comprendere: spesso non è sufficiente un supplemento di pazienza, devono essere chiamati a soccorso i nipoti, o qualche operatore meridionale. Non è un’ospite facile, la signora Lucia (non lo è mai stata, nemmeno quando era seguita a domicilio).

 

Non riesce a rassegnarsi all’immobilità forzata, e se ne lamenta. Ci tiene ad essere ben vestita, truccata, pettinata. Vorrebbe più disponibilità al colloquio, si irrita se non riesce a farsi capire. Desidera soprattutto un rapporto privilegiato: col medico, con la fisioterapista, con i nipoti. Il volto di Lucia, il suo corpo prigioniero delle distonie extrapiramidali, la sua voce che si spegne presto in un soffio incomprensibile, non appaiono diversi dai volti inespressivi, dal corpo immobile, dai silenzi di altre donne, prigioniere della fortezza della demenza. Ma cercano ancora, disperatamente, di conservare un’identità, di riaffermare il senso di un’esistenza ferita ma non ancora piegata. Spetta a noi seppellirla anzitempo sotto l’indifferenza della routine assistenziale, o aiutarla a sentirsi ancora, come lei fortemente vuole, una donna speciale.

 

Perché anche là dove non è possibile spezzare i vincoli della cronicità, possiamo almeno tentare, come ci suggerisce Louis Ploton, di “risvegliare il piacere di vivere in coloro che si affidano a noi, accettando le nostre cure”.

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