Superano ormai il milione gli over 65enni residenti in Emilia-Romagna all’1 gennaio 2019 e rappresentano il 23,9% della popolazione, percentuale che potrebbe salire al 28% nei prossimi 15 anni; di questi, oltre 360mila hanno più di ottant’anni. La presenza di persone anziane nelle famiglie è di oltre una su tre (38%) e più di una famiglia su quattro (26%) è composta interamente da anziani (Regione Emilia-Romagna, 2019).
Da questi dati emerge l’immagine di una società che invecchia, dentro la quale sono in atto diversi fenomeni che vanno indebolendo sensibilmente la capacità delle famiglie di prendersi cura dei propri membri fragili:
- la ripresa del sistema delle imprese (che ha ricostituito solo in parte la base produttiva persa durante la prolungata recessione del periodo di crisi) favorisce la crescita della povertà e della precarietà occupazionale;
- il quadro demografico vede una significativa crescita della sopravvivenza, ma un altrettanto marcato calo della natalità, un crescente squilibrio nella struttura per età della popolazione ed un innalzamento del tasso di dipendenza;
- il processo di semplificazione delle strutture familiari crea la contrazione del numero medio di componenti e un aumento di solitudine delle famiglie monoparentali e uni personali;
- i tempi di lavoro sono sempre più totalizzanti e costringono una continua riorganizzazione dei tempi di vita familiare e una progressiva delega delle funzioni di cura a soggetti esterni alla famiglia.
Il welfare e le sfide dell’invecchiamento
Governare i cambiamenti avvenuti con grande rapidità, non è sicuramente facile, e spesso il sistema di offerta dei Servizi non è sufficientemente flessibile da adattarsi e rispondere adeguatamente ai bisogni della collettività. Senza considerare poi, gli effetti che questi cambiamenti producono sul sistema economico e sociale, quali l’aumento della spesa sociale (dovuto ad una crescita delle uscite per pensioni, sanità e assistenza) ed un indebolimento delle funzioni di cura e di assistenza delle famiglie che, nel momento in cui riducono il numero dei componenti, diventano più instabili.
Il modello di welfare più tradizionale è oramai superato, e lo Stato non è più l’erogatore principale di servizi. Mentre il sistema delle politiche sociali si interroga e si ridefinisce, si aprono anche, spazi per nuove tipologie di risposte ai bisogni, diverse da quelle tradizionali di Stato e famiglia, che vede il coinvolgimento dell’iniziativa privata, sia non profit che pro profit che “non sostituisce o elimina l’intervento pubblico, ma lo affianca” (Borzaga e Fazzi, 2013).
Il ruolo dello Stato, da fornitore delle prestazioni, diviene progressivamente quello di regolatore e di facilitatore dell’azione di altri soggetti, senza intaccare le sue principali responsabilità nei confronti delle funzioni di programmazione e controllo, di fondamentale importanza per i cittadini (Cfr. Breda, Micucci e Santanera, 2001).
Tra coloro che non ricevono sostegno da parte della rete pubblica dei servizi sociali o dalla rete di cure informali, nascono nuove forme di assistenza privata a pagamento che hanno dato vita al recente mercato privato delle Case Famiglia, organizzate in forma di cooperative, s.r.l., associazioni di volontariato o imprese individuali.
Lo sviluppo delle Case Famiglia
Le Case Famiglia hanno avuto origine tra l’inizio degli anni sessanta e la fine degli anni settanta, da esperienze di condivisione diretta con persone in situazione di disabilità, confinate in istituti nei quali l’attenzione era posta soprattutto sulla patologia e non sull’inserimento sociale e relazionale. Con questo intento, nasce nel 1964, in provincia di Arezzo, la prima Casa Famiglia dell’Opera Assistenza Malati Impediti (OAMI) per potere inserire i disabili in una piccola comunità.
In Emilia-Romagna, la prima Casa Famiglia nasce nel 1973 nell’ambito della Comunità Papa Giovanni XXIII, in Provincia di Rimini, e si tratta di un’accoglienza svolta da una famiglia nei confronti di persone disabili e fragili. Le prime Case Famiglia per anziani risalgono a quindici anni fa, quando in alcune zone del Nord Italia nascono le prime sperimentazioni.
Le Casa Famiglia sono piccole strutture di tipo familiare con sede nelle civili abitazioni, i cui requisiti sono contenuti nel Decreto del Ministero della Solidarietà Sociale n.308 del 21 maggio 2001, emanato ai sensi dell’art. 11 della legge 8 novembre 2000 n. 328, che le definisce come “comunità di tipo familiare con funzioni di accoglienza a bassa intensità assistenziale, che accolgono fino a un massimo di sei persone in difficoltà, per i quali la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o permanentemente impossibile o contrastante con il progetto individuale”. Il Decreto si limita a fissarne i requisiti strutturali ed organizzativi, demandando alle Regioni il compito di recepire ed integrare, in relazione alle esigenze locali, i requisiti fissati.
Nascono su iniziativa di soggetti privati e godono di un’autonomia tale da consentire ai soggetti gestori di definire tariffe per i servizi erogati, standard qualitativi delle prestazioni e condizioni di lavoro.
E’ la risposta numericamente insufficiente della rete dei servizi ai bisogni assistenziali degli anziani e delle loro famiglie, a creare le condizioni per lo sviluppo delle Case Famiglia. Queste strutture sono orientate all’accoglienza di un target molto particolare, ovvero quegli anziani che, per le loro condizioni, pur non necessitando di un inserimento in una Casa Protetta, non possono comunque permanere al proprio domicilio e contesto familiare perché privi di un supporto continuativo per agire (e mantenere) la propria autonomia.
Scegliere di rivolgersi a queste strutture dipende da alcuni fattori in grado di modificarne l’adozione o meno da parte delle famiglie: risorse a disposizione dell’anziano, risorse a disposizione della rete familiare, presenza del coniuge dell’anziano, cultura solidaristica della famiglia, condizioni di salute dell’anziano. Oppure si sceglie la Casa Famiglia quando l’anziano non risulta essere destinatario, in base alle normative vigenti, di altre tipologie di servizi, perché non ne ha i requisiti, come il livello di autonomia, o mancano i posti e le liste di attesa per l’inserimento in altre tipologie di servizi sono troppo lunghe, o, infine, vi è un rifiuto da parte dell’anziano e/o dei familiari di ricorrere a forme di assistenza privata a pagamento, quali le badanti.
Le Linee guida per le Case Famiglia in Emilia-Romagna
I requisiti e le procedure per l’autorizzazione al funzionamento dei servizi socio sanitari e sociali in Emilia-Romagna sono stati definiti con Delibera della Giunta Regionale n. 564 del 2000, così come previsto dall’articolo 35 della Legge Regionale n. 2 del 2003 “Norme per la promozione della cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi”. La delibera include le Case Famiglia per anziani e disabili adulti fra le strutture non soggette all’obbligo di autorizzazione al funzionamento, né ad alcuna forma di convenzione o accordo con gli enti istituzionali per l’esercizio della loro attività, ma tenute unicamente alla Segnalazione certificata di inizio attività “SCIA” al Sindaco del Comune del territorio, entro 60 giorni dall’avvio dell’attività medesima.
Il rapido sviluppo di queste realtà che vedono coinvolta una fascia di popolazione sempre più vulnerabile, ha incominciato ad interrogare la Rete dei Servizi e le politiche sociali, sulla necessità di riconoscerne una giusta valorizzazione, al di là del processo di commercializzazione che le sta investendo, anche in termini di vigilanza e controllo per garantire, al loro interno, un livello di assistenza adeguato ai bisogni delle persone che accolgono.
Con questo intento, a seguito di una crescente presenza di queste realtà sul territorio – nel 2018 si contavano 337 strutture con 1.964 posti di accoglienza – la Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con l’ANCI Emilia-Romagna, ha avviato a partire dal 2015 un percorso di conoscenza più approfondita delle Case famiglia, partendo da una ricognizione dell’esistente, attivando un gruppo di lavoro dedicato ed infine, invitando i Comuni a predisporre uno specifico piano biennale di vigilanza straordinaria sulle case Famiglie che prevedesse di raggiungere il 50% delle strutture entro il 2017 e il 100% entro il 2018. Dai dati raccolti, è emerso che alcuni dei Comuni più interessati al fenomeno avevano adottato specifici regolamenti con la finalità di tutelare la sicurezza degli ospiti, ma tuttavia essi si differenziavano per le misure concrete adottate. Al fine di promuovere una maggiore omogeneità tra i singoli territori comunali nei livelli minimi da garantire per la tutela della salute e della sicurezza degli ospiti delle Case famiglia, la Regione Emilia Romagna ed ANCI hanno ritenuto opportuno elaborare degli specifici “Indirizzi regionali per i regolamenti locali sulle Case famiglia”, con la collaborazione e la condivisione di Organizzazioni sindacali, Associazioni di pazienti e famigliari, esperti dei Comuni e delle Aziende Usl, Comitati Consultivi Misti.
Gli indirizzi regionali, oltre a definire regole omogenee e chiare per tutti, mirano a promuovere la sicurezza delle attività nelle Case Famiglia, favorendo una strutturata attività di vigilanza nonché disciplinare e qualificare l’iniziativa privata richiamando elementi strutturali, organizzativi necessari per l’avvio e l’esercizio dell’attività.
Esse prevedono anche, la redazione di specifici elenchi comunali per promuovere e dare visibilità alle strutture più meritevoli, che possiedono elementi migliorativi per la qualità della vita e dell’assistenza degli ospiti, quali: il comfort abitativo, la qualità e la varietà di attività promosse, i servizi aggiuntivi forniti, il livello di qualificazione e aggiornamento del personale, la prossimità nei confronti della comunità, del vicinato, la partecipazione del volontariato e dei familiari. Inoltre, sempre al fine di promuovere un servizio di qualità, un recente intervento legislativo dell’Assemblea Legislativa Regionale (art 36. LR. N. 11/2018) ha previsto la verifica dei requisiti di moralità dei soggetti gestori delle case famiglia, quale presupposto per l’esercizio dell’attività.
Poiché l’ambito territoriale privilegiato per promuovere lo sviluppo di strumenti di regolazione uniformi è rappresentato dall’ambito distrettuale, la Regione ha invitato i territori a recepire le linee di indirizzo all’interno di specifici regolamenti.
Le Linee guida nella Provincia di Parma
Il territorio di Parma, sul quale insistono circa 40 Case Famiglia con oltre 200 ospiti, ha scelto di promuovere invece, uno strumento di regolamentazione a livello provinciale, costituendo un gruppo di lavoro interno alla Direzione delle Attività Socio Sanitarie dell’Azienda USL di Parma, composto da professionisti sociali e sanitari, appartenenti ai quattro Distretti.
Il gruppo, costituitosi alla fine del 2018, partendo dalle Linee di Indirizzo regionali ed esaminando i Regolamenti preesistenti dei Comuni di Parma, Sorbolo-Mezzani, Salsomaggiore, Sissa-Trecasali e Medesano dove sono presenti le Case Famiglia, ha elaborato le “Linee guida per la definizione di un regolamento per la disciplina e la qualificazione dell’assistenza in Casa famiglia per anziani”, approvate in Conferenza Territoriale Sociale e Sanitaria nel novembre del 2019.
Foto di Gianni Crestani da Pixabay
Bibliografia
Borzaga C., Fazzi L. (2013), Manuale di politica sociale, Milano, Franco Angeli.
Breda M.G., Micucci D., Santanera F. (2001), La riforma dell’assistenza sociale e dei servizi sociali. Analisi della Legge 328/2000 e proposte attuative, Torino, UTET Università.
Regione Emilia-Romagna, Rapporto sociale Anziani, aggiornamento 2019, Regione Emilia-Romagna.