La recente approvazione del Decreto del Ministro della Salute 10 dicembre 2019, n. 168 (Regolamento concernente la banca dati nazionale destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento) ha, per il momento, messo un primo sigillo alla lunga e difficile stagione iniziata con l’approvazione della Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento). Con questa norma il legislatore ha rimodulato il rapporto giuridico tra il medico ed il paziente valorizzando una nuova e più moderna forma di relazione di cura, centrata sull’incontro tra l’autonomia decisionale del primo e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del secondo, aprendo finalmente la strada al living will (testamento biologico), coerentemente a quanto previsto dal Codice di deontologia medica. Così la persona medesima è legittimata al deposito anticipato della sua volontà riguardo a future opzioni di cura.
Nella Legge n. 219/2017, per vincoli di bilancio, si era rinunciato all’idea di istituire la banca dati informatica delle dichiarazioni anticipate di trattamento; successivamente con la Legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), all’art. 1, comma 418, è stata prevista la sua istituzione presso il Ministero della Salute ed il suo finanziamento a carico dell’erario dello Stato. Pur non essendo convinto che la stagione della regolamentazione giuridica del fine vita si sia definitivamente conclusa, vista la recente apertura all’aiuto al suicidio operata dalla Corte cost. (sentenza n. 242/2019), ritengo che una seria riflessione sui contenuti della Legge n. 219, approvata a conclusione della XVII legislatura, debba essere fatta perché, molte sono ancora le incertezze e le ambiguità che si colgono nel confuso dibattito professionale, rinvigorite, spesso, dalle pregiudiziali ideologiche di chi difende la sacralità della vita e di chi, per contro, anela alla sua piena disponibilità.
Le dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) e la pianificazione condivisa della cura
La Legge n. 219 del 2017 ha previsto due generali scenari entro i quali può essere collocato il diritto della persona di depositare in forma anticipata la sua volontà riguardo a future opzioni di cura:
- la persona sana, maggiorenne, capace di intendere e di volere (art. 4);
- la persona, sempre maggiorenne, capace di intendere e di volere, affetta però da una patologia cronica e invalidante o caratterizzata dalla sua inarrestabile evoluzione infausta (art. 5).
Nella prima ipotesi la Legge prevede che le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) possano essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente all’ufficio dello stato civile del comune di residenza, che provvede alla sua annotazione in un apposito registro, oppure può essere consegnata presso le strutture sanitarie pubbliche. Con questa procedura, la persona è così in grado di esprimere le proprie personali volontà riguardo alla cura, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici, a scelte terapeutiche ed a singoli trattamenti sanitari, attraverso la nomina purtroppo facoltativa, nella dichiarazione anticipata, di un fiduciario al quale affidare la propria rappresentanza nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
Nella seconda ipotesi, la Legge prevede, invece, che la persona malata può pianificare in anticipo le scelte di cura ragionevolmente prevedibili lungo la traiettoria di malattia, prevedendo che il medico e l’equipe sanitaria debbano ad esse attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter più esprimere il proprio consenso a causa della sua intervenuta incapacità. Anche in questo documento, la persona può indicare il suo fiduciario e prevedere, ancora, le situazioni in cui il team di cura può derogare dalla volontà espressa: esse sono individuate dalla norma o nell’ipotesi di una loro palese incongruità, ovvero nell’ipotesi di scoperta di terapie nuove, non prevedibili all’atto della sottoscrizione del documento, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.
Percorsi, quindi, proceduralmente differenziati, sia pur con alcuni punti di contatto: nella prima situazione, la persona esprime una volontà riguardo ad opzioni di cura assolutamente non prevedibili, anche se pur sempre possibili (ad es. il testimone di Geova che rifiuta la trasfusione di sangue); nella seconda ipotesi, la pianificazione condivisa della cura riguarda terapie ed opzioni terapeutiche, che dovranno essere realisticamente approntare, tenuto conto della traiettoria della malattia da cui è realmente affetta la persona (come avviene, ad es., nel caso di pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica in riferimento all’esigenza della loro ventilazione meccanica e nutrizione assistita).
Le criticità ed i punti dolenti della norma sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento
La norma in questione contiene molte conferme (prima tra tutte il dovere di rispettare la volontà del paziente espressa nell’attualità o in forma anticipata) e pochissime reali novità (tra queste, l’introduzione della figura del fiduciario), con una serie di criticità che occorre qui affrontare soprattutto in riferimento alla persona anziana, spesso affetta da un disturbo cognitivo. Perché la Legge 219/17 subordina la competence to consent della persona alla capacità di agire (art. 1, comma 51), rinunciando a quel necessario randevu, che si sarebbe dovuto tentare per provare a bilanciare la tradizione (filosofica, scientifica e neurobiologica) dell’autonomia morale con le figure fissate dall’antropologia giuridica.
L’antropologia giuridica, non considera tale competenza come una nostra attitudine biografica, individuandola nella possibilità concreta di compiere atti giuridici, mediante i quali si acquisiscono diritti e si assumono doveri (art. 2 c.c.2). La competence to consent è così subordinata al raggiungimento della maggiore età ed alla capacità di discernimento, di comprensione e di decisione (art. 3, comma 13), fino a confonderla con la capacità di intendere e volere (art. 4, comma 14). Un errore davvero imperdonabile, perché la capacità di agire e quella di intendere e di volere non sono un’endiadi come comunemente si crede, visto e considerato che la stessa legge sull’amministrazione di sostegno evita questi discutibilissimi riferimenti categoriali parlando, in maniera scientificamente più appropriata, dell’incapacità della persona di svolgere in piena autonomia gli atti della vita quotidiana.
Come ben sanno molti di noi che si occupano della valutazione multi-dimensionale della disabilità, gli atti della vita quotidiana non sono certo definibili in astratto a partire da un elenco valido per tutte le persone e per tutte le età della vita, essendo consapevoli che il funzionamento di una persona in età lavorativa debba essere esplorato con domìni diversi da quelli di un centenario o di un neonato di qualche mese. E ciò non per mettere in discussione la dignità di questi ultimi, quanto per ricercare quali sono realmente gli atti quotidiani della vita di persone che ben difficilmente possono reggere l’esercizio di un’attività sportiva, di coltivare hobbies, di avere una vita familiare adeguata, di avere un mondo relazionale più o meno ampio e di produrre, naturalmente, un reddito da lavoro capace di autosostentare le loro vite.
Capacità di agire, maggiore età, capacità di discernimento, capacità di comprensione, capacità di decisione, grado di maturità, capacità di intendere e di volere e incapacità; sono tante locuzioni che si alternano in maniera confusa e poco strutturata nella legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, con una gergalità discutibilissima sul versante tecnico e spesso fuorviante, coerente però con la reale intenzione del legislatore che funge da sua architrave portante: trasferire la questione del consenso alle cure all’interno dei rapporti giuridici privatistici/negoziali, visto anche l’esonero dalla colpa (sia civile che penale) del professionista che rispetta la volontà della persona, senza alcuna apertura a quei modelli comparativi che collocano il consenso alle cure nella dimensione delle scelte sostanzialmente morali.
Ammettendo che ogni scelta umana, dalla più semplice alla più complessa, non può mai essere scissa dai nostri personali tratti biografici, dai nostri valori di riferimento, dal nostro sensibile sentire, dal senso che diamo alle nostre esistenze terrene, dalle relazioni e dagli affetti che ci circondano e nei quali ci rispecchiamo, da ciò che siamo e vogliamo diventare e dalla memoria che vogliamo lasciare di noi dopo la nostra morte. In queste irripetibili (perché uniche, personali) declinazioni del vivere prende forma la dimensioni soggettiva (o non astratta) della dignità umana, la quale stenta a tenere il passo con il suo archetipo astratto e, naturalmente, con la rigidità della capacità di agire, che considera competent la persona capace ex lege o, ancor più rozzamente, quella non ancora sottoposta a misure di protezione giuridica. Quasi a dire che se non sono state ancora attivate misure di protezione giuridica, la persona deve essere considerata sempre e comunque capace pur essendo, come ben sanno i molti di noi che frequentano professionalmente le corsie, tutt’altra la realtà delle cose.
L’art. 35della nuova norma prevede così che, nel caso del minore, il consenso o il rifiuto alla cura debba essere espresso dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, tenendo conto della volontà del minore stesso. Nel caso dell’interdetto è previsto che sia il tutore ad esprimere o a rifiutare in consenso, sentita, ove possibile, la persona; che la persona inabilitata o quella in amministrazione di sostegno possano, invece, esprimere (di regola) personalmente il consenso o il dissenso, anche se per quest’ultima forma di tutela giuridica (teoricamente la più mite in termini di rappresentanza sostitutiva), può/deve intervenire anche l’amministrazione di sostegno, tenuto conto della volontà dell’interessato e della sua capacità di intendere e di volere (art. 3, comma 46).
Con questa formula viene riproposto un ruolo (per così dire) suppletivo, difficile da condividere, essendo il ruolo dell’amministratore di sostegno per definizione non sostitutivo, ma piuttosto finalizzato a supportare le residue capacità della persona (ciò che, dunque, c’è ancora e non quel che manca, permanentemente o temporaneamente). La norma del 2004, che ha istituito questa figura di rappresentanza, si riferisce infatti, non già alla capacità di agire né a quella di intendere e di volere, ma alla sola riduzione dell’autonomia personale provocata da menomazioni di natura sia fisica che psichica; pertanto non si comprende quali siano i reali effetti e la portata di quel tener conto della volontà dell’interessato e della sua capacità di intendere e di volere, vista la ratio di quella riforma che, del tutto appropriatamente, mai fa riferimento a questa categoria giuridica, che attualizza i suoi effetti nel solo ambito della sfera patrimoniale della persona.
A questa criticità si accompagna un’altra discutibilissima previsione contenuta nella Legge n. 219/2017 nella parte in cui essa rinvia alla giurisdizione (al giudice tutelare) la soluzione delle pur sempre possibili controversie che possono nascere tra i rappresentanti legali della persona ed il medico, nell’ipotesi in cui i primi rifiutino le cure ritenute appropriate e necessarie per la cura della persona protetta, non configurabili quindi come mero accanimento terapeutico; soluzione poi prevista anche nel caso in cui, nel rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento, sorgano analoghi problemi di vedute tra il medico ed il fiduciario nominato dalla persona (art. 4, comma 5).
Ora, se può essere da un lato comprensibile che il medico non debba essere mai lasciato solo nelle non insolite conflittualità che sorgono in seguito a difformità di vedute riguardo alle scelte cliniche, rinviare la loro soluzione alla giurisdizione ordinaria ed all’attuale struttura processuale significa di fatto annullare la funzione di garanzia pubblica ricoperta dal medico medesimo, trasformandolo in un funzionario pubblico delegittimato dalla sua funzione di garanzia e privato della sua più autentica autonomia e responsabilità, proprio riguardo a quelle persone, che in virtù della loro particolare fragilità, richiedono sempre un sussulto di umanità, per usare le parole di Papa Francesco.
A fronte di queste criticità, occorre riflettere su due ulteriori questioni per verificare:
- se la recente norma sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento abbia o meno interrotto quell’asse interpretativo in ragione del quale risultano insindacabili gli atti personalissimi, ovverosia quelli afferenti a diritti costituzionalmente garantiti come la salute (art. 32 Cost.7);
- a quale autorità morale debba essere data la preferenza nell’ipotesi in cui la persona esprima una scelta di cura diversa da quella dell’amministratore di sostegno.
Per dirlo con altre parole occorre chiedersi se, riguardo al diritto di accettare o di rifiutare la cura, valga sempre il principio della rappresentanza legale (qualunque essa sia) o se, al contrario, in questa ipotesi debba essere comunque rimessa all’interessato la scelta in ordine alla decisione da adottare trattandosi di un diritto personalissimo (così Cass. Civile, 21 luglio 2000 n. 9582), le cui intersezioni con la dignità umana sono di ampia evidenza. Perché quest’ultima non può essere certo selezionata sulla base delle nostre personali scale valoriali, senza con ciò violare la sfera di libertà riconosciuta ad ogni persona umana dagli artt. 2 e 3 della Costituzione.
La questione è naturalmente complessa per molte ragioni, perché se è pur vero che restano vitali le incapacità speciali della persona sottoposta a tutela giuridica (il divieto di contrarre matrimonio, di riconoscere i figli e di redigere il testamento) – non essendo state le relative norme abrogate dalla Legge del 2004 – non così può dirsi per gli atti personalissimi, che non possono certo essere compiuti dal rappresentante legale, nemmeno nell’ipotesi di interdizione, visto che questo istituto giuridico esaurisce i propri effetti nell’ambito della sfera patrimoniale. Tale complessità sopravvive (ed è bene che sia così vista la caratura dei diritti in gioco) nonostante il pericolosissimo revirement compiuto dalla nuova Legge che, proprio all’art. 3, conferma la sua profonda discutibilità con l’evidente destabilizzazione e sovversione della gradualità delle tutele giuridiche, avendo posizionato l’amministrazione di sostegno tra l’interdizione e l’inabilitazione.
Ogni tentativo di semplificazione rischia di tradursi in un’operazione rozza, non solo perché il modello della capacità sotteso alla Legge è dichiaratamente in crisi, ma anche perché, quando si affronta in prospettiva etico-pratica il problema degli incapaci, rispettando le graduazioni quali-quantitative del vizio di mente e quelle della fragilità che l’esperienza clinica ci consegna nella quotidianità, le situazioni sono straordinariamente diverse, mai simili, fenotipicamente instabili nonostante l’apparente ed ingannevole fissità della nosografia scientifica.
Conclusioni
Fare un bilancio di una legge, che ha provato a dare un nuovo equilibrio ai rapporti giuridici sottesi alla cura, non è certo un’operazione semplice e, molto probabilmente, i tempi non sono ancora maturi per farlo, pur essendo difficile sottoporre ad un esame di realtà le nostre personali impressioni con l’ottimismo della ragione. Non solo perché la norma in questione è stata approvata alla fine di una stanca legislatura per probabili ragioni di consenso elettorale, essendo occorsi due anni per dare effettività a quella banca dati informatica, senza la quale sarebbe stato davvero aleatorio garantire il pieno rispetto della volontà espressa dalla persona in forma anticipata. Ma soprattutto perché davvero isolate e sporadiche sono state le iniziative locali che avrebbero dovuto sostenerla superandone anche le profonde criticità e le (volute) distanze, che hanno sempre mantenuto le leadership aziendali e le Società scientifiche italiane (con la sola eccezione della Associazione Italiana di Psicogeriatria); esse avrebbero dovuto rendersi conto di alcune straordinarie opportunità consolidate dalla norma in questione, che valorizza la relazione e la comunicazione come tempo (e luogo) di cura. Affermazione straordinaria, che però cede le armi alle previsioni contenute nell’art. 6 della norma: l’invocata parità delle risorse ed i vincoli di bilancio non possono essere sempre la clava usata per scardinare l’effettività dei diritti annunciati.
Risulta parimenti riprovevole la rinuncia delle strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale ad agire quel ruolo auspicato dalla norma: la promozione, la sensibilizzazione e la formazione dei professionisti. Certo: qualche colpa ce la dobbiamo pur assumere anche noi professionisti perché non possiamo sempre giocare la carta dello scaricabarile delle responsabilità di arendtiana memoria. Dovendoci far carico delle questioni che riguardano le persone malate, soprattutto di quelle più fragili e deboli, con rinnovato impegno e responsabilità.
Note
- Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
- La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa.
- La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà.
- Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonchè il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
- Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità.
- Il consenso informato della persona inabilitata è espresso dalla medesima persona inabilitata. Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere.
- La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Bibliografia
Bibliografia consigliata
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