1 Marzo 2008 | Editoriali

Editoriale
Oltre la cronaca. La patologia della normalità


Questa notizia è stata pubblicata in pagina interna della cronaca milanese di Repubblica, il 17 gennaio 2008:

Titolo su due colonne: “La donna aveva l’Alzheimer; la tragedia in provincia di Varese” UCCIDE LA MOGLIE MALATA. L’articolo poi descrive e commenta il fatto: “…sembrava una di quelle giornate tutte uguali che accompagnano la vecchiaia di tanti anziani coniugi della provincia varesina appoggiata all’Olona…e invece il matrimonio di AM, 72 anni,…è finito nel modo più tragico: uccidendo la moglie,…di dieci anni più giovane di lui ma affetta da sette dal morbo di Alzheimer… Nessuno può ancora credere che A abbia ammazzato sua moglie: i due coniugi, entrambi in pensione, avevano una bella casa, due figli grandi con un buon lavoro, un matrimonio lungo e quieto…”.

 

Questa “patologia della normalità”, come la chiamerebbe Eric Fromm, non ha più la dignità né l’eccezionalità delle prime pagine: viene relegata in cronaca locale, come se un po’ce lo aspettassimo, come se il portato di disperazione e solitudine che accompagna la vita di chi si prende cura dei malati di demenza fosse intrinsecamente ineliminabile. Triste ma inevitabile.

 

In ogni delitto convivono reato e tragedia, ma in questo caso la tragedia prende decisamente il sopravvento sulla notizia di reato. Solo che non è una tragedia altrui, è una tragedia “nostra”, di noi come medici, infermieri, terapisti, psicologi, assistenti sociali che ci occupiamo di anziani in difficoltà; ci riguarda da vicino come ci riguardano da vicino tutte le sconfitte che mettono in evidenza la grande debolezza del sistema di sostegno che viene dedicato ai malati di demenza. Eppure, il fatto non è successo in una landa desolata, o in una metropoli spersonalizzante e anonima, e neppure nel solito e stereotipato sud d’Italia dove per tradizione “mancano i servizi”, ma nella ricca provincia di Varese, in un piccolo paese a misura d’uomo, vicino a città animate e ben organizzate. Forse occorre farsi qualche domanda per cercare almeno una traccia delle ragioni possibili, e trovare le ragioni, se ve ne sono, di atti che è fin troppo facile riferire solo allo stato d’animo dei singoli, ai “raptus” improvvisi.

 

La prima e più naturale considerazione riguarda il ruolo del caregiver. Molto si è scritto sulla giornata di 36 ore di chi assiste un malato di demenza, forse troppo rispetto al poco o pochissimo che si è poi effettivamente fatto. Infatti, spesso, chi è in situazione di grave stress, al punto da avviarsi verso il “burn out”, si chiude in una impossibile autosufficienza che non chiede aiuti, non ricerca contatti, non esprime il proprio disagio. In una ricerca sui familiari delle persone con demenza dimesse dal reparto di ricoveri temporanei del nostro istituto, il livello di stress risultava molto più alto in chi affermava di non aver bisogno di aiuto al domicilio, rispetto a chi invece ammetteva di necessitare di aiuti; così, il livello di stress di chi era parente di una persona con demenza ricoverata in RSA era più basso, e di molto, rispetto ai famigliari di chi era in ricovero temporaneo. C’è quindi il rischio concreto che quando si attuano iniziative di sostegno ai parenti, la selezione avvenga negativamente, cioè partecipino quei famigliari che già sono propensi alla relazione di aiuto, e meno stressati, rispetto a quelli che sono più stressati e più ne avrebbero bisogno, ma che proprio per questo rifiutano di accettare aiuti esterni.

 

Inoltre, nella stessa ricerca si è visto che gli altri elementi che aumentano lo stress sono la coabitazione ed essere coniuge: in questo caso la presenza dei figli, se ci sono, non modifica in modo sostanziale i livelli di stress di chi accudisce in modo principale. Nel caso riportato, questi elementi c’erano tutti, con l’aggiunta del fatto, non usuale ma non più eccezionale, che il caregiver era un maschio, il marito. Tutti coloro che si occupano di studiare il processo di accudimento di malati gravi, come sono quelli con demenza, concordano sul fatto che la rete famigliare e di amicizie si riaggiusta di fronte al bisogno, ma in modo gerarchicamente molto differenziato: alla fine il “caregiver” è sempre uno, mentre altri si ritagliano il ruolo di “helpers”. I figli, magari con una presenza più assidua e significativa, mentre il resto della famiglia, fino a pochi anni fa in Italia molto presente, tende più a fornire sostegno di relazione e di appoggio che effettivo (in pratica fratelli, cugini, nipoti, mantengono contatti telefonici), preoccupati, sì, ma anche sollevati dal fatto di non essere direttamente coinvolti nell’assistenza. In qualche modo, di fronte al bisogno, il marito che accudisce una moglie con Alzheimer resta solo, anche se apparentemente non lo è.

 

Certo, la presenza di un aiuto esterno ed esteso nell’arco della giornata, come quello dell’assistenza privata personale, fornita oggi per lo più da donne straniere, contribuisce a diminuire i livelli di stress, mentre il solo aiuto economico non raggiunge questo obiettivo. Eppure, anche in questo caso, quasi sempre il famigliare resta il caregiver che deve prendere le decisioni, organizzare, affrontare gli imprevisti, che, quindi, è sempre con il cellulare acceso quando non è presente fisicamente nel dare assistenza. Ma nel caso di cui si scrive pare che non fosse neppure stata cercata questa soluzione, forse segno di un alto livello di stress che l’ambiente non ha avvertito.

 

Il secondo elemento di riflessione riguarda quell’“avevano una bella casa”. Forse anche la scelta di una famiglia sempre più nucleare e sempre più chiusa in quelle “villette”, che sono la realizzazione di un sogno, ha contribuito a creare la tragedia. A molte persone, oggi al di sopra dei settanta anni, questo elemento di sicurezza ha regalato l’illusione di essere al riparo per sempre dai problemi, dalla insicurezza, dai mali del mondo: per questo la casa di proprietà è stata l’obiettivo di intere generazioni. Infatti, gli anziani oggi sono proprietari del loro alloggio in una percentuale che, ad esempio, in Lombardia supera l’80%,rispetto al 71,6% della popolazione generale (Il Sole 24 ore; supplemento al 25 novembre 2006 “Economia e Terza età” rapporti).Questo dato fa capire come l’acquisto della casa abbia rappresentato la meta principale del risparmio, quasi un progetto di vita della grande maggioranza delle persone che oggi hanno più di 65 anni.

 

Il luogo di vita, la casa, lo spazio di relazione hanno un’importanza cruciale nel definire il successo o l’insuccesso dell’invecchiamento personale e sociale, tanto da far dire a Gilbrain che la casa “è il nostro corpo più grande”. Si pensi alla vera tragedia, anche fisica, rappresentata dalla violazione dello spazio privato; una delle cause di depressione e anche di suicidio per gli anziani è subire un furto o una rapina in casa propria, ma anche solo una truffa. In questa casa, in questo spazio, ci si rinchiude quando ci si ammala, quando si è fragili, quando si cerca serenità. La demenza del coniuge interrompe questo sogno brutalmente e lo trasforma in un incubo, in una intrusione dentro all’ultimo spazio libero da angoscia che, proprio per quello, è valso sacrifici e investimenti, che ora però non vengono ripagati.

 

Per la demenza non esiste infatti uno spazio giusto, sicuro, perché spesso il proprio spazio non viene più riconosciuto e l’ambiente da amico diviene estraneo, da sicuro fonte di pericoli e di paure, da cui si vuole fuggire. Nella demenza vissuta in villetta, nella coppia vi è tutta insieme la tragedia della malattia non curabile, della persona che diventa altro da sé e non gratifica chi l’assiste, della solitudine, della perdita della speranza ma anche dell’infrangersi del significato del luogo di vita, di quello che si immaginava essere il luogo costruito per difendersi dalle cattiverie del mondo e che non diventa automaticamente un accettabile luogo di cura. Si è investito tutto lì ed ora non vi sono alternative; si chiude il mondo di fuori, ma se viene meno quello che è stato scelto come spazio esclusivo non c’è più un intero mondo, là fuori, dove cercare altri luoghi, altre relazioni, altri equilibri.

 

La terza considerazione riguarda i servizi sociali. In questo gioco al massacro (non solo metaforico, come si vede) a cui vengono guidati gli anziani, vi sono certo anche colpe dei servizi, primo fra tutti quelli comunali, che assistono con evidente sollievo a questa diminuita richiesta che viene dal mondo degli anziani che cercano di risolversi da soli le loro difficoltà comprando assistenza privata o affondando nella disperazione. In questi decenni, infatti, la spesa dei comuni,almeno quelli lombardi, per l’assistenza agli anziani, è andata progressivamente diminuendo. Ma anche la modalità stessa di intervento si è profondamente modificata. Ogni azione di programmazione e di conoscenza del proprio territorio dal punto di vista delle fragilità sociali, dei casi di disagio prima ancora che di vera perdita di autonomia, è stata abbandonata mascherandola dietro principi operativi che sembrano novità positive, ma che sono attuati come blandi giustificativi del proprio disimpegno: mettere al centro la persona (però lasciandola sola), la libertà di scelta (ma senza servizi che aiutino a praticarla per chi non è capace), non indurre bisogni di servizi (ma anche rendere i servizi sociali comunali disponibili solo a richiesta, mentre tutta la cura dei fragili si dimostra efficace quando è pro-attiva e non re-attiva).

 

Questa mentalità ha in realtà contagiato tutti, compresi i medici di famiglia, che si trovano spesso del tutto sprovveduti di fronte alla enorme complessità dei problemi posti dalla demenza, e tendono a rifugiarsi in una serie di compiti prescrittivi che ha poche alternative e che non trova appoggio in servizi pubblici che non esistono. A questo si rimedia con affermazioni e logiche, sia regionali sia nazionali, che confondono il dover essere con l’essere, applicando ai bisogni della demenza una ridicola etica dei “bisognerebbe”: si afferma che il medico di famiglia è il vero “case manager”, che a lui spetta di fare il consigliere per la famiglia, di tenere in considerazione gli aspetti sociali e psicologici e non solo quelli sanitari. Ma è questa davvero la situazione generale? E se così evidentemente non è, che cosa si pensa di fare per rendere la realtà più vicina a questa ipotesi? Per questo non c’è da chiedersi se di fronte a un caso del genere qualcuno si è sentito colpevole, o, meglio, ha messo in discussione i propri metodi, ha ripensato se stesso e la efficacia della sua azione; nessuno lo ha fatto né lo farà, per un trafiletto da cronaca locale, per una notizia insieme troppo piccola e troppo grande, perché ancora una volta è bene che a piangere sia la famiglia, ancora una volta da sola.

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