27 Ottobre 2021 | Professioni

Riscoprire la tenerezza nel contatto corporeo nella relazione di cura con l’anziano

Possiamo cambiare la qualità della vita nei luoghi della cura cambiando la postura con cui li abitiamo, scoprendo e riscoprendoci nella tenerezza reciproca che si esprime, anche e soprattutto, nel modo in cui entriamo in contatto corporeo con l’altro. L’emergere di una crescente fatica e sofferenza da parte di chi è impegnato professionalmente nella relazione di cura ci chiama a nuove ricerche di senso, ad un modo differente di guardare la fragilità, sia del paziente che di chi lo cura.

Riscoprire la tenerezza nel contatto corporeo nella relazione di cura con l’anziano

In questo momento storico parlare di contatto corporeo nelle relazione di cura con l’anziano risulta essere particolarmente complicato. Come rappresentato nell’opera video di Bill Viola “The raft“, dopo l’esperienza drammatica dell’emergenza sanitaria COVID-19 stiamo tutti iniziando ad alzare lo sguardo ma, in questa fase, la vicinanza e il contatto corporeo ancora preoccupano.

 

Rileggere oggi questo contributo, elaborato prima dell’irrompere della pandemia, mostra con evidenza quanto i gesti di vicinanza siano fondamentali nella relazione con l’altro e consente di riguardare con maggior consapevolezza ciò che abbiamo vissuto durante l’emergenza sanitaria, soprattutto nei contesti di cura per gli anziani fragili.

 

In questo difficile periodo la relazione affettiva e corporea tra operatori ed anziani non solo si è mantenuta, essa si è intensificata pur con i DPI e i limiti imposti dalla pandemia. Il contatto tra operatore ed anziano si è trasformato in abbraccio e carezza. La carezza, espressione della cognizione del dolore e soprattutto della comprensione affettuosa del dolore dell’altro, è divenuta ponte tra abissi di solitudine andando a colmare la lontananza dagli affetti più cari. Abbracci e carezze hanno potuto e dovuto trovare spazio per rassicurare, consolare, accompagnare, portando la tenerezza nel mondo della cura e cercando di riconciliare la vita con la morte.

 

La tenerezza nei luoghi di cura

Abitiamo un contesto dove cresce la difficoltà a condividere narrazioni di senso rispetto a salute, malattia, morte. L’esperienza emozionale è impoverita e banalizzata ed il corpo è sempre più un simulacro svuotato, oggetto di pure attenzioni estetizzanti. I contesti della cura sono luoghi dell’incontro, ma in essi la luce fredda ed analitica del sapere medico, che tutto classifica e definisce scientificamente, scolpisce in modo rigido e privo di sfumature e chiaroscuri la relazione con il paziente. Sono posti in cui gli operatori, forti del sapere e della tecnica, si posizionano nei loro ruoli, nell’illusoria idea di tutelarsi da vulnerabilità e sofferenze. Nel loro agire si svestono del sapere dell’umano, della capacità di vicinanza e tenerezza privandosi dell’occasione di un incontro vero con l’altro e con sé stessi, col proprio sentire, con la propria dimensione di tenerezza.

 

La rimozione sistematica della tenerezza reciproca dalla grammatica della vita, tuttavia, crea un’insensibilità devastante per la qualità della convivenza. […] La tenerezza rende flessibili e disponibili all’incontro: è il clinamen delle nostre durezze, capace di curvarci nella direzione dell’altro” (Guanzini, 2017). Gentilezza e tenerezza sono fra i piaceri fondamentali per il nostro senso di benessere, ma sembra che siano diventati piaceri proibiti; sono così desuete nei nostri contesti di vita, da essere diventate recentemente oggetto di spot pubblicitari e seminari formativi volti a stimolarne la riscoperta, soprattutto all’interno dei luoghi di cura.

 

Gentilezza e tenerezza devono poter trovare o ritrovare spazio di ascolto ed espressione nella nostra vita ed in particolare all’interno dei luoghi di cura, sia per il benessere del malato, che per il benessere di chi si prende cura; perché è all’interno di questo incontro che la tenerezza può trovare espressione, permettendo di scoprire e riscoprirsi, sentire e sentirsi nel piacere della relazione. Si tratta di ristabilire un dialogo che permetta di dar voce al desiderio di riconoscimento reciproco, riconoscimento “situato all’interno di un’esperienza di relazionalità o esperienza-del-Noi in cui siamo consapevoli della pena emozionale dell’Altro e cerchiamo di sintonizzarci con essa” (Stanghellini, 2017) e all’interno del quale possiamo trovare lo spazio per essere riconosciuti dall’altro. Il paradigma di questo dialogo è ciò che avviene attraverso il contatto.

La relazione corporea
Box 1 – La relazione corporea

 

Con-tatto

Contatto deriva dal latino contàctus, con = cum = insieme e tàngere = toccare, il toccarsi vicendevolmente di due corpi. La parola contatto contiene perciò l’elemento della relazione, la presenza dell’altro nella reciprocità. Tatto è il senso specifico che consente di venire a conoscenza del mondo esterno mediante il contatto con la pelle, ma figurativamente indica anche l’accortezza e la delicatezza nell’agire e la capacità dì comportarsi con discrezione e diplomazia. Trattare una persona con tatto è trattarla con riguardo, sensibilità e cura particolari.

 

Il contatto è una delle principali modalità con cui ci mettiamo in relazione con l’altro, è uno dei modi fondamentali della comunicazione non verbale, in cui gentilezza e tenerezza possono esprimersi nella maniera più intensa e autentica. Il contatto è presente in particolar modo nel contesto sociosanitario, dove il lavoro stesso dell’operatore passa in larga misura attraverso esso. Si stima che il lavoro di un infermiere sia costituito per l’85% di momenti di stretta vicinanza fisica e lo stesso si può dire per le diverse figure sociosanitarie e riabilitative che abitano i contesti di cura. È interessante sottolineare come pochi autori che trattano i temi delle cure menzionino l’invisibilità sociale e culturale della cura del corpo. Il tatto, sebbene connaturato a tutte le attività di cura del corpo, non è mai considerato come una cura in sé. È sempre percepito come naturale ed autoevidente, mentre, oltre ad essere soggetto a molteplici influenze, rappresenta uno degli elementi fondamentali della cura intesa non come “to cure” ma come “to care” (non come “curare” ma come “prendersi cura”).

 

Il mondo della cura è fatto di corpi che si incontrano, si toccano, si raccontano, si sentono, in una reciprocità che rimane spesso inascoltata, quasi senza valore, perché parla il linguaggio dell’umano, dell’interiorità, sfuggendo al rigore del sapere scientifico. Ma il toccare ha il valore della vicinanza totale, ha a che fare con le radici della relazione perché è così, nel contatto col corpo della madre che, semplicemente, tutto comincia. È nel contatto che nasciamo e ci sviluppiamo ed il contatto è elemento essenziale per la nostra crescita, è una necessità fisiologica, così come l’acqua e il cibo.

 

Il tatto

Il tatto è, a differenza degli altri sensi come vista e udito, un senso diffuso, perché riguarda tutta la nostra superficie corporea ed è sempre attivo, anche quando non poniamo attenzione alle sensazioni della nostra pelle. Fin dagli albori del nostro sviluppo, il corpo prende forma e si sviluppa attraverso esperienze di contatto, ed il contatto con l’altro implica sempre una reciprocità del sentire: mentre tocco sento l’altro, sento e sono sentito. Quando ci tocchiamo milioni di miliardi di informazioni a livello neuroelettrico ripercorrono il nostro sistema percettivo dal livello più periferico arrivando alla “centralina” e fanno attivare delle emozioni importanti per la relazione: la vicinanza, l’alleanza, la tenerezza, il conforto, la consolazione (con-solo: con chi è solo). È un meccanismo frutto di milioni di anni evolutivi.

 

Tre sono i foglietti da cui si sviluppano, nella fase embrionale, le diverse parti del corpo umano. Dal foglietto ectodermico si formano tutte quelle strutture che mantengono i contatti con il mondo esterno: il Sistema Nervoso Centrale e Periferico; gli epiteli sensoriali dell’orecchio, dell’occhio, del naso; l’epidermide ed i suoi annessi (capelli ed unghie); la ghiandola mammaria; l’ipofisi e le ghiandole sottocutanee; lo smalto dei denti. È interessante osservare come il sistema nervoso e quello tegumentario (pelle e annessi cutanei) si formino dallo stesso foglietto embrionale. Questa origine comune fa sì che esista tra i due sistemi una stretta relazione e che già il feto presenti un’enorme sensibilità alla stimolazione tattile.

 

«A otto settimane di vita» riporta l’antropologo e saggista inglese A. Montagu «un embrione lungo appena tre centimetri, se stimolato con una punta smussa sul labbro superiore o sulle ali del naso, è in grado di rispondere inarcando il collo e il tronco per sfuggire alla fonte della stimolazione». Secondo i principi dell’embriologia una funzione vitale è tanto più importante quanto più precocemente si sviluppa. Essendo l’organo della pelle e il senso del tatto fra i primi a formarsi nell’embrione possiamo comprendere come, anche dal punto di vista filologico ed ontologico, la funzione del tatto sia un bisogno primario dell’uomo e rappresenti il primo ponte di collegamento tra il nuovo essere e il mondo esterno.

 

La pelle

La pelle è l’organo più esteso del nostro corpo ed ha due principali funzioni: quella di «proteggere» delimitando e definendo i confini dell’io corporeo e quella di «sentire la fusione» con l’altro, pensiamo a quando ad esempio restiamo abbracciati e ci sentiamo un tutt’uno. La duttilità della pelle (sensibilità tattile-erogena) e della muscolatura (cinestesia) sono di importanza vitale per definire l’immagine corporea e la nostra identità. Sensibilizzare la pelle toccandola adeguatamente significa sensibilizzare la nostra identità, noi stessi.

 

Attraverso la carezza possiamo trasformare la percezione del «limite corporale» creando nuove connessioni, sostenendo la ridefinizione della nostra immagine corporea e della nostra identità. Le esperienze di contatto sono di grande importanza nella vita di ognuno di noi tanto da poter anche modificare profondamente la nostra dimensione identitaria e creare connessioni nuove e preziose con l’altro, trasformando le relazioni e diventando a loro volta delle forme di cura, la cura dell’umano che è in noi e che troviamo rispecchiato nella percezione dell’altro e con l’altro. Lo stare in ascolto di sé, delle proprie sensazioni, l’attenzione alla propriocezione ma anche alla dimensione tattile, di contatto, il sentire l’altro intorno a sé, permette di riscoprirsi in una dimensione in progressiva trasformazione e di ricomporre e ridefinire l’immagine del proprio corpo.

 

È una “passività attiva” (Zambrano, 1996) che favorisce il ricomporsi di corpo-mente-relazione e conoscenza, nella relazione con sé e verso l’altro, che permette il ri-trovarsi e il ri-conoscersi in una nuova dimensione. L’essere centrati sull’ascolto, l’essere presenti a sé, permette il partire da dove si è, riconoscendosi in un diverso momento di vita in una dimensione evolutiva, sottraendosi alle cesure, come per esempio quella tra giovinezza e vecchiaia.

 

Le esperienze di contatto

Come dice il sociologo francese David Le Breton, nella nostra società noi glorifichiamo il gusto, l’odorato, l’udito, la vista ma «Il tatto dentro il nostro mondo è sparito…», è il senso meno valorizzato, ed è quello culturalmente codificato da regole restrittive e proibizioni. È interessante notare come tutti i primati che hanno un DNA uguale al nostro per il 99% si toccano durante tutto il giorno e non solo con intenzioni sessuali. Il tatto è un linguaggio parallelo intriso di verità, la pelle non mente ed è la finestra sul mondo attraverso la quale sperimentiamo la conoscenza.

 

Se l’esperienza del contatto è ancora presente nell’età infantile, questa va sempre più diradandosi e comprimendosi all’interno delle regole socialmente condivise e, come dice Elena Gianini Belotti “Alla crudeltà della vecchiaia in sé, si aggiunge quella della rarefazione progressiva dei contatti: nessuno ti tocca più né ti abbraccia o ti accarezza, nessuno vuole più essere toccato, abbracciato, accarezzato da una vecchia signora come me”. L’adulto prima e l’anziano poi perdono progressivamente l’esperienza del contatto che viene, nella nostra società, “relegata” all’esclusività della relazione sessuale o che diventa funzionale alle azioni di cura e accudimento. Gli anziani, nella nostra cultura, divengono intoccabili, quasi come se il contatto con loro ci avvicinasse alla morte.

 

Nelle RSA ospiti e operatori vivono quotidianamente il contatto che passa attraverso le azioni di cura e accudimento, ma com’è la qualità di quel contatto? Quale attenzione si pone in quel contatto? Quanto lo si considera importante ai fini del prendersi cura e non solo della cura? Quanto è esclusivamente prestazionale? Quanto e come gli operatori della cura vengono formati al contatto?

La dimensione corporea dell’anziano fragile
Box 2 – La dimensione corporea dell’anziano fragile

Quello a cui spesso si assiste nei contesti di cura è un approccio molto funzionale al corpo dell’altro: i corpi vengono lavati, vestiti, medicati, con grande attenzione alla qualità tecnica del gesto, all’efficacia e all’efficienza dell’atto in sé, ed è su questa precisione, talvolta quasi brutale, che gli operatori vengono valutati. Ma un contatto meccanico, privo di attenzione e tenera cura non è mai né utile, né tanto meno efficace. D’altronde “nel tempo dell’uomo senza tenerezza” (Guanzini, 2017) in cui viene riconosciuto valore solo a ciò che è misurabile e in cui il denaro diviene il regolatore unico di tutti gli scambi simbolici, viene riconosciuto solo ciò che è preciso, tecnico, oggettivo e misurabile mentre “ciò che è invalutabile perde di valore, trasformandosi in qualcosa di trascurabile” (ibidem). Su questa scena il corpo è presente nella sua oggettività lasciando fra le quinte l’elemento del sentire, dell’emozione, misconoscendo l’essenza dell’essere.

 

Diventare silenziosamente rivoluzionari

Ma come possiamo cambiare? Come possiamo diventare “silenziosamente rivoluzionari”? “La mia esperienza è che la maggioranza di noi non è abituata ad essere presente e vera quando si mette in relazione con gli altri. Essere presenti nella relazione è così contrario ai nostri codici comportamentali che abbiamo bisogno di esercitarci, lavorando a piccoli passi” (Aposhyan, 1998). Possiamo allora iniziare educandoci al contatto, partendo dall’essere presenti alle nostre modalità di contatto, dal prendere consapevolezza della loro qualità. Per essere “buono” il contatto deve avvenire all’interno di un processo progressivo di comunicazione e di empatia, deve assumere la qualità della carezza e dell’accoglienza.

Partire da sé
Box 3 – Partire da sé

Per raggiungere la qualità di “carezza” il contatto ha bisogno di connessione, deve diventare un gesto pieno di attenzione, compiuto nell’ascolto reciproco. Si tratta di “connettersi” con l’altro percependolo con rispetto e affettività, di toccarlo anche senza il pretesto della cura perché questo ha un grande valore per la cura stessa. Ed ha un grande valore per la cura dell’altro, ma anche per la cura di noi stessi. Il contatto relazionale favorisce la riconciliazione con il corpo e l’attivazione di una coscienza più acuta di sé, la persona, grazie alla reciprocità, diventa capace di entrare in risonanza con i propri vissuti interni.

 

L’attenzione è il presupposto sine qua non di qualsiasi percorso conoscitivo, è la forza della consapevolezza. Essa ci permette di andare in profondità di scoprire e di scoprirci compiendo un atto trasformativo. È il primo atto di cura, è quella postura di corpo, cuore e mente che ci permette di ricevere il massimo di realtà e di non staccarci mai dal mondo vero accogliendo le molteplici letture possibili del reale. È il primo atto di cura verso sé e verso l’altro, che ci dà la possibilità di affrontare percorsi di conoscenza intima e di trasformarli in competenze e pratiche nuove da portare all’interno del momento della cura.

L’attenzione nella relazione con l’Altro
Box 4 – L’attenzione nella relazione con l’Altro

Sentirsi nel contatto, vedere nello sguardo dell’altro che si è ancora degni di essere toccati, guardati, è un aiuto prezioso per il paziente, per l’anziano, e può aprire lo spazio al dirsi, all’esprimere le proprie paure ed angosce. Si tratta di pensare alla cura come relazione tra soggettività incarnate: all’interno della scena infatti si incontrano il corpo del paziente con il corpo dell’operatore. Pensare al corpo attraverso categorie diverse permette di ri-pensarsi e ri-pensare alla relazione di cura e alla fragilità con sguardi nuovi.

 

“Il reciproco ‘toccarsi’, intenerirsi e affezionarsi corrisponde a una reciproca donazione di senso, in cui ciascuno lascia la propria impronta sul corpo e sull’anima dell’altro. Precisamente grazie a tale flusso molecolare di affetti e di sensibilità sociali, che si trasmette come per travaso di corpo in corpo, di contatto in contatto, si costruisce un mondo comune.” (Guanzini, 2017). È il flusso che ci permette di riconoscerci reciprocamente nella nostra natura mancante, nella nostra fragilità e nel nostro comune bisogno di tenerezza, che si esprime nelle azioni concrete in relazione al corpo, attraverso prossimità e contatto corporeo. Ci sono momenti, gesti, incontri che ci risvegliano e creano un terreno comune in cui i confini fra sé e l’altro diventano porosi e si diviene dolcemente permeabili alla presenza dell’altro. Possiamo guardare alla cura come ad un grande albero sotto cui si intrecciano storie e, riparati, ci si prende cura di sé e degli altri. È l’esaltazione della vicinanza, della prossimità, dell’empatia, del riconoscimento dell’altro che è oggetto delle nostre cure.

 

L’affective-touch

I temi dell’affettività, della relazione, della tenerezza, del contatto, trovano sempre un’accoglienza faticosa all’interno del mondo sociosanitario. Lo spazio del sentire, dell’umano, è spesso relegato a piani secondari non potendo farsi forte della dimostrazione scientifica che domina il mondo sociosanitario, unitamente ad un linguaggio fatto sempre più di procedure e di pensiero lineare.

 

Preziosi sono, affinché il tema del contatto possa trovare accoglienza, ospitalità e riconoscimento di valore, i sempre più numerosi studi che indagano gli effetti di un buon contatto all’interno dei luoghi di cura e sperimentano sia quello che viene definito affective touch, che l’introduzione di vere e proprie forme di massaggio, che comprendono sempre, ed in particolar modo, le dimensioni del comfort e del tocco affettivo. Grazie a questi studi si è visto come nell’anziano, la capacità discriminatoria del tatto sia correlata negativamente con l’età, mentre esista una correlazione positiva con le sue gradazioni di gradevolezza, cioè con l’aumentare dell’età gli aspetti affettivi del tatto migliorino.

 

Secondo la letteratura, la stimolazione dei meccanocettori cutanei mediante moderata pressione o stretching sembra mobilitare vari meccanismi di modulazione dello stress che possono ridurre i livelli di cortisolo e aumentare i livelli di ossitocina, sostenendo una riduzione del dolore e il miglioramento dell’umore nei pazienti anziani con tumore e con compromissione cognitiva moderata.

 

Alcuni studi hanno rilevato come le persone con demenza mantengano la capacità di discernere le intenzioni positive e premurose nel contatto fisico come il tatto e il massaggio, grazie alla conservazione da parte dei loro sistemi limbici della capacità di decodifica delle emozioni indotte dal tatto. Molti esperti raccomandano di dare priorità agli interventi non farmacologici per ridurre l’agitazione nei pazienti con demenza e revisioni sistematiche hanno dimostrato che approcci sensoriali come il tocco e il massaggio hanno un’efficienza da moderata ad elevata nella gestione / riduzione dell’agitazione in questa popolazione.

 

In altre parole, l’affective touch e il massaggio “ci restituiscono” al corpo, sono una cura relazionale privilegiata che permette di accompagnare la cura, di rassicurare, di calmare, di rilassare, sono un modo di comunicare, di entrare in relazione con un linguaggio più autentico, fatto di tenerezza e gentilezza.

Il potere del corpo
Box 5 – Il potere del corpo

 

Il saggio

Introdurre gentilezza e consapevolezza nel contatto, trasformarli da pura esecuzione di prestazioni a presenza attenta a sé e all’altro, rappresenta una vera rivoluzione silenziosa, è il riconoscere il potere di affetto del nostro corpo, l’imparare a vivere più saggiamente gli incontri con l’altro.

 

Si tratta di aprire sguardi, di scoprire e valorizzare il proprio sentire corporeo ed emozionale, di iniziare un cammino che rinnovi il soggettivo essere al mondo e nel mondo, un cammino che aiuti a radicarsi nell’essere e, anche se fatto da piccoli segni e gesti, possa generare trasformazioni. Queste trasformazioni sono importanti per chi cura ma anche per il mondo della cura, operatori portatori di una nuova postura possono con la loro presenza facilitare processi trasformativi all’interno dei contesti sanitari, agendo come il “Saggio [che] lungi dal pretendere di dare lezioni o di imporre i suoi ordini, segnalandosi, lungi dal voler colpire l’attenzione altrui con miracoli o prodezze, si limita a “trasformare” i costumi intorno a sé, gradualmente, in silenzio: il semplice esempio della sua condotta si spande da sé, in effetti, e con questo soltanto influenza per incidenza, giorno dopo giorno, impregnando e modificando insensibilmente i comportamenti – ed è quanto basta per educare. Poiché si diffonde senza progetto intenzionale ma per contaminazione nel bene e a macchia d’olio” (Jullien, 2010).

 

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Bibliografia

Aposhyan S. (1998), Natural Intelligence: Body-mind Integration and Human Development, Now Press.

Diotima (1996), La sapienza di partire da sé, Liguori Editore.

Fumagalli M., Arrigoni F. (2013), Dove l’acqua si ferma. La cura e il benessere degli anziani fragili con il metodo gentlecare, Maggioli Editore.

Gianini Belotti E. (2001), Adagio un poco mosso, Feltrinelli.

Guanzini I. (2017), Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, Ponte delle grazie.

Jullien F. (2010), Le trasformazioni silenziose, Cortina.

Le Breton D. (2007), Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore.

Montagu A. (2017), Il linguaggio della pelle, Baiso (RE), Verdechiaro edizioni.

Pardi A., a cura di, (2007), Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza Verona, ed. Ombre Corte.

Stanghellini G. (2017), Noi siamo un dialogo, Raffaello Cortina Editore.

Zambrano M. (1996), Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore.

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