1 Marzo 2008 | Programmazione e governance

A chi spetta? Chi (e quanto) segue l’anziano che perde autonomia


Il mutuo supporto tra partner

Nello spirito della cosiddetta famiglia ‘forte’ mediterranea, il primo supporto del componente familiare in difficoltà proviene dall’interno del nucleo stesso; questo vale anche per l’anziano che procede negli anni, sia che conservi una sua (integra o parziale) autonomia sia che diventi non autonomo. All’interno della famiglia è anzitutto il partner il punto d’appoggio privilegiato: il reciproco aiuto tra coniugi è la regola prima della vita anziana, almeno finché i due partner stanno, e con qualche vigore, a fianco uno all’altra.

 

Ma chi si occupa dell’anziano – in particolare della donna anziana non più autonoma – quando manca o è venuto a mancare il supporto elettivo del partner? A questa domanda e altre simili aiuta a dare una risposta, non del tutto scontata, una survey , promossa dalla FNP CISL della Lombardia, sulle condizioni di vita degli anziani e le forme e l’utilizzo dei contributi di welfare, survey condotta nell’inverno 2005-2006 su un campione di 1.620 ultrasettantenni lombardi, stratificato secondo la provincia e l’ampiezza del comune di residenza (FNP CISL, 2006).

 

Consideriamo, come base di riferimento, gli anziani in buona condizione di autonomia: tra 70 e 80 anni, nel 10% dei casi circa l’anziano ha al suo fianco un/a partner che lo/a accudisce amorevolmente. Una percentuale piuttosto bassa: ma in questo segmento di età la compression of morbidity, lo slittamento verso migliori condizioni di salute e di autonomia realizzatosi negli ultimi due decenni ha ormai dimensioni vistose. Se e quando gli anziani settantenni perdono totalmente autonomia ben un partner su due si occupa di loro.

 

Ma l’inesorabile legge del tempo, che assottiglia drasticamente le coorti al passaggio della soglia degli 80 anni, fa sì che dopo questa età la quota di partner accudenti scenda, per effetto di selezione biologica, al 21%. In realtà, parlare genericamente di accudimento da parte del partner non rende giustizia all’abissale differenza di pratica di care da parte degli uomini e delle donne. Anche quando l’anziano intervistato è pienamente autonomo, il tempo di cura dedicato dalla donna al partner uomo è quattro volte superiore al tempo dedicato dall’uomo alla propria partner. E ciò, si badi bene, nonostante il contingente di partner maschili in vita si sia assottigliato, lasciando in attività solo i maschi in migliori condizioni di salute. Lo squilibrio di genere nel role set familiare raggiunge numeri assai più vistosi quando l’anziano intervistato è totalmente non autonomo; e questo è vero soprattutto per gli individui nella prima fase di vita anziana, quella in cui più forte è l’autonomia.

 

Tra 70 e 74 anni, si è detto, un anziano/a su due accudisce il/la partner non più autonomo: ma se scomponiamo il dato per genere le differenze sono rilevanti. A quella età la donna dedica mediamente quasi 20 ore al giorno (tutto il tempo di veglia, si può dire) al marito non autonomo, mentre alla stessa età l’uomo che abbia a fianco una moglie non autonoma le dedica solo 2 ore e mezzo al giorno. La forbice tra i tempi di cura per genere si restringe tra i 75 e gli 84 anni, per poi divaricarsi nuovamente alle età estreme, compatibilmente con le risorse di salute e di energia del caregiver. È la partner, dunque, che si occupa finché è possibile del proprio coniuge non più autonomo. Ma oltre gli 85 anni, per quanto privo di autonomia, solo nel 9% dei casi l’anziano ha accanto a sé, a curarlo, il proprio coniuge. Altre figure, parentali e non, devono giocoforza subentrare. Chi si occupa di lui – o di lei – se e quando le forze della coniuge diminuiscono? Chi si occupa di lui/lei se e quando non c’è una figura coniugale a fianco?

 

Il subentro graduale della famiglia forte

Allarghiamo la nostra visuale a tutte le possibili figure di cura per una persona anziana (Micheli, 2006), non facendo per il momento differenza se l’anziano da accudire è uomo o donna. La tab. 1 distingue piuttosto gli anziani totalmente non autonomi da tutti gli altri, e riporta le percentuali di inserimento di diverse figure tra i loro caregivers. Se partiamo ancora dalla cura dell’anziano (almeno parzialmente) autonomo1, la cosa più evidente è un meccanismo di sostituzione del partner, nella cura del genitore, da parte dei figli . A 7074 anni intorno all’anziano – almeno in parte autonomo – gravitano con ugual frequenza (10%) il coniuge, un figlio e una figlia. A 80-84 anni i partner sono ancora presenti nel 10% dei casi, i figli nel 30% dei casi, le figlie nel 22%. Oltre gli 85 anni, diradandosi la presenza del partner ,si ispessisce sia quella dei figli (38%) che soprattutto quella delle figlie (41%). Pur crescendo con l’età dell’anziano, la presenza di caregivers è comunque abbastanza limitata quando all’età non si aggiunge una condizione di limitata autonomia. La situazione cambia se consideriamo i soggetti non autonomi. A 70-74 anni un anziano autonomo ha in media intorno a sé 0,37 persone di riferimento, che diventano 1,19 oltre gli 85; un anziano non autonomo ha intorno a sé 2,08 persone a 70-74 anni, poco di meno oltre gli 85 (con un massimo posto non alle età estreme, ma nella fascia critica intermedia tra 80 e 84 anni).

 

Ma anche tra i non autonomi è evidente il meccanismo di sostituzione che porta i figli e soprattutto le figlie a prendere il posto del genitore curante. Anche qui, a 70 anni l’anziano (non autonomo) ha intorno a sé con uguale frequenza coniuge, figli maschi e figlie femmine. Col progredire degli anni la presenza del partner cala, declina anche quella dei figli maschi,mentre si impenna la presenza di figlie femmine. Va sottolineata questa differente presenza dei figli maschi a seconda del grado di autonomia del genitore. La funzione del figlio maschio (più presente di quanto gli stereotipi inducano a credere, quando il genitore è autonomo) è evidentemente una funzione prevalentemente di compagnia. Quando prevalgono mansioni di cura vere e proprie il figlio maschio si defila (quando il gioco si fa duro, viene da pensare, i giocatori veri entrano in gioco).

 

Questa diagnosi è confermata dal divaricarsi della forbice tra la presenza di generi e di nuore, al crescere dell’età e della perdita di autonomia. Molte altre figure affollano la cerchia dei caregivers, soprattutto nel caso di non autonomia. Ci limitiamo a evidenziare due aspetti. In primo luogo, c’è un secondo meccanismo di sostituzione generazionale che avviene nella cerchia dei caregivers, in subordine a quella tra partner e figli, ed è quella che prevede un passaggio di consegne dai parenti laterali (soprattutto fratelli e sorelle) ai nipoti. In secondo luogo, la presenza di una badante, poco importante per anziani (almeno parzialmente) autonomi, diventa invece estremamente importante per gli anziani non autonomi, soprattutto passati gli 80 anni, allorché la badante diventa la terza figura di riferimento a fianco dei figli e delle figlie. Naturalmente, il carico complessivo di cura e la presenza o meno di figure di riferimento esterne alla cerchia dei caregivers dipendono anche dalla storia di vita familiare dell’anziano.

 

Prendiamo le ore giornaliere di accudimento dell’anziano per grado di autonomia e stato civile dell’anziano. In condizioni intermedie di autonomia limitata o parziale, è più elevato il numero di ore di cura dedicate all’anziano coniugato (coinvolgendo quindi, come caregivers, le figure del partner, dei figli e dei figli acquisiti): ma nel segmento dei totalmente non autonomi – è un dato che colpisce – i più accuditi sono gli anziani celibi e nubili. Certo, i celibi e nubili entrati nel campione intervistato sono, per la verità, estremamente pochi, e non è quindi possibile entrare nel dettaglio. Ma merita comunque annotare come per questo segmento (consistente oggi, e sempre più consistente negli anni a venire) giochino un ruolo da protagonista, nell’accudimento, tre figure fin qui in penombra: i parenti laterali (sorelle e fratelli) tra i settantenni, i nipoti (figli di quei fratelli e sorelle) e il vicinato tra i più avanti negli anni.

 

L’analisi del sistema informale di cura degli anziani celibi e nubili, insomma, meriterebbe un approfondimento a parte. Il conteggio puro e semplice delle figure di riferimento a fianco dell’anziano non rende conto dell’intensità di questa presenza. Non parliamo dell’intensità affettiva della presenza, dell’esserci, ma della quantità di tempo dedicato all’anziano. La Tabella 2 riporta appunto le ore giornaliere di care per età e autonomia dell’anziano: il quadro che ne esce è lo stesso già delineato dalla Tabella 1, ma con una migliore messa a fuoco e qualche osservazione in più.

Tabella 1 - Chi accudisce gli anziani, secondo l’età e l’eventuale non autonomia totale
Tabella 1 – Chi accudisce gli anziani, secondo l’età e l’eventuale non autonomia totale

Prendiamo l’ultima riga della Tabella 2. Se escludiamo dal conto le ore di cura della badante, la cerchia dei legami forti assicura a un anziano (almeno parzialmente) autonomo un numero di ore che sale da 3 a 9 al giorno, a seconda della fascia di età, mentre incommensurabilmente più alto è il monte ore degli anziani non autonomi. Per questi però – notazione solo in parte sorprendente – non c’è progressione del monte ore con l’età, anzi. E pour cause. L’anziano non autonomo pesca, entro il bacino dei legami forti, tutte le risorse disponibili, e le risorse disponibili evidentemente scemano con l’età.

 

Il ‘giovane anziano’ di 70-74 anni, se perde autonomia, ha la fortuna di fruire di più di 30 ore al giorno di compagnia e cura; già dopo i 75 anni le ore complessive dei familiari e vicini scendono e si assestano intorno alle 22. Solo le ore comprate sul mercato (le badanti) consentono un lieve incremento del tempo di cura complessivo.

 

C’è, infine, un dato strutturale che fa da sfondo a tutto il ventaglio di situazioni descritte. Se l’anziano autonomo si avvale del supporto affettivo e strumentale della sua cerchia di legami forti, e l’anziano non autonomo pescherà in questa cerchia per farsi assistere (raschiando fino in fondo al barile man mano che l’età e le disabilità progrediscono),una condizione determinante per la cura dell’anziano è l’esistenza di un adeguato ‘terreno di coltura’ dei legami forti in questione. Non è un caso se, a parità di grado di autonomia, è nei piccoli centri (sotto i diecimila abitanti) che il monte ore di accudimento è superiore; ed è quindi oggi nei piccoli centri che la cura informale degli anziani riceve una robusta risposta in prima battuta, prima cioè del ricorso alla rete di garanzie del welfare.

Quante ore al giorno di accudimento dell’anziano, secondo l’età e l’autonomia
Tabella 2 – Quante ore al giorno di accudimento dell’anziano, secondo l’età e l’autonomia

 

Il nodo di genere: chi accudisce gli uomini, le donne

Uomini e donne, da anziani, hanno non solo funzioni di perdita di autonomia per età ben distinte tra loro, ma anche reti di social support fondamentalmente diverse, visto che l’uomo si basa sull’appoggio della partner ma non assicura reciprocità. Come si intrecciano queste due differenze nel produrre quella dote di risorse-tempo di cura che l’uomo e la donna anziani si portano dietro quando subentra gradualmente una perdita di autonomia?

 

Una prima, non scontata, osservazione è che le differenze di genere nel quanto e nel come si viene accuditi non sono a senso unico, ma variano e si ribaltano secondo la presenza o la assenza di autonomia. Infatti, in condizioni di perdita parziale dell’autonomia, la dote di ore di cura a disposizione è più ricca per l’uomo che per la donna (circa 5 ore di più – 17 a 12 – tra gli anziani limitatamente autonomi,2 ore e mezzo – 20,5 a 18 – tra gli anziani già parzialmente non autonomi); ma quando la non autonomia diventa totale la cerchia dei caregivers per la donna anziana riesce a trarre fuori un monte di ore in più, così che è la donna, complessivamente e quantitativamente, ad essere più accudita dell’uomo. Come avviene, grazie a quali risorse, questo sorprendente sorpasso?

 

Alcune risposte (pur con la cautela dovuta al ridotto numero di casi che fanno parte di questo segmento di campione) ci vengono dalle Tabelle 3 e 4, che delimitano l’attenzione ai soli anziani totalmente non autonomi. In questo caso il monte ore messo a disposizione delle donne anziane da parte della cerchia dei legami forti (esclusi, quindi, gli aiuti acquisiti sul mercato) è quasi esattamente identico al monte ore a disposizione degli uomini (22,8 a 23). Il sorpasso è prodotto dal maggior numero di ore aggiunte al monte ore della donna da parte di badanti: e ciò ha una sua logica, dato che la donna non autonoma è quasi sempre priva del supporto di cura del partner, ed è sul mercato che vanno cercate le risorse aggiuntive. Ma resta da capire come riesce la cerchia di caregivers di una donna non autonoma a pareggiare il carico imponente di ore che la partner mette a disposizione del marito in difficoltà (a 70-74 anni la donna accudisce il marito per 18 ore e mezzo, due ore e mezzo è il tempo dedicato dall’uomo alla sua partner non autonoma; anche a 75-79 anni il divario è di oltre 8 ore, per poi scendere da 80 anni in poi).

 

Una prima spiegazione che emerge dalla lettura dei dati risiede nel maggior tempo che i discendenti di prima generazione paiono dedicare per accudire la madre, rispetto al tempo dedicato al padre. Le figlie femmine (le prime badanti dei genitori) dedicano complessivamente 8,7 ore alle madri e 6,4 ai padri, due ore in più alle une rispetto agli altri. Se si aggiungono i contributi di figli maschi, generi e nuore, arriviamo a un tempo medio di cura complessivo di 17,1 ore contro 11,6 dedicate ai padri (5 ore e mezzo), il 50% in più.

 

Possiamo ricapitolare questa spiegazione in due punti: il graduale affievolimento della presenza di cura del partner è di regola con gradualità compensato dalla presenza di cura dei figli e dei figli-per-legge; lo scompenso di genere, dovuto a minor propensione dell’uomo ad accudire la coniuge, è riequilibrato da una pluspresenza di cura da parte dei figli. Ma – una seconda mezza spiegazione che corregge la prima – questo surplus di tempo di cura non si riscontra affatto per le età estreme. Esso vale soprattutto, e in misura eclatante, sotto i 75 anni. È in questa fascia di età, infatti, che le figlie femmine dedicano 13 ore e mezzo alle madri, solo 2 ai padri (7 volte di più):ed è interessante che anche i figli maschi si dedicano di più ai genitori, ma con un certo riequilibrio dei tempi (9 ore alle madri,4 e mezzo ai padri, solo il doppio). Dopo quella età della vita dei genitori l’evoluzione del tempo di cura dei figli maschi e delle figlie femmine si biforca nell’andamento e nella funzione. Il tempo di cura dei figli maschi tende a non crescere con l’età del genitore, nonostante il bisogno di assistenza salga esponenzialmente, anzi subisce una flessione dopo i 75 anni. Il fatto è che il tempo dedicato dal figlio maschio è fondamentalmente un tempo di compagnia. La mancanza di sufficiente intimità con le pratiche di cura del corpo fa sì che il ruolo del figlio maschio diventi fioco già dai 75 anni (e soprattutto nei confronti della madre).

 

Il tempo di cura delle figlie femmine ha al contrario un andamento curvilineo: esso è alto quando la madre è ancora relativamente ‘giovane’, declina successivamente, per poi impennarsi nuovamente quando il genitore supera gli 85 anni. Questo andamento curvilineo esprime con chiarezza la diversa funzione del tempo dedicato dalla figlia, nelle due distinte stagioni della vita. Quando il genitore non autonomo è relativamente giovane (e la figlia, teniamo presente anche questo, è una donna nella piena maturità delle proprie relazioni sociali e di lavoro) il tempo dedicato è fondamentalmente un tempo di compagnia, ma ancora più di sintonia e complicità tra figlia e madre (non tra figlia e padre).Quando la madre supera gli 85 anni (e la figlia è uscita – se mai vi è entrata – dal mondo del lavoro) il tempo dedicato dalla figlia è un tempo di assistenza e cura. Un tempo, si badi, erogato con equità a padri e madri. Due, speculari, punti di solitudine affliggono quindi gli anziani uomini e donne non autonomi, dovuti non tanto alla carenza di assistenza quotidiana quanto al rarefarsi dei contatti di sintonia e complicità. Alla solitudine dell’uomo non autonomo settantenne, che è sostenuto ed accudito a tempo pieno dalla partner ancora autonoma, ma fruisce assai meno di un rapporto di intimità coi propri figli, fa riscontro la solitudine della donna ultraottantenne non autonoma, in cui viene a mancare il riferimento del partner, per quanto parsimoniosa fosse l’attenzione da lui dedicata.

Ore al giorno di accudimento dell’uomo anziano non autonomo, per età
Tabella 3 – Ore al giorno di accudimento dell’uomo anziano non autonomo, per età
Ore al giorno di accudimento della donna anziana non autonoma, per età
Tabella 4 – Ore al giorno di accudimento della donna anziana non autonoma, per età

Note

  1. La valutazione del grado di autonomia della persona è basata sulla scala IADL erogata nel corso dell’intervista. Peraltro la definizione delle soglie di non autonomia e di non autonomia parziale è sorprendentemente arbitraria, pur avendo implicazioni rilevanti sulla stima dell’ampiezza del fenomeno rilevato e sulla valutazione delle esigenze (o delle emergenze) di policy.

     

    Una riflessione su questo nodo cruciale dell’attuale ricerca sulla ‘fragilità’ anziana, a partire dai risultati della survey FNP CISL, è riportata in Micheli, 2007

Bibliografia

FNP CISL, Fuori dall’ombra. Indagine sui servizi di assistenza per gli anziani in Lombardia, Edizioni Lavoro, Roma 2006.

Micheli GA. “Chi (e quanto) si prende cura degli anziani non autonomi”, in FNP CISL, Fuori dall’ombra. Indagine sui servizi di assistenza per gli anziani in Lombardia, Edizioni Lavoro, Roma 2006:99-112. Micheli GA. Anziani fragili: quale soglie di screening? Prospettive Sociali e Sanitarie,2007.

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