Generazioni, percorsi formativi e storie lavorative
Gli ultimi dati sulla diffusione della povertà in Italia evidenziano negli anziani la fascia di età in cui essa è meno presente: nel 2016, l’incidenza della povertà relativa risultava, infatti, mediamente pari al 12%, ma inferiore all’8% se la persona di riferimento aveva almeno 65 anni.
A partire da questo dato, si pongono due domande: la prima è capire i motivi sottostanti tale dato, abbastanza anomalo sia nel panorama europeo che rispetto agli scorsi decenni, la seconda è se tale situazione sia, tendenzialmente, destinata a permanere o se, invece, nei prossimi decenni, i dati saranno destinati a modificarsi.
In questa sede, proverò a rapportarmi a queste domande utilizzando, come filo conduttore, il concetto di generazione. Utilizzerò quindi l’età dei soggetti non come marcatore individuale che li accompagna nello scorrere del tempo e che così distingue tra giovani anziani, anziani, grandi anziani, grandissimi anziani, ma come elemento che li riconduce alla loro coorte di nascita, in base alla considerazione che la coorte di appartenenza e il periodo storico in cui si è cresciuti abbiano influenzato in modo determinante i modi con cui si è dipanata la vita dei soggetti e, conseguentemente, da un lato le loro concrete condizioni di vita, sia giovani e adulti, che da anziani, dall’altro i loro processi identitari (Mannheim, 1974).
Tali mutamenti generazionali sono ben colti dai dati dell’Indagine Multiscopo Istat del 2009, che ha prestato una specifica attenzione ai corsi di vita dei soggetti e alla scansione degli eventi ‘life marker’, sia sul fronte della collocazione sociale, che su quello dei comportamenti nuziali e procreativi. Anche se i dati risalgono a 10 anni fa, essi risultano ancora decisamente ‘attuali’ dato che sono relativi a caratteristiche ed eventi che difficilmente hanno visto, per le persone sopra i 40-50 anni, variazioni successive: essi riguardano, infatti, il livello di scolarità, l’età in cui è terminato il percorso formativo, l’età in cui ci si è inseriti nel mercato del lavoro, il settore produttivo e la collocazione professionale del primo lavoro, il numero di fratelli/ sorelle e il numero di figli avuti. A questi dati ne affiancherò altri e, in particolare, confronteremo i dati emersi da due diverse Indagini Multiscopo (quella del 2001 e quella del 2015).
Consideriamo dapprima i mutamenti generazionali a partire dai dati sulla scolarità.
Ad esempio, come evidenzia la tabella 2, mentre tra i nati prima del 1930, oltre il 33% non ha conseguito alcun titolo di studio e il 46% ha terminato solo le scuole elementari; tra i nati negli anni ’40 queste percentuali scendono al 5% e al 42%; tra i nati negli anni ’60 all’1% e al 5,6%. Specularmente, la percentuale di chi ha conseguito un diploma o una laurea sale rispettivamente dal 9%, al 23% e al 45%. Vale a dire che mentre le precedenti generazioni anziane sono state, di norma, assai poco scolarizzate, quelle attuali, e ancor più quelle future avranno avuto percorsi formativi decisamente più consistenti.
La maggiore scolarizzazione degli attuali 50-60enni rispetto agli attuali ultraottantenni trova riscontro nei dati relativi all’età alla quale si è concluso il percorso formativo e in cui si è entrati nel mondo del lavoro. Le generazioni meno anziane vedono, infatti, una progressiva posticipazione di entrambe i passaggi: in particolare, come mostra la figura 1, per quanto concerne l’età al primo lavoro, l’età mediana è salita dai 12-14 anni delle generazioni più anziane, ai 14-16 di quelle nate negli anni 40-50, ai 18-20 di quelle successive.
Oltre a differenziarsi per l’età di inserimento nel mercato del lavoro, le diverse generazioni si differenziano anche per quanto riguarda l’ambito e le modalità con cui tale inserimento è avvenuto. I dati riportati nella tabella n. 3, mostrano con chiarezza come la collocazione professionale del ‘primo’ lavoro sia stata contrassegnata da una duplice transizione: dapprima il passaggio dall’agricoltura all’industria (e quindi dalla condizione contadina a quella operaia) e, successivamente, il passaggio dall’industria al terziario, e, quindi, dalla condizione operaia a quella impiegatizia. La percentuale di chi ha avuto il ‘primo’ lavoro nell’agricoltura è stata, infatti, pari ad oltre un terzo per i nati prima del ‘30, ma al 12% per i nati negli anni ‘40 e al 6% per i nati negli anni ‘60; il primo lavoro nell’industria ha invece riguardato, rispettivamente, il 26%, il 37% e il 32%; quello nel terziario, pubblico e privato, il 33%, il 50% e il 62%. Nello stesso tempo, il lavoro autonomo, che riguardava quasi il 20% delle generazioni nate prima degli anni ‘30, si è sempre più ridimensionato a favore del lavoro dipendente.
Nel loro insieme, questi dati ben testimoniano le fortissime trasformazioni socio-economiche attraversate dall’Italia a partire dagli anni ’50 e che hanno comportato anche un mutamento delle stesse modalità di assunzione, passate, man mano, da quelle informali a quelle rientranti in veri e propri contratti di lavoro: sono stati assunti tramite un accordo solo verbale oltre un terzo dei nati prima del 1930, meno del 15% dei nati dopo il 1950.
Generazioni e storie pensionistiche
Questi profondi mutamenti, che hanno coinvolto i settori produttivi e le collocazioni professionali, si sono ripercossi dapprima sulle condizioni economiche e contrattuali che i soggetti appartenenti alle diverse generazioni hanno avuto da ‘adulti’ e, successivamente, sulle condizioni economiche che hanno avuto/stanno avendo da ‘anziani’.
Procediamo però con ordine, considerando dapprima il mutamento delle condizioni economiche che i soggetti appartenenti alle diverse generazioni hanno visto da ‘giovani’ e da ‘adulti’, a partire da altri importanti cambiamenti che, oltre a quelli testimoniati dai dati precedenti, hanno segnato la loro collocazione lavorativa.
Il primo di tali cambiamenti riguarda il miglioramento delle retribuzioni che si è verificato negli anni’60 (a seguito sia dello stesso sviluppo economico, che delle lotte operaie di quegli anni); il secondo è riconducibile al progressivo passaggio da un inserimento lavorativo poco tutelato da un punto di vista contrattuale e previdenziale, ad uno via via più tutelato. Per quanto concerne questo specifico aspetto è importante ricordare che, fino alla fine degli anni ‘50, i settori produttivi prevalenti – l’agricoltura, ma anche buona parte del terziario (costituito, in quegli anni, soprattutto dal ‘piccolo’ commercio e dall’artigianato), ‘non’ prevedevano una tutela pensionistica: le pensioni per gli agricoltori e gli artigiani sono state infatti introdotte solo nella seconda metà degli anni ’50 e quelle dei commercianti nella seconda metà degli anni ’60. Vale a dire che, considerando il loro precoce inserimento lavorativo, i soggetti nati prima degli anni ’40 (specie, ovviamente, quelli appartenenti ai ceti più modesti) si sono inseriti nel mondo del lavoro ben prima che i settori prevalenti avessero una copertura pensionistica e sono, quindi, rimasti anche parecchi anni in condizioni lavorative ‘non’ tutelate da un punto di vista previdenziale. Per loro, l’inserimento in un sistema tutelato è, infatti, avvenuto, tendenzialmente, solo negli anni ’60 vuoi in quanto molti dei lavoratori inizialmente occupati nell’agricoltura hanno trovato una collocazione lavorativa nell’industria, ossia nel settore che già precedentemente era ‘tutelato’, vuoi in quanto anche quelli rimasti nell’agricoltura, nel piccolo commercio o nell’artigianato, hanno comunque visto l’introduzione, a seguito del suaccennato mutamento normativo, della tutela pensionistica.
In ogni caso, quello che qui interessa rimarcare è che la tutela pensionistica ha avuto spesso luogo diversi anni (se non qualche decennio) ‘dopo’ l’inserimento nel mondo del lavoro, con l’effetto che, a fronte di storie lavorative sostanzialmente lunghe (in quanto iniziate precocemente), le storie contributive sono state, di norma, molto più brevi.
Inoltre la larga diffusione di collocazioni professionali poco qualificate e le ridotte retribuzioni che caratterizzavano tali collocazioni fino agli anni ’60 si sono tradotte in salari di importo mediamente molto modesto e, conseguentemente in altrettanto modesti importi dei contributi versati.
Le coorti nate successivamente, ossia negli anni ’40 e ’50, hanno avuto certamente storie lavorative meno precoci, ma, di norma, svoltesi prevalentemente in contesti lavorativi da un lato maggiormente tutelati da un punto di vista contrattuale e previdenziale, dall’altro connotati da un progressivo miglioramento dei livelli retributivi, sia per il mutato sistema economico, sia a seguito di collocazioni lavorative più qualificate, sia a seguito delle lotte operaie a cavallo degli anni ‘70, con l’effetto che anche i contributi previdenziali versati sono diventati, via via, più consistenti.
Se l’industrializzazione, che ha caratterizzato il ‘boom’ degli anni ’60 e ’70, ha inciso sulle condizioni contrattuali dei lavoratori, ha impattato anche, e in modo assai rilevante, sullo stesso assetto sul sistema previdenziale. Proprio il consistente incremento di inserimenti lavorativi nell’industria (che già precedentemente conosceva una tutela previdenziale), si è tradotto in un’elevata disponibilità di contributi versati, disegnando, per il sistema pensionistico, una congiuntura particolarmente ‘positiva’. Da un lato, ‘molti contributi versati’, dall’altro ‘poche pensioni erogate’ – vuoi perché pochi erano i lavoratori che andavano in pensione avendo molti e consistenti contributi versati precedentemente, vuoi perché, detto brutalmente, la speranza media di vita era di pochi anni superiore all’età al pensionamento.
E’ quindi in tale congiuntura, particolarmente favorevole, che si devono collocare le decisioni politiche di quegli anni che, da un lato, come si è accennato precedentemente, hanno introdotto la tutela pensionistica ai settori che ne erano precedentemente esclusi (e, di norma, a condizioni decisamente vantaggiose), dall’altro, hanno di fatto configurato come oggettivamente favorevole per i lavoratori il sistema pensionistico, in termini sia di età al pensionamento, che di calcolo dell’importo delle pensioni. È, infatti del 1965 l’introduzione delle pensioni di anzianità con 35 anni di contributi (ma, per i lavoratori pubblici, erano sufficienti 20-25 anni – e 15 per le donne coniugate), a prescindere dalla età anagrafica, mentre è del 1969 la normativa secondo la quale l’importo della pensione era calcolato sui salari/ stipendi percepiti negli ultimi tre anni prima del pensionamento – coì come l’istituzione delle pensioni sociali per i soggetti ultrasessantacinquenni privi di altri redditi significativi. Infine, nel ’75-76, la pensione viene agganciata ai salari e l’importo è fissato, al massimo, all’80% della retribuzione percepita nei tre anni più favorevoli tra gli ultimi dieci. Poiché, nella stragrande maggioranza dei casi, i lavoratori vedono accrescersi la loro retribuzione in funzione dell’anzianità aziendale e poiché la maggior parte di lavoratori assunti a partire dagli anni ‘60 ha conosciuto una forte stabilità lavorativa, tale computo è risultato, di fatto, decisamente conveniente per i lavoratori.
Generazioni anziane e condizioni economiche
Soffermiamoci ora, su come si sono trasformate le condizioni economiche delle diverse generazioni quando esse sono diventate da adulte, anziane, a partire dalla considerazione che tali condizioni sono il portato dell’intreccio tra i cambiamenti occupazionali e contrattuali che essi hanno vissuto da giovani e adulti e i mutamenti avvenuti nel sistema pensionistico.
I soggetti appartenenti alle generazioni nate prima degli anni ‘30 (e, in buona parte, anche nel decennio successivo), pur avendo avuto, spesso, lunghe (e faticose) storie lavorative e pur avendo potuto fruire di un sistema pensionistico molto tutelante, si sono tuttavia trovati, da anziani, frequentemente esposti al rischio di povertà proprio per le caratteristiche che avevano connotato tale loro storia lavorativa: bassi livelli professionali (e quindi retributivi) e spesso storie contributive molto più ‘brevi’ di quelle lavorative.
Le generazioni nate dagli anni ’40 alla metà degli anni ‘50, invece, da un lato hanno continuato a fruire del sistema ‘retributivo’, dall’altro hanno percepito, mediamente, retribuzioni migliori e, conseguentemente, versato contributi di importo maggiore, col risultato di percepire pensioni di importo decisamente più consistente rispetto a quelle delle generazioni precedenti. Peraltro, non a caso, tuttora le pensioni di anzianità vedono importi mediamente superiori rispetto alle pensioni di vecchiaia, cioè quelle percepite ai 65 anni, indipendentemente dalla durata dei contributi versati.
È, quindi, alla luce di questa storia ‘generazionale’ che si devono leggere i dati che evidenziano come gli anziani siano passati, negli ultimi due decenni, da essere la fascia di età maggiormente esposta al rischio di povertà a quella che, invece, vi è meno esposta (Luppi, 2018). In effetti, come evidenzia la tabella n. 5, mentre ancora alla fine degli anni ’90 il tasso di incidenza della povertà relativa tra gli anziani era pari al 16% – contro il 9% circa degli adulti, nel 2016 i valori risultavano praticamente invertiti, diventando rispettivamente pari all’8% e al 16%.
Nello stesso tempo, pur avendo un po’ posticipato l’ingresso nel mondo del lavoro (attorno ai 16 anni, anziché ai 12-14) queste generazioni hanno potuto continuare a fruire delle norme che prevedevano il pensionamento con 35 anni di contributi, dato che – essendosi inserite nel mondo del lavoro negli anni ’60, hanno comunque maturato i contributi necessari ad accedere alla pensione di anzianità ‘prima’ che mutasse il sistema pensionistico. Anch’esse sono, quindi, riuscite ad andare in pensione, di norma, ben prima dei 60 anni di età.
A fronte di questo miglioramento economico registratosi nel passaggio tra le diverse generazioni, si pongono però i mutamenti che hanno riguardato, e che stanno riguardando, i nati a partire dalla seconda metà degli anni ’50 – ossia i ‘nuovi’ anziani.
Da un lato vi sono i mutamenti pregressi, che hanno certamente disegnato, quando i soggetti di queste generazioni erano giovani, un miglioramento delle condizioni economiche, legate alla più frequente collocazione impiegatizia nei servizi (peraltro connessa alla crescente scolarità) e ai miglioramenti salariali degli scorsi decenni. Dall’altro, però, vi sono i mutamenti attualmente in corso, che li toccano ora che stanno diventando anziani e che sono di segno tendenzialmente problematico. In primo luogo, tali generazioni sono toccate dall’aumentata precarietà occupazionale degli ultimi anni – che riguarda anche l’occupazione altamente qualificata, precedentemente assai poco esposta a rischi di licenziamento (Facchini e Mingione, 2011), ma, soprattutto, esse sono coinvolte dall’attuale riassetto del sistema pensionistico, che prevede sia la posticipazione dell’età al pensionamento, che il graduale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo – oggettivamente meno favorevole – oltra ad aver visto congelato l’importo delle pensioni superiori ad una soglia comunque modesta. E’, dunque, questa, una generazione che sta assistendo ad un decremento della protezione previdenziale e che non può non vedere che con preoccupazione (e non solo con preoccupazione…) un mutamento di segno sostanzialmente negativo e, inoltre, giunto come largamente inaspettato.
Se i nati attorno alla metà degli anni ’50 (ossia gli attuali sessantenni) costituiscono, in qualche misura, una sorta di generazione di transizione, i mutamenti saranno ancora più marcati per i soggetti appartenenti alle generazioni nate a partire dagli anni ’60, che già hanno visto importanti mutamenti nel passaggio all’età adulta. Da un lato, un’ulteriore posticipazione dell’entrata nel mercato del lavoro (non più solo a causa della maggiore scolarità, ma anche a causa della crescente presenza, nelle fasi iniziali di inserimento lavorativo, di forme contrattuali meno tutelanti), dall’altro un ulteriore incremento della precarietà occupazionale da adulti, da cui sono toccati in misura crescente (e, come si è scritto sopra, anche nel caso siano altamente scolarizzati). Sono, inoltre, generazioni che, sanno, già da ora, che il sistema pensionistico si sta configurando in un modo sempre meno tutelante, sia in termini di anni di contributi necessari al pensionamento, che in termini finanziari – a causa appunto del passaggio al sistema contributivo.
Non è certo questa la sede per entrare nel merito di tali mutamenti, che, peraltro, hanno alla loro base le stesse trasformazioni demografiche e il consistente incremento della speranza di vita.
Quello che, però, si vuole sottolineare è che, mentre le precedenti generazioni hanno visto un progressivo miglioramento delle loro condizioni economiche – dapprima come adulti e, successivamente, come anziani, i soggetti appartenenti alle prossime generazioni anziane sono già più esposti, da adulti, al rischio di una crescente precarietà occupazionale (e quindi economica) e, saranno presumibilmente molto più esposti, quando diventeranno effettivamente anziani, al rischio di pensioni ridotte e, quindi, di un peggioramento delle loro condizioni economiche.
Generazioni anziane e storie familiari
Ma un discorso in qualche misura similare di un passaggio a crescenti incertezze (Facchini e Rampazi, 2006) lo si può fare per l’altro ambito fondamentale per la vita dei soggetti: quello che rimanda ai comportamenti familiari e procreativi.
Anzitutto, occorre sottolineare che, anche rispetto a questo ambito, le diverse generazioni hanno avuto storie ‘familiari’ molto diverse. In primo luogo, utilizzando, di nuovo, i dati Multiscopo 2009, si rileva che mentre le generazioni nate negli anni ‘30 e ’40 hanno avuto, di norma, più fratelli/sorelle (almeno quattro per il 45% dei nati negli anni ‘30, per il 35% dei nati negli anni’40), i nati negli anni ’50 e 60, anche se raramente sono figli unici, hanno però avuto un numero minore di fratelli e sorelle (la percentuale di chi ne ha avuto almeno quattro è attorno al 25% per i nati negli anni ’50, al 18% per quelli nati negli anni ‘60).
Nello stesso tempo, le nuove generazioni anziane hanno avuto, mediamente meno figli: ad esempio, ha avuto almeno 3 figli quasi il 30% dei nati negli anni’30, circa il 20% di quelli nati negli anni ’40 e 50, ma meno del 15% di quelli nati negli anni ’60. D’altro canto, a non averne avuto nessuno è circa il 12-14% dei nati fino a tutti gli anni ’50, ma un po’ più del 20% dei nati negli anni ’60.
Infine, se confrontiamo, a parità di classe di età, i dati relativi allo stato civile dei soggetti del 2001 con quelli rilevati nel 2016, rileviamo che in quest’ultima rilevazione i soggetti sono risultati, a parità di età, più frequentemente o celibi/nubili, o separati e divorziati: ad esempio, tra i 55-64enni i primi sono saliti da circa il 7% al 9%, i secondi da circa il 5% al 10%. Effetto, quest’ultimo, sia di separazioni/divorzi pregressi, effettuati, quindi, da adulti, sia di separazioni/divorzi effettuati, invece, in età già anziana. Al riguardo, basti citare che, negli ultimi 20 anni, le separazioni richieste da soggetti sposati da almeno 25 anni sono più che triplicate, passando da meno di 6.000 nel ’95, ad oltre 20.000 nel 2015.
Di nuovo, in questa sede, non interessa tanto entrare nel merito delle possibili ipotesi interpretative che si possono fare riguardo a questi profondi mutamenti, ma provare a fare alcune considerazioni sugli ‘effetti’ che, in prospettiva, tali mutamenti comportano sulle concrete condizioni di vita dei soggetti, specie quando diventano anziani.
Spunti per una riflessione
Poiché sappiamo che il contesto familiare e la rete parentale da un lato, condizioni economiche dall’altro, giocano un ruolo fondamentale nei modelli di cura, l’insieme dei mutamenti in atto non potrà non avere, nei prossimi decenni, ripercussioni rilevanti in termini di minori capacità dei soggetti e delle famiglie di affrontare i problemi legati all’invecchiamento e, in particolare, alla non autosufficienza, con ovvie ripercussioni sulle prospettive future di quelli che, ora, sono giovani anziani o ‘quasi’ anziani, ma che in futuro diventeranno, a loro volta, ‘anziani e ‘grandi anziani’, soggetti a patologie, a perdita di autonomia e, quindi, necessitanti di cura.
Ed è forse anche alla luce di queste considerazioni che devono essere letti i dati dell’ultimo rapporto Censis, che rileva una crescente situazione di timore per il futuro. Secondo il Censis, infatti, pensando al domani “il 69% degli intervistati dichiara di provare incertezza, il 17,2% pessimismo e il 13,8% ottimismo, con i pesi relativi di questi ultimi due stati d’animo quasi equivalenti, che finiscono per neutralizzarsi” (Censis, 2019).
Soprattutto, in questo quadro, mostra tutta la sua problematicità il mancato sviluppo di serie politiche di prevenzione degli aspetti più problematici dell’invecchiamento e a sostegno della non autosufficienza.
In particolare, per quanto riguarda questo aspetto, certo, ad ora un modello centrato, sostanzialmente, su una consistente diffusione di assegni di accompagnamento e sul ricorso a badanti, più o meno in regola (Da Roit, e Weicht, 2013; Gori, 2017), può sembrare sostanzialmente ragionevole: i costi per le famiglie sono sostenibili; gli anziani non sono ‘confinati’ in RSA; ci sono comunque familiari che gestiscono/controllano le badanti evitando i rischi connessi ad un rapporto a due, ‘senza’ testimoni; la spesa per il pubblico è certamente minore che se si implementassero politiche forti sia domiciliari che residenziali, ecc..
Tuttavia, nel medio-lungo periodo, in una situazione connotata, da un lato, da una minor copertura economica dopo la pensione, dall’altro da famiglie sempre meno presenti, tale modello non potrà che mostrare tutte le sue problematicità e tutte le sue inadeguatezze (Mazzola et al., 2015; Gori, 2017).
Bibliografia
Censis (2019), 53° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2019, Roma, Censis.
Da Roit B., Weicht B. (2013), Migrant Care Work and Care, Migration and Employment Regimes: A Fuzzy-Set Analysis, Journal of European Social Policy, 23.
Facchini C., Rampazi M., (2006), Generazioni ad un passaggio d’epoca. Certezze e precarietà nei racconti degli ultrasessantenni, in F. Ruggeri (a cura di), La memoria del futuro. Soggetti fragili e possibilità di azione, Milano, Franco Angeli.
Facchini C., Mingione E. (2011), Il cambiamento della morfologia sociale come matrice di nuovi rischi, in Carabelli G., Facchini C. (a cura di), Il modello lombardo di Welfare. Continuità, riassestamenti, prospettive, Milano, Franco Angeli.
Gori C. (2017), L’età dell’incertezza, in Network Non Autosufficienza (NNA) (a cura di), L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. 6° Rapporto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore.
Mannheim K. (1974), Il problema delle generazioni, in Id., Sociologia della conoscenza, Bari, Dedalo.