1 Settembre 2010 | Operatori

Badanti: evoluzione di un ruolo

Badanti: evoluzione di un ruolo

Premessa

Il termine badante è entrato nel vocabolario italiano alla fine degli anni Novanta ed ha goduto di un rapido successo tanto da finire sulle bocche dei politici e di milioni di Italiani. A nulla sono valsi gli sforzi di coloro che, vedendo nell’appellativo badante qualcosa di sminuente e denigratorio sia per chi svolge questo lavoro quanto per gli anziani che usufruiscono delle loro cure, hanno proposto di utilizzare altre denominazioni quali assistenti familiari, operatrici del lavoro di cura o altro. L’appellativo badante ha resistito tanto che viene utilizzato dalle stesse lavoratrici per motivi di semplicità e chiarezza (Iori,2009).

 

L’occasione per osservare il fenomeno del ricorso alle badanti, non solo nella cura informale a domicilio, ma anche nel più complesso sistema di cura formale, mi è stata offerta dalla possibilità di realizzare, tra il gennaio 2007 e il luglio 2007, in qualità di Referente attuativo, un progetto promosso dall’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (A.I.M.A.) Milano Onlus in collaborazione con l’Azienda Servizi alla Persona Golgi-Redaelli, Istituto Geriatrico Camillo Golgi di Abbiategrasso, con un contributo finanziario della Fondazione Ticino-Olona. Il titolo del progetto era “La cura condivisa: progettazione e monitoraggio di relazioni collaborative nel sistema di cura familiare e residenziale per soggetti portatori di patologia Alzheimer e altre forme di demenza”.

 

Breve descrizione del Progetto

In Italia, come in tutta l’Europa mediterranea, è presente un welfare nascosto che assegna alla famiglia, e più specificatamente alle donne, l’intero ambito della cura alla persona, cura che, in presenza di un soggetto portatore di patologia Alzheimer, può richiedere un’assistenza estesa fino a 24 ore su 24. La famiglia si trova perciò frequentemente a fare una richiesta d’aiuto a un membro esterno al sistema familiare con cui condividere il carico assistenziale. Inoltre, l’aumento dei malati di varie forme di demenza, correlato al prolungamento della vita, da un lato, e alla diminuzione del tasso di natalità, dall’altro, e i processi di emancipazione femminile, in atto dagli anni Settanta,hanno reso man mano più difficile conciliare la doppia presenza delle donne sul mercato del lavoro e in casa, determinando quello che viene definito “effetto sandwich” delle generazioni di mezzo, caricate dalle esigenze di cura degli anziani ed esigenze di sviluppo delle nuove generazioni. Si è inoltre diffusa una cultura della domiciliarità che porta molte famiglie italiane a preferire soluzioni informali nel campo dell’assistenza agli anziani.

 

Questa situazione ha determinato, da più di un decennio estesamente in Italia, il ricorso, da parte dei familiari, ad operatori non professionali: i/le badanti. L’intervento progettato intendeva presidiare, da una parte il momento dell’incontro tra domanda/richiesta d’aiuto della famiglia e offerta di cura e assistenza a domicilio da parte dei/delle badanti, dall’altra monitorare la continuità della loro presenza accanto al paziente e ai familiari, nel momento in cui il malato necessitava di un ricovero in struttura residenziale, sia temporaneo sia a lungo termine.

 

La realizzazione

A partire del tema centrale, la condivisione della cura, la realizzazione del progetto si è sviluppata in interventi differenti e tra loro complementari. Si sono creati luoghi e modalità affinché i differenti attori della cura – familiari caregiver, badanti e operatori dei reparti dell’Istituto C. Golgi – potessero aver voce, e quindi sentirsi ascoltati e compresi. Strumento principe è stata un’intervista semistrutturata che ha assunto spesso, nel corso della realizzazione con le badanti, la forma di intervista biografica. Sono inoltre stati utilizzati semplici questionari auto-compilati sulla percezione del carico assistenziale per familiari e badanti; gli operatori dei reparti coinvolti nel progetto sono stati incontrati in due focus group.

 

La condivisione della cura familiare a domicilio è stata indagata e trattata nel seguente modo:

  • Tramite una scheda compilata telefonicamente, sono state filtrate le richieste di familiari che, in vario modo, giungevano all’A.I.M.A. Milano Onlus, che presentavano le caratteristiche sia di presenza già a domicilio di una badante la cui gestione mostrava alcune criticità, sia di richiesta d’aiuto nel progettare un primo inserimento di tale figura;
  • Individuate le situazioni (15), sono stati fissati colloqui distinti per il familiare e per la badante, per la somministrazione degli strumenti approntati, presso lo sportello d’ascolto strutturato nella sede dell’A.I.M.A. Milano Onlus in Milano, gestito da due consulenti psicologhe, in fasce orarie facilitanti l’accesso di familiari e badanti.

 

Osservazioni e commenti

Per la famiglia, la richiesta d’aiuto ad un membro esterno al sistema familiare, come testimonia la letteratura sull’argomento, innesca dinamiche complesse. I familiari sperimentano, dolorosamente, i limiti delle proprie capacità di cura, e conseguentemente fanno fatica a discriminare gli aspetti da delegare al/alla badante da quelli da continuare a gestire personalmente. La situazione che viene a determinarsi è spesso carica di accordi impliciti e aspettative non realistiche che possono rendere disfunzionale la realizzazione della cura, con conseguente sovraccarico sia per il familiare, sia per la badante.

 

Dai colloqui svolti presso lo sportello d’ascolto, indipendentemente dal livello di gravità del paziente, abbiamo incontrato familiari caregiver con la profonda convinzione che la casa è il luogo dell’assistenza per realizzare le migliori cure. Il ricorso alle badanti -prevalentemente moldave- comprendeva pertanto, oltre alla valutazione di aspetti economici e sociali che avevano orientato la ricerca d’aiuto in tal senso, anche il desiderio di essere aiutati a tener fede a questa premessa. Nella permanenza a domicilio del malato, il caregiver resta l’interlocutore privilegiato e il regista per l’analisi e la soddisfazione delle esigenze del paziente, nei confronti del quale è in atto un profondo coinvolgimento emotivo, anche quando le storie relazionali familiari sono state caratterizzate da conflitti e carenza di riconoscimenti affettivi.

 

Le badanti intervistate hanno manifestato la loro disponibilità a condividere l’impegno della cura, anche in assenza di una specifica qualifica professionale. Percepiscono di essere il nuovo elemento, l’estraneo, che si inserisce in storie di vita familiare che non conoscono e che incontrano mentre stanno vivendo momenti di critica emergenza. Nei confronti dell’anziano/a dicono di nutrire sentimenti che rievocano quelli provati verso i loro nonni, nelle famiglie di provenienza, in genere definiscono, nonnino/a, con la persona di cui si occupano. La soluzione della convivenza della badante, scelta prevalente da parte dei familiari, accelera il crearsi di un rapporto con l’assistito/a. Diventare “una di casa” significa instaurare relazioni asimmetriche di potere, genere e classe, in cui i datori di lavoro, spesso donne, così come le badanti, segmentano il loro ruolo di figlie di genitori anziani non autosufficienti assegnando all’assistente familiare incombenze più pesanti e mantenendo per sé attività più dense di connotazioni affettive.

 

La creazione di un nuovo spazio domestico dove interagiscono persone molto diverse per età, abitudini e storie personali rappresenta così la nuova dimensione della cura a domicilio. Uno spazio di cui fanno parte non solo l’anziano accudito, i suoi parenti e la sua badante, ma anche la famiglia di quest’ultima, spesso dislocata altrove. Due spazi domestici locali vengono messi in relazione, al di là di confini e frontiere, per creare un più ampio spazio domestico transnazionale in cui si intrecciano relazioni affettive e sociali complesse (Balsamo, 2007). A detta delle badanti che abbiamo incontrato è come se questo tipo di accoglimento che incrocia la loro urgenza lavorativa permetta una sorta di affiliazione ad una nuova famiglia/nazione, con conseguente meticciamento tra nuova famiglia/cultura e famiglia/cultura di provenienza. Occorre però un processo di negoziazione quotidiana per costruire quella delicata sfera relazionale che si chiama intimità e accettare le contraddizioni insite nell’inserimento di ogni badante, l’estranea di casa.

 

Attraverso gi strumenti utilizzati, l’esplicitazione delle reciproche aspettative, dei familiari e dei/delle badanti, e il conseguente accrescimento di conoscenza realizzato in uno spazio e un tempo a ciò dedicato, si sono superate le criticità che erano insorte in alcuni inserimenti e si sono potuti progettare percorsi di cura condivisa a domicilio, con migliori premesse.

 

La condivisione della cura nei reparti è stata indagata attraverso strumenti ad hoc progettati e definiti in incontri opportunamente fissati presso l’Istituto Geriatrico Camillo Golgi di Abbiategrasso con il Direttore, il Direttore Medico, i Medici Responsabili dei reparti Alzheimer sia di lungodegenza sia di riabilitazione. Si è scelto quindi di utilizzare:

  • a) una lettera-invito rivolta a coppie di badanti e familiari di ospiti accolti nei reparti per informarli del progetto in atto nella struttura con l’obiettivo di meglio comprendere il modo in cui si possono integrare le risorse dei familiari, l’aiuto delle badanti e gli interventi istituzionali per la cura e l’assistenza dei pazienti. Allo scopo di raccogliere informazioni e suggerimenti sulla base della propria esperienza si invitavano quindi i familiari e le badanti disponibili a fissare un appuntamento in sede, per un colloquio con le due consulenti A.I.M.A. Milano Onlus;
  • b) un’intervista semi-strutturata svolta individualmente con il familiare e con la badante con utilizzo di alcune domande, opportunamente adattate, relative ad aree indagate dal Caregiver Burden Inventory e,in aggiunta, domande-stimolo per sollecitare la percezione soggettiva della modalità di accoglimento, coinvolgimento nella cura e soddisfazione nella presa in carico, sperimentati presso l’Istituto Geriatrico Camillo Golgi;
  • c) due focus group rivolti agli operatori sanitari di differenti professionalità dei reparti coinvolti nel progetto: un gruppo omogeneo, costituito da operatori appartenenti ad uno stesso reparto, un gruppo eterogeneo.

 

La realizzazione dei colloqui-interviste svolti con familiari e badanti dalle due psicologhe consulenti A.I.M.A. Milano Onlus presso lo sportello d’ascolto allocato in un ambulatorio ben individuabile, sul piano della Direzione Medica dell’Istituto Geriatrico Golgi, ha fatto emergere la complessificazione della cura nel passaggio del paziente dal domicilio al ricovero in struttura.

 

La decisione del ricovero in struttura è stata descritta coerentemente, sia dai familiari sia dalle badanti, come maturata congiuntamente quando la badante era già un aiuto presente per la cura a domicilio; non quindi come squalifica della cura informale domiciliare, ma come riconoscimento condiviso di complicanze insorte nel paziente tali da rendere necessario il ricovero e la ricerca di cura formale, anche nell’ottica di tutelare il benessere psicofisico del familiare caregiver e della badante. Sulla base dell’esperienza personale acquisita presso l’Istituto Golgi, sia i familiari, sia le badanti, ritengono che l’evento del ricovero temporaneo in riabilitazione rappresenti un’occasione di formazione-informazione per tutti gli attori della cura a domicilio (familiare caregiver, ma anche altri familiari e badante).  L’accoglimento in struttura del paziente viene percepito come rassicurante da parte dei familiari che si trovano ad essere riconfermati come principali interlocutori per la progettazione e realizzazione della cura del loro congiunto; le badanti, invece, si sono sentite poco utilizzate da parte degli operatori dei reparti rispetto alla possibilità di offrire il loro patrimonio di conoscenza del paziente che viene inserito. Per le badanti, il passaggio di collocazione del loro assistito dal domicilio alla struttura residenziale rappresenta una nuova esperienza: si sentono maggiormente identificate con la famiglia dell’assistito e diversamente estranee nel contesto relazionale del reparto. Tale percezione è rinforzata dal diverso modo con cui sono in relazione di dipendenza dai familiari, loro datori di lavoro, che richiedono tempi di presenza accanto al loro congiunto e in relazione quasi paritetica con gli operatori del reparto, loro supervisori, con cui devono concordare il modo di essere accanto al paziente, possibilmente risultando anche d’aiuto agli operatori sociosanitari nella realizzazione della cura.

 

Gli attori della cura a domicilio, relativamente all’organizzazione della cura in reparto, hanno spesso riportato la sensazione di tempi vuoti, senza attività specifiche, per i loro malati con potenzialità residue. Soprattutto le badanti che hanno trascorso quotidianamente molte ore in reparto hanno riferito difficoltà su come trascorrere il tempo che, a volte, generava la sensazione di non senso della propria presenza e di noia inevitabilmente traslata sul malato. In fondo, la casa dell’anziano si era trasformata in un rifugio in cui sentirsi utili, coerentemente con il proprio progetto migratorio, anche se tra mille mansioni ed incombenze; ora, il tempo del reparto, meno occupato, favorisce la nostalgia e fa rimpiangere la ricchezza dei rapporti sociali nel paese d’origine. È forse anche per questo che, se solo si scopre che ci sono altre badanti originarie dello stesso paese o di paesi limitrofi, si sceglie di parlare in madrelingua.

 

Una nota particolare merita quanto emerso dai colloqui svolti con familiari e badanti di pazienti che stavano per essere dimessi dal reparto, e quindi vicini al loro rientro a domicilio: la riorganizzazione della cura duale a domicilio genera sentimenti di preoccupazione e timori; la gestione triadica nel sistema di cura, sperimentata attraverso la condivisione tra operatori, familiari e badante, nel momento delle dimissioni, determina la necessità di dover quasi elaborare una separazione.

 

Questa percezione fa riflettere almeno su due aspetti:

  1. può testimoniare che familiari e badanti hanno sperimentato aiuto e sostegno nella relazione di cura nella permanenza in reparto, quasi si siano sentiti presi in carico anche loro, pur senza sentirsi espropriati dei loro specifici ruoli;
  2. può essere anche letta come una richiesta alla struttura di ipotizzare dimissioni protette nella forma di accompagnamento facilitante la riorganizzazione della cura a domicilio da parte di familiari e badanti, con la garanzia che la struttura può rimanere sullo sfondo, a distanza, l’altro potenziale interlocutore, ormai conosciuto, nella cura del proprio congiunto/assistito.

 

Il punto di vista degli operatori sociosanitari è stato raccolto nel corso della realizzazione dei due focus group programmati, in cui i partecipanti sono stati stimolati a discutere sul fenomeno delle badanti presenti in reparto, descritto metaforicamente tra luci ed ombre e tra visibilità ed invisibilità. Gli operatori hanno osservato che la presenza della badante in reparto, pagata dal familiare, può rappresentare la tangibile continuità di cura offerta dalla famiglia e attenuare il senso di colpa che inizialmente il ricovero in struttura comporta. Alcuni operatori non segnalano particolari differenze tra la presenza di un familiare o la presenza di una badante, accanto ad un paziente, in quanto rappresentano, entrambi, occhi diversi sul reparto, di cui tenere conto. Certo, il familiare è pensato come una naturale presenza; la presenza della badante diventa un evento imprevedibile e quindi va monitorato con cura ed attenzione.

 

Gli operatori hanno quindi parlato di invisibilità e di ombre quando a loro sembra di osservare che la badante, sperimentando di aver perso il ruolo centrale per la cura del malato, prova ancora ed impropriamente ad esercitarlo, non seguendo le direttive del reparto, oppure, quasi con un atteggiamento di sfida, pur essendo presente, delega in toto la cura agli operatori. La famiglia del paziente non è in grado, da sola, di porre dei confini ai vari attori della cura in reparto e la situazione che ne consegue risulta confusa e disagevole, appunto, con ombre. Da parte degli operatori viene riferito,inoltre,un certo sentimento di esclusione quando ascoltano badanti straniere che parlano tra loro nella loro lingua madre; si sentono non partecipi del dialogo, nel loro reparto.

 

Gli operatori hanno anche parlato di visibilità e luci quando, informati della presenza della badante, la sentono come una preziosa fonte d’informazione per conoscere la persona malata, per loro, nuovo ospite. Percepiscono inoltre la badante utilissima -a volte è il reparto stesso che ne chiede l’inserimento ai familiari- nel contenimento di disturbi comportamentali del malato che possono generare difficoltà nella gestione complessiva del reparto. Gli stessi operatori pensano che, concordati i tempi e i modi, la presenza della badante in reparto possa essere vissuta come garanzia di sicurezza, perché il malato è in buone mani.

 

Conclusioni

Gli interventi progettati e realizzati, nei differenti ambiti, hanno permesso di rilevare una continuità nella discontinuità degli interventi nel sistema complesso di cura per soggetti affetti da malattia di Alzheimer ed altri tipi di demenza. Le interazioni osservate tra gli attori della cura a domicilio con gli operatori dei reparti dell’Istituto Golgi testimoniano che è possibile condividere la cura, se tutti gli interlocutori, soprattutto gli operatori sanitari competenti, provano ad ipotizzare di trasformare le emergenze, come il fenomeno badanti in reparto, da rischio in risorsa.

 

Un inarrestabile processo di ricerca di nuove soluzioni per soddisfare i bisogni di cura ed assistenza prevalentemente espressi dagli anziani, ma non solo, all’interno delle nostre città globali, ha portato a riconoscere come una risorsa indispensabile la manodopera femminile offerta dalle nuove migrazioni soprattutto dai paesi dell’Est europeo, Moldavia e Ucraina in particolare. Nel settore dei servizi e della cura si scoprono storie invisibili di tante madri migranti intrappolate tra il mito del ritorno e il dramma della doppia assenza, in una condizione esistenziale incerta, scisse nella dislocazione delle relazioni affettive, là, nel proprio paese d’origine, con propri figli e nell’accudire, qua, i nonni acquisiti, malati. Nella catena globale della cura il fenomeno badanti tenderà ad essere sempre più esteso per il mantenimento degli equilibri della nostra società: magari non arriveranno più donne sole, con un progetto migratorio di breve-medio periodo finalizzato all’invio a casa della maggior quantità possibile delle rimesse a favore della famiglia. Il ricongiungimento familiare e la scelta di far venire in Italia il marito e i figli in un percorso di ricomposizione familiare al femminile sarà una variabile fondamentale di questo processo.

Bibliografia

Balsamo F. Anziane e badanti. Spazi domestici tra cultura e intercultura. In: Pontecorvo C.(a cura di) Tra ordinario straordinario:modernità e vita quotidiana. Carocci, Roma 2007.

Iori R. Da badanti ad assistenti familiari. L’evoluzione di una figura professionale nell’esperienza della provincia di Modena. Carocci, Roma 2009

 

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