I lavori del tavolo tecnico Ministero Salute-Regioni sulle “nuove competenze degli infermieri” hanno suscitato un vivace dibattito anche tra gli stessi infermieri. La proposta licenziata dal tavolo tecnico, che è all’attenzione della conferenza Stato Regioni, individua sei aree di intervento per ciascuna delle quali sono state individuate specifiche competenze professionali.
Tali aree sono:
- Area cure primarie
- Infermiere comunità
- Famiglia;
- Area intensiva e dell’emergenza urgenza;
- Area medica;
- Area chirurgica;
- Area neonatologica e pediatrica;
- Area salute mentale e dipendenze.
Il documento introduttivo “Evoluzione della professione infermieristica” riassume le ragioni di un cambiamento non più rinviabile a partire dalla considerazione che nel contesto del Servizio Sanitario Nazionale e in modo più estensivo nell’assistenza alla persona, si sta assistendo ad una significativa evoluzione delle componenti organizzativo-assistenziali conseguenti all’oggettivo manifestarsi di alcuni fenomeni, legati, in particolare, all’aumento dell’età media, della popolazione con fragilità e malattie cronico-degenerative, a cui si associa la costante e profonda evoluzione scientifica e tecnologica. Ciò rende necessario ridefinire gli ambiti di cura e di assistenza, perseguendo processi basati sulla continuità, data dai percorsi assistenziali tendendo, da un lato, a standardizzare e sistematizzare le principali prestazioni e, dall’altro, ponendo le basi per la personalizzazione dell’assistenza.
Dal nostro particolare osservatorio non v’è dubbio alcuno che la formazione di base e complementare dell’infermiere (e di tutte le altre professioni della salute) necessiti, in tempi rapidissimi, di recuperare il ritardo con cui nel nostro paese stiamo affrontando i problemi connessi al fenomeno dell’aumento della spettanza di vita a cui si associano un aumento di situazioni di fragilità, cronicità e non autosufficienza che richiedono interventi specifici, qualificati e appropriati. Tutte le professioni della salute, in particolare infermieri e medici, dovrebbero avere nel corso di laurea una formazione ad hoc per affrontare i problemi più comuni delle persone anziane (si stima che nel 2040 gli ultrasessantacinquenni rappresenteranno quasi un terzo della popolazione italiana) e per riconoscere chi necessita di interventi specialistici. La trasformazione, necessaria per rispondere ai bisogni di questa fascia di popolazione, rispettando criteri di sostenibilità, equità, appropriatezza, efficacia, efficienza e consenso, include anche un ampliamento delle competenze degli infermieri, in particolare nell’area dell’assistenza all’anziano (peraltro non prevista dalla bozza). Ma ciò non basta. Riteniamo che per agire e finalizzare nuove e consolidate competenze sia necessario intervenire su due aspetti che rappresentano altrettante condizioni propedeutiche e irrinunciabili: la riorganizzazione delle cure primarie e la definizione degli outcome.
La riorganizzazione delle cure primarie
Oltre trent’anni fa la dichiarazione di Alma Ata proponeva la Primary Health Care (PHC): una politica ed una strategia articolata, pensata per migliorare lo stato di salute di tutta la popolazione, particolarmente rivolta ai più poveri (economicamente, culturalmente, socialmente), basata sulla partecipazione del singolo e delle comunità alle decisioni riguardanti la propria salute attraverso attività di prevenzione e promozione della salute, tecnologie appropriate, integrazione dei servizi sanitari con altri settori, ad esempio la scuola, i trasporti, i lavori pubblici e sostenibilità degli interventi nel medio e lungo termine.
Molti lavori pubblicati in letteratura (Kruk et al., 2010; Withanachchi e Uchida, 2006; Nasseri et al., 1991; Gakidou et al., 2006; Ministry of Health of Brazil, 2007; Rosero-Bixby, 2004; Johns Hopkins University, 2006; Mullan e Frehywot, 2007) hanno ampiamente dimostrato l’efficacia del modello PHC, scarsamente considerato nei paesi industrializzati.
Nel nostro paese l’organizzazione delle cure primarie richiede un cambiamento culturale (che non ritroviamo né nel documento del tavolo tecnico ministeriale dedicato a “Cure primarie e integrazione ospedale territorio” né nell’articolo 1 del Disegno di Legge 158/2012 o Decreto Balduzzi): il passaggio da una medicina d’attesa (curo e mi prendo cura di coloro che hanno già una malattia o un problema sanitario e si rivolgono ai servizi, con grande enfasi sul ruolo dell’ospedale) a una medicina di iniziativa, come proposto nel modello della PHC, (intercetto coloro che sono a rischio di sviluppare malattie o problemi di salute) con un forte investimento di risorse e nuove progettualità sul territorio e una ridefinizione dell’attuale organizzazione della medicina di base (Becchi et al., 2008).
Al riguardo, riteniamo particolarmente interessante l’esperienza della Gran Bretagna avviata nel 1990. Anche nel modello inglese di medicina di iniziativa si è assistito ad un ampliamento delle competenze degli infermieri (sono gli infermieri ad occuparsi di alcuni problemi clinici dei pazienti, a ripetere le prescrizioni o a farne per alcuni farmaci) con relativo strascico di polemiche e perplessità da parte dei medici,come ben riassunto dal titolo dell’editoriale pubblicato da Steve Iliffe sul British Medical Journal “Nursing and the future of primary care. Handmaidens or agents for managed care?” (Iliffe, 2000). Ma molto più interessante è il dibattito sorto tra i colleghi inglesi che temevano di essere considerati come un’espansione del medico e non come una professione autonoma.
La capacità nel cogliere e governare il cambiamento, per gli infermieri inglesi, risiedeva nell’orientare i loro interventi sulla valutazione dei bisogni e dei rischi, sulla gestione del paziente cronico, e non sull’agire “nuove” competenze che ritenevano essere non il fine, ma bensì strumenti utili solo se finalizzati a realizzare un progetto di presa in carico orientato alla promozione, al rinforzo delle abilità della persona assistita, allo sviluppo di reti e percorsi integrati con gli altri professionisti, medici compresi (McDonald et al., 2009). Anche noi, come i colleghi inglesi, riteniamo che lo sviluppo della nostra professione non risieda nell’acquisire competenze “altrui”, ma nella valorizzazione delle competenze assistenziali che ci appartengono e che possono trovare piena attuazione in modelli organizzativi meno medico-centrici, che valorizzano la presa in carico della persona fragile, affetta da patologie croniche con maggiori possibilità di garantire risposte ai bisogni attraverso la continuità delle cure e dell’assistenza.
La definizione degli outcome
La ricerca di indicatori di risultato di salute su cui orientare gli interventi è certamente una sfida per tutti i servizi sanitari, ma è uno sforzo irrinunciabile. È attraverso la valutazione degli outcome che i servizi, le èquipe multi professionali e i singoli professionisti possono misurare e giustificare sostenibilità, equità, appropriatezza, efficacia, efficienza dei propri interventi. Nell’organizzazione dell’assistenza e delle cure ai pazienti cronici si fa spesso riferimento a più servizi, a diversa intensità di intervento, che lavorano in rete: la definizione degli outcome, per ciascuno di questi servizi, è indispensabile per evitare sovrapposizioni e definire i criteri di accesso dell’utenza. L’importanza, per noi infermieri, dell’individuare indicatori di risultato attribuibili all’assistenza infermieristica è cruciale per dimostrare in modo efficace che gli infermieri fanno una differenza critica, di efficacia ed efficienza nel fornire assistenza sanitaria sicura e di elevata qualità.
Gli indicatori di risultato attribuibili all’assistenza infermieristica colgono ciò che gli infermieri fanno, quali risultati raggiungono e quanto costano. Questo è un importante passo anche verso l’allocazione appropriata delle risorse di assistenza sanitaria e aiuta a rendere visibile il contributo infermieristico nell’assistenza sanitaria (International Council of Nurses, 2012). Il cambiamento che auspichiamo per la nostra professione in ambito geriatrico, ma non solo, risiede in una nuova cultura organizzativa, alla cui definizione molti tra gli appartenenti a questa professione sono adeguatamente preparati per poter utilmente contribuire. Un’organizzazione che privilegi i risultati rispetto ai processi e che valorizzi le abilità e le competenze di tutti i professionisti. Spostare l’attenzione dalle competenze ai risultati potrebbe essere un’operazione utile a favorire il confronto fra professioni certamente diverse ma chiamate con pari dignità a contribuire “con un pensiero forte” alla cura e assistenza delle persone più fragili.
Bibliografia
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Becchi MA, Guelfi I, Pescerelli M, Caiti O, Zurlino A. L’identità della Medicina di Comunità. In: Panorama della Sanità 2008;17:44-9.
Gakidou E, Lozano R, González-Pier E, Abbott-Klafter J, Barofsky JT, BrysonCahn C, Feehan DM, Lee DK, Hernández-Llamas H, Murray CJ. Assessing the effect of the 2001–2006
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Johns Hopkins University & Indian Institute of Health Management Research. 2006 Afghanistan Household Survey. Kruk ME, Porignon D, Rockers PC, Van Lerberghe W. The contribution of primary care to health and health systems in low- and middle-income countries: A critical review of major primary care initiatives. Soc Sci Med 2010;70:904-11.
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