Scrivere: un’esperienza trasversale a luoghi, tempi, generi, età, attività lavorative e umane; un gesto abituale, che ci accompagna – con fatiche e frequenze diverse – nei giorni e negli anni. Il potere della scrittura è straordinario e non sempre valorizzato: scrivere chiarifica, rende consapevoli, fa crescere, comunica, lascia traccia e memoria. Le parole scritte possono far esplorare paesaggi inediti dell’anima, lenire sofferenze, dischiudere speranze e prospettive, portarci ad altezze e profondità che solitamente non raggiungiamo: sono un mezzo potente. Soprattutto in questi tempi difficili – attraversati da una crisi epocale, culturale e umana prima ancora che economica e sociale – c’è un grande bisogno di scoprire ed esplorare il sapere dell’anima, di valorizzare e difendere l’intelligenza del cuore, di dare dignità alle emozioni e ai sentimenti attraverso le parole scritte. Siamo sommersi da parole ridotte a chiacchiera o slogan: bozzoli vuoti, gusci fonetici privi di senso che non dicono nulla alle nostre menti e ai nostri cuori. Parole che si dicono e si ripetono in fretta, troppo in fretta.
La scrittura – certo, non quella da sms o da social network – è tutt’altra cosa: chiede e impone tempo, silenzio, ascolto. Poi, naturalmente, c’è bisogno che in molti leggano quello che i “cuori pensanti” hanno scritto. Così afferma lo scrittore Ferdinando Camon nel suo sito: “Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde. La scrittura registra il lavoro del mondo. Chi legge libri e articoli eredita questo lavoro, ne viene trasformato, alla fine di ogni libro o di ogni giornale è diverso da com’era all’inizio. Se qualcuno non legge libri né giornali, ignora quel lavoro, è come se il mondo lavorasse per tutti, ma non per lui”.
La scrittura professionale nelle professioni di cura
Venendo più in specifico all’ambito dei servizi alla persona, la scoperta del potere della scrittura è storia recente e ancora poco diffusa, poco prevista e valorizzata. In realtà si è sempre scritto, anche se più dalle figure “forti” che dalle figure dell’operatività quotidiana, fianco a fianco di pazienti e utenti. Le evoluzioni degli ultimi tempi hanno maggiormente chiamato alla scrittura le figure meno implicate nello scrivere, considerato a torto appannaggio di alcuni e non di tutti; ma lo scrivere nei servizi ha mantenuto per lo più la caratteristica dello scrivere nel lavoro, anziché dello scrivere del lavoro. Anche quando si scrive molto – in progetti, piani, schede, relazioni – lo sguardo è posto al caso, alla situazione specifica; e ancora, si scrive perché si deve, non perché si vuole.
Ovviamente, è molto diverso se scrivo perché devo documentare o “giustificare” il mio operato, perché lo richiedono il mio responsabile e l’ente per cui lavoro, perché lo impone la normativa, o se scrivo per trasformare l’informazione in conoscenza e la pratica quotidiana in esperienza, per riflettere su processi e relazioni di aiuto che mi coinvolgono, per dare spazio e corpo alle risonanze emotive di incontri e situazioni di vita in cui sono “immerso”, per lasciare traccia e memoria della mia esistenza professionale. In altri termini, se scrivo per rendicontare quello che faccio o se scrivo per “scrivermi”, per scrivere professionalmente di me e del mio lavoro. Come afferma Franca Olivetti Manoukian, “l’attività che praticamente si svolge nei servizi rischia di essere un fare per fare, una sorta di inesauribile attivismo che consuma e avvilisce, se non è continuamente riconsiderata ed elaborata, se la pratica non diventa esperienza da cui e con cui si apprende (…) La realtà la si legge, la si rappresenta nella mente per sé e contemporaneamente per gli altri, e quindi è cruciale che si riesca, con parole nostre (anche se inevitabilmente non sono tutte nostre, perché in parte sono prese in prestito da altri), a scriverla, descriverla, riscriverla. Questo è un senso dello scrivere all’interno dei servizi ben poco valorizzato” 1.
La scrittura professionale non documentativa: un’enorme fatica, ma con grandi potenzialità
Ammetto che scrivere di sé e del proprio lavoro è molto difficile: il linguaggio scritto esige la capacità di riorganizzare le idee e di argomentare le proprie opinioni e convinzioni, richiede un’accurata pianificazione, necessita di definire e seguire un processo ideativo e applicativo, impone livelli non superficiali di riflessione e di sintesi critica sulla propria esperienza, ha bisogno di un preliminare bilancio personale e professionale. Se poi si scrive non solo in termini individuali, ma anche – o soprattutto – insieme ad altri, le difficoltà si amplificano. Ma, come per altri aspetti e strumenti professionali, è possibile esercitarsi e imparare… Si tratta di una fatica trasformativa e arricchente, purtroppo ancora poco contemplata ed esplorata. Nei servizi non abbondano scritti dallo sguardo più ampio e riflessivo, contestuale o retrospettivo, che interroghino e vivifichino la pratica quotidiana: questa rischia così di appiattirsi su una moltitudine di incontri, attraversati senza darsi il tempo di fermarsi e senza darsi una possibilità inconsueta e preziosa di apprendere dall’esperienza, propria e altrui.
Fermarsi. La scrittura non documentativa implica un profondo cambiamento dello sguardo a ciò che si fa: anziché continuare ad agire e a “produrre”, ci si ferma, si rivisita ciò che si è fatto, si mettono nero su bianco riflessioni e pensieri, riferiti alle proprie e altrui azioni già agite. L’esperienza pratica, l’operatività quotidiana acquistano così un significato diverso: cessano di essere frutto di routine, per assumere un valore di studio, confronto e riflessione, risultare generalizzabile e trasmissibile ad altri, con conseguenze per la cultura professionale e di servizio.
Sostare davanti a uno strumento di scrittura – computer o penna, poco importa –, cercare “le parole giuste” per comunicare il proprio specifico professionale, significa:
- concedersi (o conquistare) uno spazio e un tempo per “pensare il fare”, “pensare al fare”, ritagliandosi un contenitore di pensiero e di riflessione che consente di rendere l’agire professionale più visibile, apprezzabile, comunicabile
- aprirsi a una dimensione del prendersi cura del sé professionale, della comunità professionale a cui si appartiene, del proprio lavoro e della propria organizzazione, a beneficio di tutti
- interrogare e rileggere, su basi diverse, le motivazioni a una professione di aiuto, i vissuti, la realtà quotidiana e l’esperienza, propria e altrui
- aumentare la comprensione e la conoscenza, contribuendo a un’identità professionale robusta (proprio perché derivante da una pratica professionale rivisitata e ripensata da chi la vive) e a un sapere comune e specifico del gruppo professionale, del servizio e dell’ente di appartenenza
- rendere più autorevole e fondata la comunicazione su senso, obiettivi, risultati, gratificazioni e frustrazioni del proprio lavoro
- sperimentare un contatto particolare con le proprie emozioni e risonanze interne, che consente di rielaborarle e di produrre nuove conoscenze e consapevolezze da investire in un rinnovato contatto con la realtà operativa
- costruire memorie professionali e storicizzare l’esperienza, rendendola visibile, apprezzabile, comunicabile e trasmissibile a chi è a fianco o sopra di noi, a chi è lontano da noi, a chi verrà dopo di noi.
Ecco, costruire memorie professionali.
Nei servizi si parla da qualche tempo di contrastare l’oblio, di ostacolare la perdita devastante di storia e di radici che si avrebbe, se l’esperienza di chi oggi è anziano non lasciasse traccia nel mondo, se la memoria si spegnesse con la morte del cuore o il declino della mente. È così che si sono diffuse esperienze di raccolta delle memorie degli anziani, e si sono esplorate potenzialità e ricchezze di autobiografie e storie di vita degli utenti. Ma all’oblio professionale, alla perdita di pezzi enormi di storia dei servizi non si pensa ancora abbastanza: negli anni è rimasta traccia dell’attività clinica e delle procedure burocratiche, dell’ufficialità, ma molto si è perso del lavoro specie delle figure dell’operatività quotidiana, fianco a fianco di pazienti e utenti. E a questo si dovrebbe porre rimedio.
Individuare la “giusta distanza” nelle relazioni di cura
Scrivere del proprio lavoro presuppone e impone, indipendentemente dall’esserne consapevoli, una distanza dall’operatività: una distanza temporale, spaziale, mentale, emotiva, che consente di guardare con il necessario distacco alle storie e ai casi che si incontrano, ma senza estraniarsi, e di “immergersi” nel proprio specifico professionale, senza perdersi. Un “dentro-fuori” particolare e prezioso, in cui si esprime una situazione di equilibrio inconsueta fra il pensiero e l’azione, fra la mente e il cuore. In altre parole, scrivere del proprio lavoro può consentire di fare posto all’Altro dentro di sé, senza esserne eccessivamente invasi. Un aiuto formidabile nella ricerca della “giusta distanza”, di cui si parla molto nei servizi e nelle professioni di aiuto: quella misura che consente all’operatore di tenersi quel tanto vicino per comprendere le persone di cui si occupa e si preoccupa e, insieme, quel tanto lontano per mantenere il compito professionale, attraverso una “calda lontananza” (come preferisco definirla io), che sola può permettere di essere veramente di aiuto. Una distanza adeguata, che consente di osservare e riflettere: non di allontanarsi ed estraniarsi, come strada obbligata per difendersi dal troppo dolore incontrato giorno dopo giorno; non di fare un passo indietro, ma di fare un passo a lato, per ripensare al proprio agire in modo riflessivo.
Così afferma Alessandra Augelli: “La scrittura, nell’esercizio di pensiero che stimola, nelle soste che crea, ci permette di uscire dai percorsi standardizzati. La pratica narrativa ci concede quella distanza necessaria da ciò che accade sotto i nostri occhi, nella nostra pelle ed è solo in questo spazio di apparente distacco che si guadagna il senso dell’agire e una rinnovata prossimità a se stessi e agli altri”2. La distanza è un valore, e se intesa come “calda lontananza” è un bene prezioso nel lavoro sociale: consente di recuperare uno sguardo maggiormente obiettivo verso l’esterno, di dare spazio a uno sguardo più profondo verso l’interno (il proprio mondo emotivo), di assumere una posizione differente rispetto al proprio fare quotidiano, e quindi di tutelarsi da invischiamenti e routine, di nutrirsi e rigenerarsi, con un profondo rispetto per sé e per gli altri. Scrivere del proprio lavoro diventa così un modo per prendersi cura della propria dimensione emotiva, che può esprimersi in eccessi di opposta natura: si può essere vittima dell’ansia del fare o, all’opposto, della paralisi da senso di impotenza. La scrittura ha funzioni contenitive e riparative: può aiutare l’operatore ad affrontare, nella realtà lavorativa quotidiana, situazioni complesse, opache, statiche, pesanti, ripetitive, difficili da cambiare, emotivamente coinvolgenti. Dà forma agli eventi e ai vissuti, fornisce struttura a ciò che diviene pensabile e dicibile, propone un meta livello dell’esperienza professionale: un ascolto dell’ascolto, un’osservazione dell’osservazione, un pensiero del pensiero.
Scrittura individuale, scrittura di gruppo
Lo scrivere del proprio lavoro non dovrebbe essere un fatto personale / individuale. È per sua natura un atto che rimanda a un soggetto collettivo, a un “noi” (reale o prefigurato): una comunità professionale, un gruppo di colleghi, un’équipe di servizio, un’associazione di professionisti, un ente pubblico o privato… Perché esprima tutta la sua potenza, lo scrivere del proprio lavoro deve infatti essere “una questione di gruppo”, allargata, condivisa fra gli operatori e sostenuta dalle loro organizzazioni di riferimento, piccole o grandi che siano. Può naturalmente avviarsi o beneficiare di scritti prodotti individualmente, ma che poi diventano “affare di tutti”, pur riconoscendo la titolarità della produzione al singolo autore. Se scrivere individualmente del proprio lavoro è faticoso e complesso, scrivere in gruppo lo è ancora di più. Ma condividere la scrittura di sé e del proprio lavoro non ha eguali: può consentire di transitare in gruppo a un meta livello della propria e altrui esperienza professionale, di posizionarsi fra ricerca e testimonianza, di costruire insieme riflessione e rielaborazione della pratica quotidiana.
Anch’io scrivo molto, da parecchio tempo, da sola e insieme ad altri. Conosco molto bene la fatica immane che scrivere comporta e so quanto sia “scomodo”, difficile e impegnativo; ma conosco anche il potere incredibile della scrittura: dopo più di trent’anni nel mondo dei servizi sociali, socio-educativi, socio-sanitari non ho ancora trovato qualcos’altro che sia altrettanto affascinante, trasformativo e nutriente, riguardo a irrobustire il proprio sapere, comunicare e condividere l’esperienza propria e altrui, rilanciare il pensiero e la riflessione, valorizzare e rifondare ciò che si fa, crescere umanamente e professionalmente. È per questo che insisto in questa direzione, per me e per gli altri, da sola e insieme ad altri. Detto questo, penso anche che non sempre gli operatori possano accedere a occasioni promosse o riconosciute dalle organizzazioni di appartenenza. In tal senso, mi sembra opportuno indicare alcune situazioni in cui lo scrivere del proprio lavoro può rappresentare un utile strumento anche se agito totalmente in termini individuali.
La prima situazione è riferita all’inizio della carriera lavorativa, quando il passaggio dalle prefigurazioni (più o meno idealizzate) e dai modelli teorici alla realtà operativa richiede di essere accompagnato e tutelato. Specie in situazioni di difficoltà lo scrivere del proprio lavoro diviene in questo caso l’occasione e il percorso per interrogare diversamente le proprie motivazioni e aspirazioni, e per esercitarsi in modo creativo e positivo sul confronto fra teoria e realtà. Un’altra situazione si riferisce a un cambiamento significativo (di ente, servizio, utenza), che impone una rivisitazione delle proprie convinzioni e abitudini, suggerisce una messa in discussione critica ma serena delle proprie sicurezze e consuetudini professionali, richiede un bilancio non superficiale dei propri punti di forza e di debolezza, della padronanza di tecniche, dell’attitudine e abilità di occuparsi e preoccuparsi degli altri in contesti e situazioni differenti. Infine, specie nelle situazioni di solitudine professionale, scrivere del proprio lavoro può risultare utile dopo anni nello stesso ente e servizio, con gli stessi colleghi, con la stessa tipologia di utenza: può aiutare a “fare il punto” su se stessi al lavoro, ricollocare percezioni e sensazioni, dare voce alle emozioni, “fare un rilancio” qualitativo, conoscere meglio la propria e le altre figure professionali, il proprio servizio e gli altri dello stesso ente.
Laboratori di scrittura professionale
Le considerazioni e riflessioni che condivido tramite questo articolo derivano da svariate esperienze, condotte da sola e insieme ad altri nell’arco di oltre un decennio. Si tratta di laboratori di scrittura professionale attivati appositamente da soggetti diversi (la Provincia di Milano, la Cooperativa Sociale CRM, la Cooperativa Sociale COGESS, l’associazione di psicomotricisti di area educativa ANUPI), con obiettivi differenti legati alla specificità del soggetto promotore, ma anche alla storia e all’evoluzione di figure professionali, enti e servizi. Altra esperienza in cui sono stata coinvolta riguarda un progetto di scrittura collettaneo di comunicazione della professione dell’assistente sociale, teso a testimoniare esperienze e contesti in un momento storico di grande trasformazione sociale e del sistema dei servizi. Da tali esperienze traggo alcuni stralci esemplificativi delle produzioni individuali e di gruppo, raggruppati nei box che corredano l’articolo.
Un pilastro metodologico del laboratorio di scrittura professionale è rappresentato dalla scelta iniziale – effettuata in termini individuali, in totale libertà e autonomia – dei temi su cui cimentarsi e delle forme attraverso cui esprimersi, seguita da una fase collettiva di composizione dei gruppi su temi definiti e concordati insieme. Totale libertà e autonomia anche riguardo le modalità di ideazione e di produzione: alcuni gruppi hanno condiviso insieme ogni passo compiuto e ogni parola messa su carta, altri hanno alternato momenti comuni a momenti individuali, contemplando anche la produzione di brani autobiografici. C’è chi ha preferito uno stile di scrittura più asciutto, diretto e tecnico-documentativo, chi uno stile più caldo, metaforico e narrativo.
Nella mia visione e nella mia esperienza, il laboratorio di scrittura professionale è quindi un contenitore a prima vista vuoto, un tempo-spazio da riempire insieme poco a poco. La tipica “ansia da foglio bianco” altro non è che smarrimento di fronte a uno specchio, uno specchio invisibile ma non per questo debole: scrivere ci pone a nudo, toglie sovrastrutture e incrostazioni, ci mette a diretto contatto con il nocciolo delle questioni, comprendendole così profondamente da poterle tradurre in parole per gli altri. Remore e resistenze sono pallide scuse: scrivere non è solo questione di stile o di grammatica – ognuno ha o trova il proprio stile, gli errori si possono far individuare e correggere da altri più sapienti -; è soprattutto comunicare a sé e agli altri, con il cuore e con la testa, il proprio contributo al mondo.
Pur nella loro diversità, ogni laboratorio si è rivelato, per tutti e per ciascuno – me compresa, ovviamente – un’esperienza insolita, originale, faticosissima, creativa e nutriente. Tutti avevano precedenti esperienze di scrittura (per lo più testi e materiali di produzione “obbligatoria”, sostanzialmente connaturati a input e prescrizioni provenienti dall’esterno); nessuno si era trovato precedentemente in un’avventura professionale simile. Chi aveva molto da dire, spesso senza saperlo, si è scontrato con la fatica e la non abitudine a scrivere a un livello “meta” sul proprio lavoro e a fare un passo a lato, per metterlo meglio a fuoco e renderlo più comunicabile, specie riguardo alla sua complessità. Si è misurato con la difficoltà nel condividere con colleghi – della propria o di altra figura e funzione – la riflessione e la rielaborazione del fare quotidiano. Chi aveva poco da dire, perché non ancora pronto o preda di una giustificata rabbia o insoddisfazione, ha faticato meno a scrivere, ma ha riempito i fogli di parole pallide e deboli.
Nelle situazioni in cui dal laboratorio è scaturita una pubblicazione, si è sempre trattato di un caleidoscopio incredibilmente ricco e sfaccettato. La metafora del caleidoscopio mi sembra particolarmente azzeccata, perché evidenzia molti aspetti connessi a un progetto di laboratorio di scrittura professionale e a ciò che può scaturirne: la visione della bellezza insita nel lavoro di aiuto; il mescolamento e la ricomposizione dei frammenti; l’orientare lo sguardo nel piccolo, avvicinando l’occhio a un punto preciso, per poter scoprire e allargare le visioni; la luce e i colori che la riflessione può apportare; il continuo modificarsi delle visioni, che cambiano e non si ripetono mai, ma che si formano sempre a partire dagli stessi elementi; l’utilità e il contributo di tutti i pezzi, sia i principali che i più piccoli, per comporre il quadro d’insieme; la dimensione creativa che è nascosta in forme lineari e geometriche, e che attende solo di essere risvegliata e scoperta…
Conclusioni aperte
Dopo molti anni e molte occasioni di scrittura orientata a comunicare le professioni di aiuto, occasioni condivise con tanti compagni di viaggio, ho un sogno. Il sogno è che la pratica dello scrivere del proprio lavoro si diffonda sempre più nei servizi, togliendo le persone che li “abitano” dalla trappola del fare ripetitivo, poco intaccato da interrogativi profondi, poco pensato e ripensato, poco adeguato alla grande complessità della realtà sociale che nei servizi si incontra.
Gli operatori usano moltissimo la parola, nel loro lavoro: le relazioni di aiuto sono incentrate sulla parola, e anche il lavoro “dietro le quinte” utilizza ampiamente la parola. Dovrebbero usare di più la parola scritta, la possibilità di darsi voce attraverso lo scrivere del proprio lavoro, contribuendo a mettere nero su bianco la storia e la competenza dei servizi, a costruire e diffondere cultura, a non disperdere un inestimabile patrimonio: il patrimonio che le narrazioni professionali potrebbero mettere a disposizione del mondo. E i loro referenti e responsabili dovrebbero dare maggiore impulso allo scrivere del lavoro, dotando i servizi di un contenitore spazio-temporale dedicato alla riflessione, rielaborazione e comunicazione delle professioni di aiuto, che sostenga nel transitare l’agire quotidiano dal “fare” all’“esperienza”, professionale e di servizio.
Attraverso la scrittura riflessiva gli operatori e i servizi possono raccontarsi, svelando al mondo la fatica e la bellezza del loro lavoro, il fascino della storia individuale e collettiva che in quei luoghi talvolta misconosciuti si compie: nei miei ultimi anni di lavoro mi piacerebbe poter ancora contribuire a costruire narrazioni e memorie professionali, a dare voce a chi “scrive” la storia delle professioni e dei servizi nella quotidianità, aiutando a trasferirla sulla carta e a farla divenire patrimonio di tutti.
Note
- Olivetti Manoukian. F., (2009), Perché oggi lavorare con le parole? Annotazioni sull’importanza di elaborare e scrivere nel lavoro sociale, in Animazione Sociale n.1, Torino, Gruppo Abele, pp. 80-87
- Augelli A., La scrittura: cura di sé, cura della relazione, in Iori V. et al., (2015), Ripartire dall’esperienza. Direzioni di senso nel lavoro sociale, Milano, Franco Angeli
Bibliografia
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Ghillani E., Longoni B., (2015), Le parole sulla professione: un progetto di ANUPI Educazione”, in Psicomotricità. Terapia, Educazione, Ricerca, Trento, Erickson
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Longoni B., Okely O., (2009), Alla scoperta di una professione. Il personale amministrativo nei servizi alla persona (a cura di), Provincia di Milano
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Luppi M. et al., (2016), Sguardi sul servizio sociale. Esperienze e luoghi di una professione che cambia (a cura di), Milano, Franco Angeli
Olivetti Manoukian. F., (2009), Perché oggi lavorare con le parole? Annotazioni sull’importanza di elaborare e scrivere nel lavoro sociale, in Animazione Sociale n.1, Torino, Gruppo Abele, pp. 80-87