Fra tutti gli operatori impegnati nella relazione d’aiuto, l’OSS (operatore socio-sanitario) è la figura professionale maggiormente implicata e coinvolta nella relazione corporea: nei suoi compiti di lavoro sono compresi quelli relativi all’assistenza nelle funzioni di base della vita quotidiana (lavarsi e vestirsi, alimentarsi, provvedere ai bisogni fisiologici di eliminazione urinaria e intestinale, camminare e muoversi nell’ambiente di vita, dormire). Inoltre, l’OSS si trova a sostituire il corpo dell’anziano – o, meglio, le sue funzioni mancanti o deficitarie – in una condizione che richiede un’empatia relazionale tessuta sulla trama della comunicazione non verbale, talvolta unico livello di scambio possibile. Per questi operatori è fondamentale riflettere, rinforzare conoscenza e consapevolezza, interrogarsi sulle implicazioni corporee dei gesti di accudimento, prendere coscienza del fatto che il proprio corpo è uno strumento di lavoro prezioso e che il non verbale è un canale di comunicazione con l’altro sempre attivo.
Il confronto con il corpo “malato”
Nel suo lavoro quotidiano, in contesti quali la RSA o l’ospedale, quale corpo anziano incontra l’OSS? Un corpo che non è mai completamente integro, che può presentare funzioni mancanti sul piano esecutivo-realizzativo, deficit neuro-motori, alterazioni nella struttura del corpo stesso, ma anche compromissioni mentali che alterano la funzione del pensiero, con ripercussioni sulla componente progettuale, ideativa, elaborativa dell’agire; un corpo che non funziona più armonicamente, che ha perso competenze, che si deteriora poco a poco. In alcune situazioni, l’OSS incontra un corpo che attende la morte, con una perdita di identità corporea progressiva e inarrestabile, oppure un corpo che presenta necessità di cure invasive, massicce, di macchinari, di monitor che sono l’unico segnale che ci testimonia che quel corpo è ancora impegnato nella fatica di vivere.
Proviamo a leggere il significato della malattia dal punto di vista corporeo, ad esempio da parte del paziente che vive l’esordio di una patologia, passando da una percezione del proprio corpo come sano ed efficiente a una dimensione di corpo malato e, come tale, fragile e caduco. Questo può accadere in un breve arco di tempo: si passa da una situazione di un corpo che si relaziona con il mondo esterno a sé, con la ricchezza di tutte le sue potenzialità, a un corpo che diventa il centro necessario di relazioni e attenzioni che dall’esterno gli devono essere rivolte, diventando il soggetto totale di un nuovo modo di vivere, che inciderà significativamente sul modo di considerare i concetti di salute e di malattia da parte dell’anziano. Perdere la condizione di benessere genera uno stato di forte insicurezza e diventa fonte di ansie e paure, per la perdita temporanea o permanente del proprio senso di integrità, dal punto di vista funzionale ma anche relazionale.
Le situazioni di limitazione neuromotoria che impediscono la motricità di azione e di spostamento, imponendo la dipendenza parziale o totale da ausili e/o operatori per una o più funzioni, hanno come conseguenza un “corpo-paziente”, che viene gestito e manipolato dagli altri. È facile comprendere come, in generale, questa condizione sia vissuta diversamente se si produce poco alla volta, nell’arco del lungo processo di invecchiamento, o se appare improvvisamente, ad esempio per una caduta con frattura di femore o per un ictus: nella seconda ipotesi è in campo il passaggio da una condizione di autonomia, di normalità, a una perdita improvvisa di competenze e di esperienze. Si tratta di una situazione di estrema difficoltà: l’accettazione della nuova condizione non può essere immediata e avulsa da un percorso di rielaborazione personale, e la vita della persona richiede una riconfigurazione complessiva.
Quando il bisogno di accudimento è l’esito di una successione di perdite di competenze, in un quadro di lento invecchiamento fisiologico, le progressive difficoltà nel movimento richiedono interventi dapprima di facilitazione – anche tramite l’uso di vari tipi di ausili – poi di sostituzione parziale, per la graduale involuzione delle competenze neuromotorie, fino ad arrivare alla sostituzione totale, nelle funzioni che la persona anziana non è più in grado di svolgere nemmeno con aiuto. In questo caso, il vissuto dei pazienti è legato anche all’atteggiamento personale nei confronti della vita e delle sue diverse fasi, all’accettazione delle inevitabili trasformazioni delle competenze corporee, alla disponibilità verso l’aiuto esterno di sostituzione delle funzioni compromesse.
Il contatto corporeo nelle situazioni di assistenza
Il lavoro dell’OSS è caratterizzato dalla pregnanza della corporeità, in quella dimensione in cui l’anziano è il suo corpo malato e imperfetto, si dice e racconta di sé tramite ciò che rimane della corporeità di un tempo. Nel lavoro quotidiano il contatto corporeo è sì un elemento costante, ma molto variabile a seconda dell’età dell’anziano di cui ci si prende cura, della sua aspettativa di vita, di eventuali gravi alterazioni della struttura corporea (ad esempio parti deformi o mancanti). Diversi saranno i vissuti degli anziani assistiti ma anche la predisposizione e l’approccio dell’operatore, che comunque si confronta con un corpo portatore della storia di quella determinata persona fino a quel momento: un corpo che è anche espressione dell’esperienza e dell’identità, unica e irripetibile, di quell’anziano specifico (Persico, 2008).
Nelle situazioni di declino cognitivo importante, agli operatori resta quasi solo il contatto con il corpo: la delicatezza e il tatto diventano ancora più cruciali. A prescindere dalle compromissioni cognitive e dalle possibilità di interagire verbalmente, nell’anziano persistono le capacità propriocettive, simili a quelle sperimentate nelle prime fasi della vita: le capacità di muoversi e di avvertire il proprio movimento, di sentire il proprio corpo e come il proprio corpo viene trattato. Risultano quindi fondamentali le competenze umane e professionali per prendersi cura di chi con la sua “assenza” mette in crisi il rapporto e la stessa presenza dell’operatore (Dell’Orto Garzonio, 1990).
Un aspetto trasversale alle diverse situazioni che si possono incontrare riguarda il contatto con le produzioni del corpo, connesse al funzionamento fisiologico degli apparati dell’organismo o a condizioni patologiche, acute o croniche; le loro caratteristiche (consistenza, odore, colore), talvolta esito anche dei farmaci o dei cibi assunti, le rendono sgradevoli e rendono difficile il contatto corporeo quotidiano. La strada è quella di significarle come manifestazioni della vita di quel corpo e di farsene carico, come atti che fanno parte del prendersi cura della persona, dell’agire per il benessere dell’anziano, per migliorare la sua condizione.
In questa prospettiva, appare evidente come l’apparente neutralità delle azioni di assistenza incontra in modo profondo:
- tutta la soggettività delle persone e la loro abitudine o meno all’essere toccati, che risente di riferimenti socioculturali storicamente connotati, di imprinting familiari, di esperienze personali;
- le implicazioni legate alle differenti parti del corpo che vengono manipolate e alle necessità di aiuto;
- la relazione che si stabilisce fra chi tocca e chi viene toccato;
- le possibili difficoltà implicite quando il contatto corporeo coinvolge una diade operatore-utente di diverso genere (implicazioni spesso inconsapevoli di natura sessuale) e/o di diversa provenienza e cultura (significati attribuiti al contatto corporeo molto diversi in un’équipe multietnica o fra operatori italiani di differenti contesti socio-territoriali e culturali).
Una certa influenza, infine, è data dall’età degli operatori: lo schema corporeo, la percezione del proprio corpo, i vissuti rispetto alla trasformazione fisiologica, il rispecchiamento nell’anziano accudito sono ovviamente eterogenei, in gruppi di lavoro in cui possono essere presenti sia operatori molto giovani che operatori vicini all’età pensionabile, con una distanza dal proprio invecchiamento molto variabile.
Una riflessione specifica riguarda il contatto “pelle a pelle”. Innanzitutto, i guanti monouso che ricoprono le mani degli operatori rappresentano uno strumento basilare e fondamentale per garantire igiene e protezione, ma che può essere vissuto dall’anziano come qualcosa che impedisce l’incontro “di pelle”, cioè la possibilità di sentire l’altro in una posizione di vicinanza, di reale ascolto e di partecipazione ai propri bisogni. In questa prospettiva si inserisce la riflessione sul significato connesso all’utilizzo di mediatori nel contatto diretto, quali ad esempio gli ausili per il sollevamento, che se non vengono accompagnati da un’attenzione alla globalità della persona, alle sue reazioni e alla costruzione di un rapporto di fiducia, rischiano di essere rifiutati o comunque mal vissuti: solo se l’operatore è orientato all’anziano come persona globale si mantiene saldo il riconoscimento dell’accudito come persona, come soggetto capace di sostenere una comunicazione comunque sia, evitando così di agire parzialmente su di lui come un oggetto di cura (Prayez, 1994).
Il toccare e l’essere toccati
Toccare la pelle del corpo dell’altro significa toccare ciò che Anzieu definisce il limite corporeo, quel confine fra il dentro e il fuori, fra l’Io e il non-Io (Anzieu, 2017), un elemento-spazio così sottile che mette in relazione, distingue e al contempo divide interiorità e mondo (Io pelle). In alcune situazioni patologiche l’interdizione a toccare diventa centrale, mentre in altre il toccare costituisce l’unica modalità per comunicare e per fare; in genere rappresenta un tramite relazionale compresente a quello verbale, che contiene in sé le dimensioni della relazione e della presenza dell’altro nella reciprocità. Il toccare non può essere disgiunto dall’essere toccati: fra i vari canali della comunicazione corporea, il tocco è per sua natura reciproco.
Il contatto di pelle ha un potere straordinario, sia riguardo a sé che riguardo all’altro da sé. Quando si riceve il tocco dell’altro si percepisce necessariamente, insieme a esso, anche il proprio corpo: da questo punto di vista è interessante riportare che la ricerca neurologica ha dimostrato una corrispondenza fra l’area del cervello deputata alla ricezione del tatto e quella della percezione interna del proprio corpo. Il tatto è il senso specifico che consente di venire a conoscenza del mondo esterno, tramite il contatto con la pelle; a differenza di altri sensi, quali la vista e l’udito, il tatto è un senso diffuso: riguarda tutta la superficie corporea ed è sempre attivo, anche quando non si pone attenzione alle sensazioni della propria pelle.
Il lavoro degli operatori passa attraverso il toccare il corpo dell’anziano. Si stima che il lavoro di un infermiere – figura professionale per cui l’aspetto tecnico-operativo è ancora più pregnante che per l’OSS – sia costituito per l’85% da momenti di stretta vicinanza fisica (Orlandini, 2021). In genere il personale sanitario è formato perché il suo contatto corporeo sia protetto da tutte le implicazioni mediante il tecnicismo, l’asetticità, il distacco: un toccare che distanzia, che è ancorato a quanto strettamente necessario per le azioni tecnico-operative da compiere. Nei luoghi di cura è spesso presente un approccio tecnico, oggettivo e misurabile, funzionale all’organizzazione del lavoro: i corpi degli anziani vengono lavati, vestiti, mobilizzati, medicati, con grande attenzione alla qualità tecnica dei gesti, all’efficacia e all’efficienza delle azioni in sé.
Tutto questo nonostante un contatto meccanico e prestazionale, orientato più alla cura che al prendersi cura, sia poco utile: soprattutto con le persone anziane, è fondamentale considerare non tanto il corpo, come espressione dell’oggettività, quanto il corpo-persona, in cui si aggiunge la soggettività di vissuti, sensazioni, emozioni, storia e identità assolutamente unici e irripetibili. Da questo punto di vista è significativa l’affermazione “esistere è anche qualcuno che ti accarezza, che ti tocca”, della scrittrice Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022.
La potenza della comunicazione non verbale
In una condizione di malattia, di sofferenza, di non autosufficienza il linguaggio del corpo diventa il punto chiave della relazione di aiuto, che passa prioritariamente attraverso il contatto corporeo e il canale non verbale: la maggior parte dei comportamenti e degli atteggiamenti empatici sono non verbali. Tutti noi comunichiamo con la totalità dei nostri segnali comunicativi: tuttavia il contesto sociale, culturale e tecnologico in cui viviamo ha imposto una comunicazione mediata dalla parola, a discapito di quella mediata dal corpo. Il linguaggio non verbale, più primitivo, è fortemente legato al piano emozionale profondo dell’individuo, laddove si giocano i presupposti per una comunicazione autentica, non ambigua e difficilmente mistificabile.
Per l’operatore è fondamentale disporre di alcuni elementi di conoscenza sulla comunicazione non verbale, per poter acquisire – ancor prima di riuscire a cogliere le modalità relazionali altrui – consapevolezza delle proprie modalità relazionali abituali, oltre che degli aspetti che la corporeità va a toccare in sé e nell’altro durante gli scambi comunicativi. La comunicazione non verbale è estremamente ampia e complessa; viene continuamente agita nella quotidianità (come persona e come operatore), ma spesso al di fuori del campo della consapevolezza. In alcune situazioni, quali la demenza a uno stadio avanzato, rappresenta l’unico livello di scambio comunicativo possibile.
Oltre a prestare l’adeguata considerazione alle possibilità comunicative non verbali degli anziani accuditi e ai messaggi da loro espressi a livello corporeo, è fondamentale che l’operatore presti altrettanta attenzione alla propria comunicazione non verbale: è infatti necessario procedere a una continua, serena auto-osservazione e autocritica sui messaggi trasmessi, specie riguardo alla coerenza fra la comunicazione verbale e la comunicazione non verbale. Importante è anche prestare attenzione alle componenti non verbali della propria comunicazione nei confronti di altri soggetti: indipendentemente dal grado di consapevolezza, posture e gesti possono avere un ruolo fondamentale in situazioni quali, ad esempio, l’accoglienza di un familiare di una persona appena ricoverata, il passaggio di consegne a un collega al cambio turno, la partecipazione a una riunione d’équipe. La lettura di quanto viene espresso a livello non verbale da chi è presente, a vario titolo, in un contesto assistenziale può aiutare a dare senso e ricchezza nell’interpretare le situazioni di lavoro concrete e quotidiane e nell’affrontarle con maggiore consapevolezza ed efficacia.
La psicomotricità può fornire un contributo importante, affinché gli operatori si rendano conto della potenza comunicativa del linguaggio non verbale proprio e altrui, riflettano sui messaggi non verbali emessi, si allenino a “leggere” i messaggi non verbali inviati dagli altri, per arricchire professionalmente un lavoro che si basa sulla relazione interpersonale e per costruire quelle basi di fiducia reciproca che permettono di affidarsi all’altro. Nei corsi di formazione, diventare consapevoli di complessità e frequente ambiguità dei messaggi (propri e altrui), porsi in atteggiamento critico e autocritico, osservare e ascoltare con attenzione perché si è capito che la relazione con l’altro è complessa e delicata e si desidera assumere il proprio ruolo professionale in pienezza e consapevolezza, rappresentano una grande conquista e un presupposto fondamentale anche rispetto all’acquisizione di tecniche e capacità operative (Persico, et al., 2004).
Le finalità di un contributo psicomotorio alla formazione degli OSS
Per quanto finora espresso, è fondamentale che gli OSS:
- considerino il proprio corpo come un vero e proprio strumento di lavoro, non solo dal punto di vista tecnico (sollevare, trasportare, maneggiare), ma anche dal punto di vista relazionale (accogliere, toccare, comunicare sul piano non verbale);
- si orientino a usarlo consapevolmente come tale nella relazione di aiuto;
- assumano uno sguardo globale e non limitato ai soli aspetti di sicurezza sul lavoro (movimentazione dei carichi, salvaguardia della propria schiena).
La formazione potrebbe fornire un buon contributo in questa direzione; tuttavia, spesso nei corsi di formazione viene prestata molta attenzione agli strumenti tecnici utilizzati (es. sollevatore) e agli atti previsti per svolgere un compito, alla correttezza meccanica dell’azione e alla sua economicità. Minore può risultare l’attenzione posta alla modalità di azione dell’operatore e alla consapevolezza di sé, del proprio corpo, della propria comunicazione non verbale nell’agire e nel relazionarsi: pertanto è utile una formazione pratica che possa aiutare a comprendere meglio il “come” si agisce e ci si relaziona, per poter eventualmente modificare tali modalità trasferendole alla propria operatività quotidiana (Chiossone, et al., 2023).
L’esperienza pratica realizzabile con una proposta psicomotoria è volta a sensibilizzare e a cogliere la propria soggettiva espressività corporea, per attivare e incrementare una maggiore consapevolezza delle modalità senso-motorie, corporee e relazionali che si esprimono nelle interazioni con l’altro e con il gruppo, ponendo particolare attenzione alla relazione di cura agita nella quotidianità lavorativa. Le attività di aggiustamento motorio (coordinazione generale, coordinazione oculo-manuale, equilibrio), l’invito a tenere a bada la fretta e a darsi il tempo necessario per agire (presa di coscienza del tono muscolare, delle parti del corpo in gioco e dei loro spostamenti) rappresentano il tramite per accedere a una diversa attenzione e percezione. Può essere proposta la sperimentazione del vissuto del corpo-limite, nei suoi aspetti sia funzionali sia comunicativi, per portare alla consapevolezza delle strategie vicarianti che scattano, ma anche di quei bisogni e sensibilità diversi che si presentano e aspettano di essere accolti da un operatore capace di osservarli e di coglierli. Durante la pratica psicomotoria la negazione della parola è sempre un’esperienza difficile da affrontare, ma anche avvincente per la scoperta di un canale comunicativo sempre aperto e più immediato del verbale.
Nel loro lavoro gli OSS devono saper toccare e accettare il contatto (tramite comunicativo emotivamente molto intenso e significativo, talvolta l’unico disponibile); devono essere sensibili alla vicinanza e saper rispettare la distanza; devono cogliere e ricambiare gli sguardi; devono essere capaci di fare quel gesto, di dare quell’intonazione alla voce, di assumere quell’espressione che spesso parla più di molte parole. Tutte queste sono competenze precise, che hanno a che fare con la disponibilità corporea, con la consapevolezza di sé e della propria espressività psicomotoria. Un seminario di psicomotricità ingaggia gli operatori a impegnarsi in un percorso di ricerca personale relativamente alle proprie capacità e modalità di interazione con gli altri, in riferimento allo specifico costituito dalla corporeità e dalla sua messa in gioco all’interno della dinamica relazionale.
Il seminario può svilupparsi lungo il tema del corpo che si muove, che si esprime, che comunica e si relaziona, con uno sguardo costante alla relazione esistente fra sé, lo spazio, il tempo, gli oggetti e gli altri; può articolarsi in attività individuali, di coppia, di piccolo e di grande gruppo, tramite richieste progressive di sperimentazione, la messa in gioco personale e l’apporto del proprio contributo nel gruppo, in un clima di spontaneità e fiducia che consenta un arricchimento nello scambio reciproco. Quando la proposta psicomotoria non è inserita nella formazione di base ma riguarda operatori in servizio, gli obiettivi specifici divengono: permettere l’emergere di vissuti presenti ma inespressi, offrendo uno spazio e un tempo dove possano essere agiti, esplicitati, ascoltati, accolti, condivisi; favorire la presa di coscienza del grado di stress vissuto e presente sottotraccia; incrementare la consapevolezza di sé; riattivare il bisogno di benessere e riflettere sulle modalità per ricercarlo nel quotidiano; in sintesi, prestare maggiore attenzione alla cura di sé e alla cura dell’altro e far emergere il desiderio e la capacità di lavorare in gruppo.
In tale contesto formativo si può riflettere su quanto sia importante il contatto, attraverso i diversi linguaggi corporei, nelle relazioni di cura, e quanto ciò faciliti la possibilità di affidarsi, di essere contenuti. Si può esplorare l’importanza dello sguardo che può modificare la relazione, del tono della propria voce quando si è impauriti o arrabbiati, dell’avvertire la tenerezza verso sé e verso l’altro. Si può evidenziare quanto possa essere determinante esplorare il confine con le proprie e altrui emozioni e sofferenze. Si può riflettere su quanto i lavori basati sulle relazioni d’aiuto siano sbilanciati verso la cura degli altri, lasciando poco spazio e tempo per sé e per il proprio benessere; ci si può chiedere come sia possibile prendersi cura degli altri senza nutrire se stessi (Chiossone, et al., 2023). Prendersi cura di sé e incoraggiare i colleghi a farlo è infatti il modo migliore per continuare a essere presenti e disponibili con le persone anziane di cui ci si occupa e ci si preoccupa.
Per concludere, possiamo affermare che in un mondo come quello contemporaneo, sia nel contesto generale che soprattutto nei luoghi di cura, le proposte psicomotorie assumono un valore e un potere “gentilmente rivoluzionario”, in grado di interrogare e vivificare una quotidianità che rischia di essere fuorviata e snaturata di senso da dimensioni quali la distanza, la rapidità, la liquidità (Bauman, 2002), la comunicazione mediata da dispositivi digitali, l’attenzione orientata soprattutto alle questioni formali e al rispetto delle procedure. Riguardo all’anziano, riteniamo fondamentale riportare la tenerezza nella relazione di cura (Orlandini, 2021), in un ambito in cui la professionalità tecnico-operativa non può prescindere dal sapere e dalla pratica dell’umano e in cui la tenerezza nel contatto corporeo può favorire il benessere sia dell’anziano, sia di chi se ne prende cura.
Bibliografia
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Bauman Z. (2002), Modernità liquida, Laterza.
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Dell’Orto Garzonio F. (1990), “Il corpo”, in Dell’Orto Garzonio F., Taccani P., Conoscere la vecchiaia. Manuale per operatori sociali, educativi e sanitari, Carocci.
Longoni B., Picchioni E., Musto A., a cura di (2012), Fatica e bellezza del prendersi cura. Il lavoro socio-sanitario si racconta, Maggioli.
Longoni B., a cura di (2013), I servizi domiciliari. Raccontare e raccontarsi, Maggioli.
Orlandini E. (2021), Riscoprire la tenerezza nel contatto corporeo nella relazione di cura con l’anziano, in I luoghi della cura, n. 4.
Persico M.T., a cura di (2004), Il contributo della psicomotricità nella formazione degli operatori sociali. L’esperienza del Centro di Formazione, Orientamento e Sviluppo della Fondazione don Carlo Gnocchi di Milano, in Psicomotricità. Terapia, prevenzione, formazione, giugno (prima parte) e novembre (seconda parte).
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Prayez P. (1994), Le toucher en psychothérapie, Homme & Perspectives.