26 Marzo 2025 | Professioni

Lavorare in CDI con malati di Alzheimer: l’importanza dell’ambiente. Racconti di un OSS

L’ambiente in cui vive una persona con demenza riveste un’importanza cruciale: può ostacolare o facilitare la quotidianità, le relazioni interpersonali, il fronteggiamento delle manifestazioni di malattia, il perseguimento di benessere e qualità di vita possibili, nel “qui e ora”. L’OSS autore dell’articolo trae dalla propria esperienza, maturata prevalentemente in un centro diurno integrato, alcune riflessioni ed esemplificazioni; un successivo articolo tratterà il tema dell’importanza della relazione.


La quasi totalità della mia esperienza lavorativa come OSS l’ho maturata presso un CDI specializzato nella presa in carico di persone affette da Alzheimer o altre forme di demenza. Stranisce poter riassumere in due righe una professione tanto sfaccettata e complessa, ma tant’è… Soprattutto in questo contesto, oltre che in qualche esperienza di assistenza domiciliare, ho verificato concretamente quanto l’ambiente sia importante per favorire un prendersi cura rispettoso e orientato al benessere dei malati, nonostante la malattia; un elemento importante ma non sempre considerato quanto merita.

 

 

Il contesto dell’esperienza

L’esperienza a cui mi riferisco si è sviluppata nel centro diurno integrato Simone de Beauvoir di Milano, che:

  • è stato avviato nel 2003;
  • accoglie fino a 21 ospiti, di norma over 65;
  • è aperto dal lunedì al venerdì, in orario 8-18;
  • è frequentato da persone residenti nella zona 8 di Milano, da zone limitrofe (in modo da poterne garantire il trasporto), da zone non limitrofe se il trasporto viene assicurato dalla famiglia.

 

La DGR 8494 del 22/3/2002 di Regione Lombardia stabilisce che destinatari del CDI sono persone con compromissione dell’autosufficienza affette da pluripatologie cronico-degenerative (demenza compresa), sole o inserite in un contesto familiare o solidale per le quali l’assistenza domiciliare risulti insufficiente o troppo onerosa, che si trovano in condizioni psicofisiche tali da raggiungere il servizio con un trasporto protetto. Non possono essere accolte persone autosufficienti, persone già utenti di servizi residenziali socio-sanitari, persone con elevate esigenze clinico-assistenziali, persone con problematiche psichiatriche attive o con demenza associata a gravi disturbi comportamentali, persone in età giovane o giovane-adulta con disabilità.

 

Presso il CDI Simone de Beauvoir operano le seguenti figure: coordinatore responsabile del servizio, case manager, medico, infermiere, fisioterapista, figure per le attività psicosociali (es. musicoterapeuta, danzaterapeuta, psicomotricista, animatore), operatori di assistenza (ASA, OSS), altre figure di supporto (autista, parrucchiere, pedicure).

 

Il CDI si colloca nella rete dei servizi socio-sanitari e ha una funzione intermedia tra l’assistenza domiciliare e le strutture residenziali: può essere definito un luogo finalizzato a mantenere o recuperare le attività di base della vita quotidiana necessarie all’anziano per la sua permanenza, il più a lungo possibile, nel proprio ambiente di vita, in condizione di controllo dei problemi comportamentali e relazionali e in un’ottica di miglioramento della qualità di vita.

 

 

Figura 1 – Momenti di vita quotidiana al CDI

 

Il CDI occupa tutto il piano terra di una palazzina e si affaccia su un giardino di circa 800 mq., attrezzato con appositi percorsi guidati, aree e sedute che favoriscono il benessere e le attività riabilitative degli ospiti. I locali sono strutturati in modo da rendere l’ambiente piacevole, accogliente e adatto al sicuro e libero passeggiare degli ospiti.

 

Figura 2 – Il CDI visto dall’esterno

 

 

Casa mia, casa mia…

Ancor prima di giungere a frequentare un servizio come il CDI, la persona con demenza e chi le sta vicino si misura con l’ambiente circostante. A tale proposito riporto un piccolo squarcio di quotidianità domestica, che deriva dalla mia esperienza in assistenza domiciliare.

 

Sappiamo che con il passare del tempo e il progredire della malattia l’ambiente domestico deve mutare assumendo nuove forme, nuova vita. Il punto cardine è mantenere le coordinate principali per consentire al malato di continuare a orientarsi in casa propria, al netto delle modificazioni e con le misure di sicurezza del caso: bisogna porre attenzione agli oggetti potenzialmente pericolosi (tappeti, coltelli, medicinali, detersivi, apparecchi elettrici, ecc.), creare uno spazio ad hoc come angolo dell’affaccendamento (mobili e cassetti con oggetti senza valore o pericolo, che il malato può rovistare e spostare senza problemi), tenere le chiavi fuori dalla portata del malato, fissare corrimano in punti strategici per favorire l’autonomia, rivedere l’illuminazione, togliere o coprire gli specchi…

 

Con questo processo di mutazione si scontrò la signora Maria (ovviamente il nome è di fantasia), di 82 anni, affetta da una forma lieve di demenza.

“Capisco che mi sta dando un consiglio utile, ma è fuori discussione che io tolga il tappeto in soggiorno: l’abbiamo comprato io e mio marito durante il viaggio di nozze. Ce l’ho in casa dal 1962, e qui resta!” mi disse con un tono che non accettava repliche.

“Mi rendo conto, ma potrebbe inciampare e…”

“Sono sempre molto attenta, non sono mai inciampata e non vedo perché dovrei cominciare adesso…”

Battaglia persa in partenza, lo sapevo… a meno di provare con il pensiero laterale.

“Signora Maria, in effetti devo dire che è un bel tappeto.”

“Eh già.”

“Mi dica, ma raccoglie molta polvere?”

“Purtroppo sì, devo sempre spazzarlo, batterlo e pulirlo.”

“Che peccato però… che peccato che il tappeto preso da lei e da suo marito durante il vostro viaggio di nozze, si rovini così…”

“Lo so, ma non si può fare molto…”

“Si potrebbe appenderlo e trasformarlo in un arazzo!”

Mi guardò perplessa.

“Non so… appenderlo dice?”

“Ma certo, ci pensi, risolverebbe ogni suo problema: niente inciampi, non dovrebbe costantemente pulirlo perché non calpestandolo si sporcherebbe di meno, e inoltre lo vedrebbe come prima cosa entrando in salotto! Lì, bello appeso che domina la stanza… Molto meglio che averlo sotto i piedi!”

Ultimo tocco, “…e vicino, potremmo appenderci anche una foto del vostro viaggio di nozze!”. Scacco matto.

“Mi piace. Proviamo…”

Ovviamente questo livello di dialogo e di compromesso non è sempre fattibile; in questo caso la fase di malattia, lo stato cognitivo e l’indole stessa della signora, lo permisero.

 

 

Il valore cruciale del setting

Per chi affianca una persona anziana, non è automatico essere consapevoli dell’influenza del setting sulle sue condizioni di benessere e salute, specie quando una malattia come la demenza ne compromette la consapevolezza dei fattori di malessere e, soprattutto, la possibilità di esprimere verbalmente il proprio disagio. Il caregiver può quindi incontrare difficoltà nel comprendere quello che sta succedendo al malato e nell’utilizzare sapientemente l’ambiente per scardinare gli ostacoli che la malattia frappone tra lui e l’anziano con demenza.

 

Un esempio. Dopo due settimane di assenza forzata dal centro diurno, la figlia di Rosa, una nostra utente, mi chiamò preoccupata: “Da quando non viene più da voi, la mamma ha perso 3 chili; eppure la nuova badante è brava e so che cucina quello che le piace…”.

 

Premessa: Rosa era una persona estremamente curata e attenta ai particolari, guai a uscire di casa senza collana abbinata ai vestiti. Sapeva che la figlia veniva a trovarla? Istintivamente, nonostante la malattia di Alzheimer in fase avanzata si toccava i capelli per controllare che fossero a posto e si tastava le labbra per capire se aveva messo il rossetto.

 

Mandai al domicilio un’operatrice che conosceva bene Rosa. Poco dopo la collega mi inviò una serie di foto, una sorta di collage prima e dopo il suo intervento, che spiegava – per la figlia e soprattutto per la badante – qual era il problema. L’operatrice aveva intuito che il problema fosse un setting poco adeguato, uno spazio poco curato nei dettagli. La nuova badante aveva apparecchiato il piccolo tavolo della cucina, posto in un angolo accanto al frigorifero rumoroso e lontano dalla luce naturale proveniente dalla finestra; inoltre, l’apparecchiatura lasciava a desiderare.

 

Fu sufficiente apparecchiare il tavolo in soggiorno, con una bella tovaglia pulita, mettendo al centro un piccolo vaso con un fiore colto dal balcone e impiattando le pietanze in maniera invitante. Tutto in maniera sobria, ma al tempo stesso seguendo alcuni principi fondamentali:

  • prestare attenzione a ordine e pulizia; sul tavolo della cucina, peraltro più piccolo, erano appoggiati molti oggetti non necessari al pranzo (una piccola bilancia pesa alimenti, delle riviste di cucina, degli stracci da piegare): un setting confusivo predispone alla confusione;
  • non posizionare sulla tavola tutte le posate necessarie; prima che Rosa iniziasse a pranzare erano già presenti sulla tovaglia il cucchiaio per il primo piatto, la forchetta per il secondo con contorno, il cucchiaino per il dolce; less is more: bisogna evitare la possibilità di scelta, che può provocare caos e stop alle azioni; una posata per volta, quella che serve in quel momento;
  • aggiungere un piccolo tocco estetico (ad esempio un fiore) che completi, o meglio ingentilisca, il setting, senza però appesantirlo creando ulteriore confusione;
  • laddove possibile, privilegiare un ambiente aperto, luminoso e lontano da rumori o distrazioni visive o uditive.

 

Ma torniamo al CDI…

 

 

L’ambiente come strumento di cura

Nella mia esperienza al CDI, ho imparato che anche in un servizio l’ambiente circostante – sia dal punto di vista architettonico, sia dal punto di vista dei complementi di arredo – può divenire uno strumento di cura, un protagonista del processo del prendersi cura; può essere un incredibile alleato nell’assistenza a persone malate di Alzheimer, un vero e proprio collega inanimato, per così dire. Rispetto a questo, nel CDI Simone de Beauvoir un ruolo fondamentale è stato ricoperto dal team del Dipartimento di Design del Politecnico di Milano: nell’ambito di Lab.I.R.Int. (Laboratorio di Innovazione e Ricerca sugli Interni), tramite il progetto “GRACE_lab. Un laboratorio di ricerca sugli habitat terapeutici per la sindrome di Alzheimer”, ha collaborato con noi nel 2018 per ristrutturare il CDI, rendendolo un ambiente più protesico.

 

Spazi con luce naturale di misura adeguata e tipologia di luce artificiale favorevole (gialla-calda anziché bianca-fredda, di misura crescente al passare delle ore) hanno ricadute positive sugli ospiti, dal migliorare il tono dell’umore fino a contrastare e prevenire la sindrome del tramonto. La componente cromatica – non solo tinta unita, ma anche colori vivaci e contrastanti – concorre ad armonizzare l’ambiente e a ridurre i problemi di visione tipici dei malati di Alzheimer, diventando un vero e proprio strumento di cura.

 

Figura 3 – I locali polifunzionali, prima e dopo la ristrutturazione

 

 

Queste immagini esemplificano un concetto fondamentale: l’ambiente non è solo forma, è sostanza, o – per dirla meglio – è forma applicata alla sostanza. Un luogo bello predispone al bello; non si tratta di considerare un aspetto estetico di facciata, ma di riempire la bellezza esterna di senso, di contenuto pensato e studiato, così da rendere a tutti gli effetti quel luogo un soggetto di cura a pieno titolo. In un posto accogliente e bello gli ospiti possono sentirsi “a casa”, a proprio agio, provando serenità e possibilità di vivere e godere del momento, del “qui e ora”.

 

Se l’ambiente è una precondizione importantissima, altrettanto fondamentale è la relazione che in quell’ambiente si esprime: questo aspetto sarà trattato in un prossimo articolo.

 

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