Introduzione
La signora Maria (88 anni) è stata trasferita all’interno del Nucleo protetto, per la presenza di importanti disturbi del comportamento che rendevano problematica la sua gestione in altra realtà di cura. Tali manifestazioni, generalmente, si limitavano al piano verbale sia verso i caregiver formali che verso gli altri degenti. Tuttavia, nei momenti di maggior criticità quali l’igiene, esse si traducevano in irritabilità rilevante e aggressività agita a livello fisico (con valori alti negli item di riferimento al NeuroPsychiatric Inventory – NPI). Per quanto riguarda la sfera cognitiva, non è stato possibile testarla con Mini Mental State Examination – MMSE per assenza di compliance. La terapia farmacologica era già orientata ad un intervento di contenzione rispetto alle manifestazioni comportamentali, senza ricadute di efficacia e nella generale impossibilità a variare molecole e/o dosaggio farmacologico per la comorbilità che caratterizzava il quadro clinico (cardiopatica e portatrice di pace-maker).
La presenza di pensieri deliranti, sostenuti dal disorientamento temporale e dalla sua scarsa capacità critica nel decodificare e comprendere la realtà circostante, unita ad una percezione di sé alterata rispetto al suo presente, contribuivano a creare un divario tra il suo mondo e quello popolato dagli operatori e dagli altri ospiti. Viveva isolata, all’interno della propria “fortezza”, in uno spazio autocreato a sua misura, in cui erano ammesse solamente alcune persone cui aveva attribuito un ruolo euna funzione e con cui aveva consolidato delle azioni abitudinarie (ad es. ogni giorno, dopo pranzo, giocava a carte con il signore seduto di fronte a lei; dopo la merenda faceva il giro delle camere per “alzare i letti”, ecc.).
Questa situazione rendeva ulteriormente difficile la relazione e la presa in carico della signora. L’immagine che emergeva dai suoi deliri era quella di una donna con una prospettiva di autorealizzazione: secondo lei eravamo in giugno, era sabato e l’indomani si sarebbe sposata con Carlo, il panettiere; insieme sarebbero andati a vivere nella casa di Bresso1, preparata apposta per loro. La forza di questa sua realtà era tale da non permettere alcun intervento di Reality Orientation Therapy – ROT, sia formale che informale, perché accresceva in lei reazioni di rabbia e opposizione accesa. Sebbene riuscisse ad orientarsi all’interno degli spazi del Nucleo, riconoscendo la propria camera e individuando il proprio posto in soggiorno, non era consapevole di dove si trovasse (pensava di essere vicino all’ospedale di Niguarda2).
Le sue interazioni con “l’altro”3 erano caratterizzate da una costante reazione di difesa, agita tramite l’attacco e l’allontanamento di chi cercava di entrare nel suo spazio. L’unico momento, in cui accettava più serenamente lo scambio con il personale, era quello del pasto. Tra i familiari presenti c’era solo una nipote, di cui lei era la zia. Per questo motivo, le note biografiche a nostra disposizione, erano molto povere. L’unico aspetto noto era la presenza, nella sua storia, di vissuti particolarmente dolorosi (ad es. morte della figlia ancora piccola). Il primo tentativo messo in atto dall’équipe è stato quello di chiedere alla nipote di portare delle fotografie della signora che avrebbero potuto rappresentare un mezzo per aprire un dialogo.
L’approccio attraverso le foto ha permesso un iniziale scambio, molto breve e connotato da diffidenza, che si è concluso quando la signora ha raccolto le sue immagini e le ha chiuse nel suo “borsetto”. Uno degli elementi che hanno caratterizzato, fin da subito, la signora Maria è stato proprio il beauty case che portava sempre con sé e che voleva accanto, su una sedia, in ogni momento della giornata, come fosse una protesi di sé, un luogo di custodia in cui conservare oggetti per lei importanti o, anche, una sorta di “memoria emotiva esterna” a sua disposizione per ricordare, quando “connessa”. Visto il fallimento di tale approccio, in sede di valutazione4 e ridefinizione del Progetto Assistenziale Personalizzato – PAI, ci siamo chiesti come poter coinvolgere la signora Maria al fine di investire le sue risorse emotive, così presenti in eccesso, su ambiti di maggiore serenità e qualità di vita nel quotidiano. Si consideri che il tipo di orientamento adottato dal nostro gruppo di lavoro valuta la totalità dell’individuo (1, 2) e la sua possibilità di manifestarsi e di evolvere, anche, nella demenza.
L’Educatrice, quindi, è stata incaricata di effettuare un’osservazione partecipe rivolta alla signora, che aveva come obiettivo a breve termine, quello di creare un’interazione significativa con lei, mediata da uno strumento che non poteva essere scelto a priori, perché doveva rappresentare il “suo” canale comunicativo, quello che lei poteva sostenere e padroneggiare. È nato così un approccio di tipo autobiografico, da cui è nata una serie di interrogativi: “Ha senso parlare di una dimensione autobiografica nella presa in carico di una persona affetta da demenza? Se sì, che forma potrà assumere il racconto di sé, in un individuo che, per “definizione”, ha problemi mnestici, è disorientato, ha un eloquio povero e manifestazioni quali i deliri?” Da qui, la presa d’atto che, all’interno della persona, seppur disgregata e con limitate risorse cognitive, siano presenti immagini di sé e della propria storia di vita che possono ancora essere “rivisitate”. Quindi, sulla base della Teoria Psicosociale dello Sviluppo di Erikson (3, 4), così come accade all’anziano, anche l’anziano affetto da demenza si trova a “ri-pensare” la propria vita, per cercare di restituirle un ordine e un significato, al fine di raggiungere l’affermazione di sé e del proprio stile esistenziale (integrità dell’Io).
Presentazione del caso
L’incontro con la signora Maria è stato uno di quelli che non passano inosservati. Di fronte al mio saluto e al desiderio di accoglierla, ricevevo sempre la medesima risposta: l’allontanamento immediato dal suo spazio, con toni decisi e accesi. Ad appesantire ulteriormente la situazione, si era aggiunta anche la messa in discussione di chi ero e delle mie intenzioni – “Chi sei tu? Che cosa fai? Cosa vuoi da me? Vattene!” – che ostacolava l’interazione tra noi. Il primo obiettivo doveva essere quello di gettare un ponte tra me e il suo mondo impenetrabile. Per questo motivo, ogni giorno in cui ero in servizio al Nucleo le riservavo un saluto, nonostante venissi immancabilmente allontanata. Notavo, nel contempo, che mi concedeva, gradualmente, la possibilità di avvicinarmi. Ho ascoltato le sue parole e i suoi gesti, li ho rispettati, mi sono imposta di non dare un giudizio di valore sulla persona partendo dai suoi comportamenti.
Ci osservavamo reciprocamente da lontano, mentre svolgevo alcune attività con altri ospiti. Nel momento in cui mi sono accorta che le resistenze erano diventate meno forti, ho iniziato ad utilizzare oggetti e azioni concrete per realizzare uno scambio tangibile: ad esempio, le portavo l’acqua (a lei piaceva solo la frizzante) prima che ne facesse richiesta, la tovaglia da mettere sul tavolo, ecc. Utilizzando una modalità meno diretta, sono riuscita a consolidare un’immagine di me, in lei. Così, con il tempo, la signora Maria ha iniziato a sviluppare un senso di fiducia nei miei confronti, fino a concedermi di sederle accanto. In questa prima fase di avvicinamento, uno dei rischi che ho dovuto fronteggiare era quello di identificare la signora con la sua aggressività, arrivando a leggere quei gesti forti come un attacco voluto e rivolto a me.
Il risultato sarebbe stato l’attribuzione di uno stigma (1, 5, 6) che avrebbe potuto indirizzare il mio comportamento verso agiti disfunzionali rispetto all’incontro con lei (allontanamento, restituzione di un giudizio negativo sulla sua persona, darla per “spacciata”, ecc.) e che avrebbero potuto amplificare le sue manifestazioni comportamentali. Un giorno, per caso, appoggiai sul suo tavolo un disegno e delle matite. Lei, nel silenzio, attenta che nessuno la stesse guardando, li prese e provò a colorare per un brevissimo momento. Notai questa sua iniziativa estemporanea e, da quel giorno, iniziai a lasciare volutamente “per caso” un disegno e delle matite. Un giorno, inaspettatamente, mentre ero seduta accanto a lei, mi formulò la sua richiesta: quella di farle un disegno così lei lo avrebbe colorato. Ho sottolineato che non ero molto brava nel disegno, ma lei mi ripropose la stessa richiesta: “Fammi un disegno e io lo coloro!” Come primo disegno scelsi di raffigurare un soggetto noto, semplice da colorare e che potesse avere un collegamento con la stagione: era estate, quindi disegnai una barca. Nel guardarlo mi disse “Agosto. Margherita di Savoia”; io non capii a cosa si stesse riferendo, ma lo scrissi sulle vele della barca. Fissammo il primo disegno di fronte a lei, sulle antine di un armadio del soggiorno, in modo tale che potesse stimolare il ricordo di quell’esperienza condivisa. Ne seguirono altri; alcuni venivano affissi nei luoghi che lei abitava, mentre altri venivano riposti in una cartelletta. Io individuavo un’immagine da riprodurre e lei le dava colore. Un giorno, indicando la barca, ripetè quella frase che mi aveva consegnato, già in precedenza: “Agosto. Margherita di Savoia”. Quella volta, però, prese dal suo “borsetto” una foto che la ritraeva al mare. Sul retro, c’era la scritta Margherita di Savoia e l’anno in cui era stata scattata.
Mi colpì molto questo collegamento tra il disegno e un fatto della sua storia di vita, ma non mi sarei mai aspettata ciò che si stava dispiegando davanti al mio sguardo stupito: un vero e proprio romanzo autobiografico. Ogni volta che ero in servizio presso il Nucleo Alzheimer, lei mi aspettava per avere il suo disegno da colorare e ben presto il soggiorno si tinse delle tonalità pittoriche della signora Maria. Io mi mantenevo costantemente vigile e osservavo le sue reazioni alle mie proposte tematiche e alle richieste che, man mano, osavo avanzare. Con la scusa di appendere le sue “opere” al piano di sotto, accettò per la prima volta, dopo tanto tempo, di salire sull’ascensore e uscire dal reparto. A suo modo, mi aveva detto che si fidava di me. Poi, ci fu una svolta nella nostra relazione e nel percorso di immagini che avevamo iniziato insieme: “Gabriella mi disegni un nido con gli uccellini dentro?” La doppia novità: la richiesta spontanea del soggetto da ritrarre e un nuovo nome a me attribuito.
Per la prima volta era stata lei ad indicarmi cosa disegnare: una richiesta semplice che racchiudeva in sé un atto di volontà e di manifestazione di sé. Inoltre, da quel giorno, mi piace pensare di essere diventata un personaggio della sua personalissima storia. Ero Gabriella, abitavo a Gorgonzola5, avevo degli specifici gusti culinari e un nuovo ruolo: colei che era diventata il canale attraverso cui rivisitare alcuni flash della propria vita entrando, perché accolta, nelle sue memorie. Da quel momento, non volle più che i disegni fossero appesi né che si inserissero nella cartelletta. Li deponeva nel borsetto e aspettava la nipote per consegnarli. Fu così che presi il tram 8 per andare, con lei, al lavoro; feci una visita ai giardini pubblici di Milano; conobbi la maestra Mazzucato che aveva gli occhiali e insegnava in V-A; partecipai alla festa dell’uva organizzata dal Petaccia, dove si mangiavano le salamelle e gli uomini cantavano: lei mi affidava un’immagine che io raccoglievo e facevo mia, restituendola sottoforma di disegno, così come io me la raffiguravo. Si vedeva chiaro lo scambio di due mondi che si ascoltavano, si incontravano e producevano immagini che, una dopo l’altra, ricomponevano quei tratti della sua storia di vita, presenti in lei.
Non c’era bisogno di interpretazioni simboliche, non era necessario dare significati particolari, non serviva indagare la veridicità dei fatti. Quello che importava era semplicemente la mia presenza e la mia disponibilità ad accogliere l’espressione di quello che la sua mente, ancora, conservava. Ad un certo punto del percorso, la portata dei suoi disegni cambiò e io non fui così pronta a comprendere il suo bisogno. Una mattina, come di consueto, mi comunicò la sua richiesta: “ … Oggi mi fai una battona sotto ad un lampione …”. In questa occasione fui toccata nel mio senso del pudore e fui imbarazzata dal pensiero di dover realizzare un tale soggetto. La convinsi, così, a fare due innamorati sulla panchina, sotto al lampione. Le spiegai che erano lei e Carlo, l’uomo che, nel suo immaginario, avrebbe sposato l’indomani. Accettò questa mia “ingerenza” che, tuttavia, non rispecchiava il suo bisogno: non era di due innamorati che voleva parlare! Infatti, nell’incontro seguente, mi ripropose la medesima richiesta: “Mi fai una battona? Sotto ad un lampione. È la Riccarda”. Vista la forza e la persistenza di questa immagine, l’accontentai e improvvisai il disegno di una “battona”. Non sapremo mai che cosa volesse dire, quali ricordi emotivi erano racchiusi in quel disegno, sicuramente aveva bisogno proprio di quello: di raffigurare la persona che, in sé, racchiudeva un certo tipo di relazione. Mentre i suoi disegni si caratterizzavano con contenuti “simbolici”, lei modificava i suoi comportamenti. Accoglieva in maniera meno oppositiva gli operatori e il suo sguardo andò, gradualmente, modificandosi: si era addolcito nelle espressioni che non erano più arcigne e “minacciose”.
Accettava maggiormente l’interazione con gli operatori e l’intensità della sua aggressività andò diminuendo, anche nei confronti degli altri ospiti del Nucleo. Una mattina prese il suo borsetto ed estrasse la foto del suo matrimonio, che la ritraeva in abito da sposa accanto al marito in divisa, appena fuori dalla chiesa. Poi, avanzò la sua richiesta: “Me la disegni? Non mi piace come è vestito mio marito. Disegnalo con l’abito”). Per la prima volta aveva espresso la volontà di cambiare, attraverso i nostri disegni, un fatto della sua vita, creando una nuova fotografia che potesse rappresentare un accomodamento di ciò che era stato. A distanza di poco tempo, la signora Maria mi propose una nuova richiesta densa di emotività: “Mi disegni una culla? Quella della mia bambina. Si chiamava Federica. È morta a 3 anni per la febbre”. Ebbi così, la conferma che quello che stavamo condividendo non era semplicemente un “disegnare e colorare”, ma era qualcosa di più.
Era un dialogo durante il quale la signora Maria si stava raccontando e riceveva, come “risposta”, le immagini modificate: quelle immagini che ora erano la sua nuova storia di vita. Per la prima volta, in questo disegno, la signora, di propria iniziativa, prese il giallo e disegnò un sole. Questo nostro scambio continuò ancora ma, progressivamente, i disegni si impoverirono di riferimenti autobiografici e anche la cura con cui li colorava si modificò, fino al punto di sospendere le richieste e di ricercare semplici fotocopie dozzinali. Infatti, la demenza progrediva lentamente e, con essa, la comorbilità andava aggravandosi. Io divenni protagonista di alcuni deliri che subentrarono in un momento di maggiore fragilità: ero davvero presente come personaggio della sua storia e, in questi pensieri, ero colei che l’avrebbe dovuta accompagnare a casa.
Successivamente, i pensieri deliranti andarono scomparendo e il quadro clinico si complicò ulteriormente. Poi, un giorno, con una competenza linguistica inaspettata, mentre assaporava una marmellata di castagne, mi sorprese dicendomi: “Le castagne, te lo ricordi? Io le ho disegnate. Sei stata tu a farmi fare il mio primo disegno: era un palazzo, alto, con tante finestre grigie e c’era un balcone … e io ho usato il giallo e ho acceso la luce!”. Poi continuò, affidandomi un’ultima immagine e, per la prima volta, esprimendo qualcosa di molto simile a un senso di colpa: “Io avevo una bambina, si chiamava Federica. Siamo andati a Margherita di Savoia – tu sei dello Ionio? – La signora Saveria mi ha chiesto se avevo il mestruo e io le ho risposto: Donna Saveria, ho fatto in modo di non avere questo impiccio. Siamo usciti, la mia bambina era là con loro e io sono tornata indietro da Donna Saveria e ho preparato la pasta con i fagiolini e ho mangiato la zuppa … e lei è rimasta là”.
Cosa mi volesse dire non lo saprò mai, ma mi piace pensare che, quella della “luce”, sia stata la sua ultima immagine, quella a conclusione della sua autobiografia: l’ultimo rigo della riscrittura della sua storia.
Discussione
La signora Maria è lì, che abita i nostri luoghi di cura. Di solito staziona prevalentemente nei soggiorni e si riconosce per l’aspetto un po’ arcigno e un po’ arrabbiato. Di frequente, respinge sia gli altri ospiti del piccolo Nucleo Residenziale, sia il personale. Allontana tutti, in modo apparentemente indifferente e del tutto democratico. I suoi comportamenti repulsivi si sostengono con la provocazione, con segni di disprezzo, con gesti anche violenti, quando è necessario difendere la propria territorialità. La “comunità” impara presto a riconoscere le “signora Maria”, attivando in poco tempo strategie di difesa e di sopravvivenza, allontanando quello che sente come una costante “minaccia” a sé e alla collettività. Anche il medico, l’infermiere, l’operatore esprimono vissuti simili, caratterizzati da frustrazione e da evitamento. In poco tempo si sviluppa, all’interno del gruppo operativo, un sistema di autodifesa che si esprime attraverso critiche, se non franchi giudizi negativi circa i comportamenti agiti.
La minore tolleranza si accompagna, di solito, a richieste di intervento farmacologico, nell’illusoria speranza che la chimica possa mitigare ciò che, apparentemente, la relazione non è in grado di fare. Ma, insieme alla signora Maria, ci sono la Beatrice, la Rosa, l’Anna e ancora, il Marco, il Luigi, in una catena, negli anni sempre più lunga, caratterizzata dalle predominanze comportamentali dei vari protagonisti: il Mario l’affaccendato, la Rosa la disinibita, il Luigi che vagabonda, la Teresa l’apatica e via dicendo… Chiunque sia stato toccato da “incontri” simili a quello qui descritto, ha sicuramente vissuto un’esperienza che ha il sapore di scoperta. Il suo sguardo verso l’ospite è cambiato, sfumando la predominanza dei dati caratteriali, si è modificato anche il suo approccio e la disponibilità “verso” la persona.
Si trasformano anche i vocaboli che vengono utilizzati per descrivere i vissuti condivisi, si allentano i sentimenti di “minaccia” e si creano, dentro all’operatore, degli spazi “nuovi” da riempire con una gamma di altre possibilità. Certo, non è così immediato trovare e adottare nei comportamenti professionali, una visione diversa e un’attenzione specifica e soprattutto, questo, non evita di vivere il senso di impotenza e sconforto che, come ombra, può sovrastare ogni azione. Alla luce dell’esperienza con la signora Maria, siamo invitati a riconoscere tra i nostri strumenti professionali, anche “la creatività”, qui intesa come la capacità di stare nelle criticità, di osservare il problema da un punto di vista diverso e di organizzare in maniera nuova la propria esperienza e conoscenza.
L’approccio creativo rappresenta, nel quotidiano, la possibilità che Luigi, Mario, Maria, Anna, non siano schiacciati dal peso delle etichette. Inoltre, attraverso la riorganizzazione dei vissuti professionali e delle conoscenze teoriche, attuata all’interno di un continuo confronto con le altre figure presenti nell’équipe, ci viene restituita la possibilità di trovare strategie e modalità originali, oltre che ecologiche, per con-vivere e promuovere l’unicità di ogni individuo. La domanda che spontaneamente ne potrebbe conseguire è la seguente: l’approccio creativo è una nuova terapia non farmacologica per la demenza?
Un’altra cura da inserire nel lungo elenco esistente, accanto alla pet therapy, alla musicoterapia, alla danzaterapia, alla dolly therapy, ecc? No, non vogliamo parlare né di terapia né di cura come, invece, si definiscono le tecniche suddette. Quello che è stato realizzato è un intervento che agisce nel campo della relazione, in termini di promozione della relazione. Spesso, nel racconto dei progetti rivolti alla persona con demenza, si utilizzano concetti nobili e importanti. Si parla di globalità dell’individuo, di relazione, di dignità, di presa in carico, di approccio olistico e altro ancora. Esiste un vocabolario ricco e variegato che permette, a noi operatori, di confezionare immagini suggestive e ricche, che descrivono il nostro operato. Possiamo rifarci in toto a riferimenti e modelli teorici più o meno in voga, aderire ad una corrente di pensiero piuttosto che ad un’altra. Ma forse, proprio in queste occasioni, stiamo semplicemente tendendo verso uno schema fatto di convenzioni, che si discosta dalla realtà verso cui tende l’altro. La concretezza dell’incontro con la nostra signora Maria ci invita, invece, a cambiare prospettiva e a scendere di un gradino la scala che porta verso “il modello”.
La nostra signora Maria chiede che le venga rivolto uno sguardo pronto a cogliere le risorse ancora presenti e le inclinazioni attuali del suo carattere, senza pretendere che i suoi modi di fare e la sua diagnosi siano identificati con lei. Infatti, seppur indispensabili, le informazioni raccolte in sede anamnestica rappresentano semplicemente la cornice e la contestualizzazione della persona che stiamo per scoprire. Di fronte a noi, abbiamo un soggetto che vive una propria evoluzione e che costantemente si trova a dover adottare e rimodulare le strategie adattive rispetto agli stimoli che provengono dall’ambiente (sia fisico che relazionale). Se, come teorizza Piaget (7), l’adattamento è un processo dinamico che nasce dalla relazione tra gli input ambientali e il funzionamento cognitivo del soggetto per dar origine ai comportamenti, è chiaro come ogni cambiamento, anche minimo, nella sfera della cognitività (anche la memoria autobiografica ne è parte) e/o nell’ambiente, possa produrre risposte diverse in termini di agiti.
Quindi, viene avvalorata la necessità di un approccio aperto e sufficientemente elastico che sia in grado di accogliere la dimensione interiore e promuovere la possibilità di trasformazione del soggetto. Infatti, generalmente, la nostra attenzione è focalizzata in maniera predominante, a riconoscere la funzione dell’ambiente e ad intervenire su di esso come elemento che può rappresentare un facilitatore e/o un contenimento per i comportamenti. Ma esiste anche uno spazio interno in ogni persona, quello in cui si dispiegano le emozioni, riaffiorano i ricordi, si vive il presente, quello in cui avviene il cambiamento. Ognuno di noi, indipendentemente dal ruolo che ricopre, si interfaccia con la realtà secondo i propri schemi e le proprie categorizzazioni. Tutti abbiamo bisogno di riferirci a dei modelli entro cui riordinare le nuove informazioni: questo andamento nella conoscenza e decodifica della realtà è fondamentale, ma la nostra esperienza di cura ed assistenza alla persona con demenza ci invita a non fermarci qui. Se ci arrestassimo a questo primo passaggio, la nostra signora Maria ne uscirebbe ridotta alla classificazione di “aggressiva”, “cattiva”, “pericolosa”, “caratteriale”.
La priveremmo della possibilità di manifestarsi e di essere diversa da come, ora, agisce e soprattutto le negheremmo la sua storia e la sua evoluzione di individuo. A tale proposito, per ogni paziente che viene inserito nel Nucleo, si raccoglie la sua biografia utilizzando le fonti a disposizione, che possono essere familiari più o meno vicini e/o servizi del territorio di appartenenza che lo hanno seguito nel tempo. Tuttavia, tali informazioni rappresentano solo una parzialità, che ci permette un primo orientamento nella conoscenza della persona, ma che necessita di essere completata con i “ricordi” presenti nel soggetto stesso. Alla luce di quanto detto, è chiaro come, anche il materiale autobiografico, rappresenti una risorsa che vale la pena raccogliere, perché è sulla base di questo materiale che l’individuo si percepisce nel presente.
Quei frammenti di memorie che popolano la mente della persona e che vengono rievocati e ri-organizzati, rappresentano l’attuale storia di vita del soggetto e indirizzano, nel presente, i suoi comportamenti. Ecco che, allora, si conferma il significato di un approccio autobiografico, quello fondato sui residui e sulle ricomposizioni di immagini del passato che si fondono e confondono nel presente. Come scriveva Hillman (8) nel suo libro “La forza del carattere”: “due giorni fa diventa due mesi fa. (…) posso finire la frase spiegando dove sono andato e dove voglio andare o dove non sono mai andato indifferentemente, perché i tempi dei miei verbi non seguono più le leggi della grammatica. Vivo in un presente ipotetico dove ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato e ciò che dovrebbe essere perdono ogni distinzione. Sono entrato in una zona atemporale (…). Il mio libro della vita ha perduto i numeri di pagina e perfino la punteggiatura. La vita è una narrazione continua con ellissi, lacune, iterazioni e può essere letta da sinistra a destra o da destra a sinistra, dall’alto in basso o dal basso in alto, fa lo stesso. (…) Siamo scivolati fuori dalle categorie condizionate dal tempo: padri e figli, vecchi e giovani, prima e ora”.
Nella mente della nostra signora Maria ci sono immagini e colori, atmosfere e sapori che non hanno più una loro “crono-logicità”, che quasi sicuramente non ricalcano esattamente i tratti di ciò che è avvenuto (ma noi, quando rievochiamo episodi della nostra vita, siamo così fedeli a riportare i fatti così come sono accaduti?). Eppure, nella loro originalità e coloritura, quei fotogrammi rappresentano con vivida forza il racconto di ciò che la nostra signora Maria ha vissuto e, nel presente, determinano i suoi sentimenti ed emozioni. Anche lei, come tutte le persone che stanno percorrendo quell’età della vita comunemente chiamata vecchiaia, ha bisogno di restituire senso e rivisitare alcune tappe della propria storia, per conciliarsi con gli errori e le situazioni che rimangono in sospeso. Il percorso di attribuzione di un senso nuovo a ciò che è stato, è possibile anche nella frammentarietà della persona affetta da demenza perché è parte e si fonda su meccanismi, dinamiche e bisogni caratterizzanti l’essere umano. Certo è, che verranno utilizzati canali non convenzionali.
La nostra signora Maria non avrebbe potuto coinvolgersi in un percorso simile a quello psicoterapico classico, che si fonda sul canale verbale e sulla narrazione, ma ha trovato nei disegni uno strumento comunicativo che poteva padroneggiare. Da sola, non avrebbe potuto affrontare la rivisitazione della propria vita, era necessaria la presenza di un mediatore che accogliesse la sua necessità e le desse lo spazio idoneo per potersi esprimere in libertà. Questo è stato possibile perché non le si è negata la sua identità e soggettività di donna con un bagaglio di vita e sono stati riconosciuti i suoi bisogni di adulta. Tra le teorie di riferimento per la presa in carico del paziente affetto da demenza, si è diffusa la teoria della retrogenesi che si fonda sul pensiero piagetiano dello sviluppo cognitivo ed afferma che la persona con demenza percorre, in termini di perdita, quello che il bambino acquisisce in termini di conquista. In questa visione, che a nostro parere può essere uno degli indicatori di come si possono modificare le capacità cognitive, si paragona l’anziano adulto al bambino.
Il riconoscere similitudini così strette in un quadro di progressiva dipendenza, porta, spesso inconsciamente, a relazionarsi al paziente demente con le stesse modalità utilizzate comunemente con il bambino; negandogli il suo essere adulto significa quindi che viene negato anche il bisogno di introspezione e di rielaborazione della propria storia di vita. Noi, che quotidianamente lavoriamo con le persone affette da demenza, ci troviamo di fronte ad un armadio ricco di capi di ogni genere e per ogni occasione (teorie con riferimenti teorici e metodologici). C’è una serie di abiti da sera, ce ne sono altri sportivi, altri eleganti ma sobri, altri ancora da casa, quello che viene chiesto a noi, è di scegliere il vestito più appropriato per l’occasione e il contesto. E come farlo, se non partendo dall’incontro con il soggetto della cura? Attraverso l’osservazione attenta e una base di fiducia reciproca, possiamo scegliere l’abito più appropriato modellandolo sulla persona, una volta indossato. Poi è possibile rifinire il tutto utilizzando accessori diversi che abbiamo a nostra disposizione.
Purtroppo, ciò che avviene comunemente è l’operazione inversa: a priori si decide di utilizzare un abito, perché è quello che si trova più convincente e funzionale, vestendo indifferentemente le persone, in un certo senso conformandone le caratteristiche individuali ma, aspetto più grave, omologando il proprio pensiero e condizionando le possibilità dell’agire con loro. Le possibilità sono molte ma noi siamo davvero motivati e disponibili a lasciare che l’altro “canti la propria canzone?” (9).
Note
- Paese dell’hinterland milanese.
- Noto ospedale milanese
- Con il termine “altro” si fa riferimento agli operatori e agli ospiti che non rientravano nella composizione della sua nicchia ecologica
- In sede di UVG: unità di valutazione geriatrica – incontri a cui partecipano tutte le figure professionali che ruotano attorno al progetto di cura e assistenza di ogni ospite, con l’obiettivo di verificare l’andamento e il raggiungimento di obiettivi condivisi e ri-progettare l’intervento rivolto al paziente. Ha una cadenza semestrale per ogni individuo
- Paese dell’hinterland milanese
Bibliografia
1. Kitwood T. Dementia reconsidered: the person comes first. Open University Press. Buckingham, 1997.
2. Rogers C. La terapia centrata sul cliente. Psycho, Firenze, 2000.
3. Erikson Erik H, Erikson Joan M, Kivnick H. Coinvolgimenti vitali nella terza età. Armando Editore, Roma, 1997.
4. Erikson Erik H, Erikson Joan M. I cicli della vita. Continuità e mutamenti. Armando Editore, Roma, 1999.
5. Goffman E. Stigma. L’identità negata. Ombre Corte Editore, Verona, 2003.
6. Hacking I. Plasmare le persone – corso al Collège de France (20042005), a cura di Andrée Bella e Marco Casonato. Quattro Venti Srl, Urbino, 2008.
7. Piaget J. L’epistemologia genetica. Laterza, Bari 1971
8. Hillman J. La forza del carattere. Adelphi, Milano, 2007.
9. Kopp SB. Se incontri il Buddha per la strada uccidilo – Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia. Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1971.