1 Marzo 2015 | Strumenti e approcci

L’accompagnatore spirituale in Hospice

L’accompagnatore spirituale in Hospice

Premessa

L’accompagnamento spirituale in Hospice si realizza nella drammaticità dell’evento conclusivo dell’esperienza umana. Non è semplice individuare una regola d’intervento che garantisca risultati quantificabili, perché l’intervento di supporto si compie nell’incertezza di un rapporto in cui l’altro è solo di fronte al dolore e al mistero. È, inoltre, un rapporto disequilibrato perché nel morente, l’approssimarsi della fine, è talora associato alla condizione del dolore che provoca risentimento e accettazione passiva. Eppure, nelle pieghe della sofferenza, non è raro rintracciare quel desiderio di accompagnamento necessario per manifestare la propria inquietudine e inseguire il significato che illumina, più o meno intensamente, il cammino verso l’ignoto. Questo desiderio ha una dignità intrinseca perché, al di là dell’esito, testimonia una tensione che si impone e rimanda, in una situazione spesso medicalizzata e tecnicizzata, ad un fiorire dell’umano che insegue l’intuizione indispensabile per riscattare la condizione di sofferenza. Ecco perché, come afferma Viktor Frankl,“l’uomo è perfino disposto a soffrire, a condizione però di sapere che le sue sofferenze hanno un significato”(1).

 

La ricerca di un senso, che impreziosisce la resistenza al male, la necessità di confrontarsi, che diventa percorso comune ed “essere con l’altro”, e il bisogno di conforto e supporto, che possono tradursi in pratica religiosa o in consolazione laica, sono i cardini dell’accompagnamento spirituale. Tuttavia, se si considerano veritiere le conclusioni della Società Italiana di Cure Palliative (SICP) sul tema in questione – “i bisogni spirituali nascono con l’uomo stesso ed evolvono con lo sviluppo della persona. Tali bisogni possono manifestarsi come sofferenza spirituale durante la fase avanzata della malattia, in modo particolare con l’avvicinamento alla morte”- (2) è necessario porsi delle domande riguardo la gestione dell’accompagnamento spirituale negli Hospice e la formazione degli accompagnatori spirituali che operano nell’ambito delle cure palliative.

 

Sono tre le domande più urgenti:

  1. Quale spiritualità è utile proporre in Hospice?
  2. L’assistente spirituale deve svolgere il suo ruolo solo quando interpellato dal paziente o deve essere comunque coinvolto nel lavoro d’équipe?
  3. Perché perdura una tendenza che associa l’accompagnamento spirituale all’assistenza religiosa? Il problema è di natura culturale o scaturisce dalla volontà, più scientifica che religiosa, di tecnicizzare tutti gli interventi connessi alla gestione della malattia (quindi l’assistente spirituale è un prete o qualcuno comunque riconosciuto da un’istituzione)? La relazione tra il malato e l’assistente spirituale è la più delicata, perché esplora il non conosciuto, ponendo in evidenza il limite dell’uomo e l’imperscrutabilità del mistero della morte. Di certo c’è che, se la relazione funziona, “insieme possono condividere, come pochi altri, la meraviglia, il terrore e l’esaltazione di essere sull’orlo dell’essere, fra il naturale e il soprannaturale” (3).

 

L’accompagnamento del morente in Hospice. Come intervenire?

È difficile definire con precisione le emozioni e i sentimenti di un malato terminale. È più semplice individuare i bisogni più frequenti e definire l’approccio dell’accompagnatore. Sono tre le aree di bisogno principali: quella riguardante l’Io, anche in riferimento “all’essere con gli altri”, quella relativa alle attese e alle speranze e quella che, più in generale, include il mistero del dopo.

 

La prima area include le tematiche legate direttamente alla persona. La malattia e l’approssimarsi della morte, implicano lo schiudersi di domande introspettive su di sé, sulla propria vita, sugli affetti che hanno arricchito il cammino nei giorni. Non esiste un approccio sicuro per favorire l’emergere dei ricordi e l’analisi del proprio vissuto. Si può, però, affermare che un “accompagnamento biografico”, inteso come incoraggiamento ad approfondire e raccontare i significati della propria vita, la qualità di ciò che è stato e di ciò che si è avuto, la rilevanza di affetti che hanno valorizzato la quotidianità, induca a predisporsi nei confronti della morte con un atteggiamento attivo. In questa fase, “l’uomo che finisce” può vivere lo stupore della sua esistenza. Ripercorrendo con l’altro la sua storia, ha l’opportunità di considerare la morte come valore che legittima la vita, trasformando il cammino umano in esperienza, anziché in passaggio.

 

La fase di riscoperta di se stessi è centrata su questo intendimento: riscoprire la propria esistenza come esperienza dotata di dignità, valutata non sulla qualità o quantità dei giorni vissuti, ma sui significati di questi, considerati nella loro accezione più profonda, ovvero quella che permette di rintracciare un filo di bellezza che legittima lo sforzo dell’esistenza. In tal modo, sarà possibile approfondire altre due urgenze importanti per il morente: il bisogno di riconciliazione e il bisogno di sentirsi in comunione con gli altri (4). Sono due necessità che, pur incluse nel più ampio insieme spirituale, hanno caratteristiche proprie ed esprimono tutta la loro bontà quando sono interiorizzate nella loro espressione umana. Riconciliarsi con l’altro, riconoscersi in un Noi che perdura nonostante la sua fine, pone il morente in uno stato di accettazione indispensabile per congiungersi a quel filo logico valido per legittimare l’esistenza, affermando, contemporaneamente, la propria umanità in tutti gli elementi positivi e negativi che la caratterizzano.

 

La seconda area d’interesse riguarda le aspettative di fronte alla morte, la speranza, la disperazione che può annullare ogni bagliore di attesa positiva. È difficile rispondere alle paure di un uomo che muore. Anzi, porsi l’obiettivo di giungere ad una conclusione riguardo ai temi in questione, può generare un distacco da parte del morente, che non riconosce come attendibili risposte non generate dall’esperienza, bensì dalla deduzione di una condizione non vissuta. La fase in questione può essere sostenuta da un “accompagnamento culturale”. Nel confronto con l’altro, l’attesa non è più solo un percorso straziante e disperato, il processo di morte non più atto solipsistico, ma condivisione comunitaria di speranza e accettazione. L’attesa della morte diventa momento di rinnovamento delle speranze, che mutano, ma confermano il desiderio di un senso valido, anche nell’ateo, per gratificare la lotta contro la sofferenza. L’accompagnamento diventa, in questa fase, sostegno silenzioso di chi vive l’agonia, intesa nel suo significato originale, come fatica dell’uomo per resistere al male che opprime il corpo. L’accompagnatore è colui che si sforza di essere presente durante l’evolversi dell’avvenimento che trasforma definitivamente la vita di un individuo. Si può definirlo “accompagnamento culturale” perché si realizza nell’interiorizzazione del proprio limite umano, nel riconoscimento minimalista della propria presenza. Le paure che angosciano il morente, possono essere combattute solo con l’invito a resistere, ad individuare ogni segno che possa chiarire e rafforzare nel cammino.

 

Come ricorda Turoldo, “ci sono dolori per cui non esistono parole in nessun dizionario. Dolori e angosce davanti alle quali la risposta migliore è il silenzio. Di fronte a certe tragedie, a certe sofferenze non servono né filosofie, né prediche. E il rimedio migliore, dico rimedio, non risposta, sarà semplicemente la tua partecipazione di amico, la tua presenza amorosa, il tuo «essere con» la persona sofferente, l’ammalato. La migliore risposta pratica quindi è «l’essere con», è il silenzio, l’accettazione per quanto possibile. Anche se questo non deve significare rinuncia a lottare, a cercare ogni sforzo per guarire. L’importante è non darsi mai per vinti e ricominciare ogni volta da capo” (5).

 

Inoltre, è culturale perché può essere accompagnato dalla condivisione di spunti letterari, filosofici, artistici, la cui profondità può essere utile per affrontare il disagio del dolore fisico e della sofferenza esistenziale. Infine l’area che comprende le domande sul dopo, sul mistero della morte e sulle paure di quello che può succedere. Si tratta dell’area più rilevante per due motivi. Innanzitutto è quella che riflette l’interrogativo di ogni morente. Il giudizio sulla propria esistenza, su ciò che questa ha rappresentato, cambia in base ai valori che la persona accosta agli eventi vissuti nel tempo. Il problema legato al dopo, invece, accomuna tutti, perché azzera le conoscenze degli individui che lo affrontano. In seconda istanza, riflettere sul dopo significa ragionare nuovamente sulle prime due aree, perché pone una domanda sul senso dell’esistenza, chiamando in causa il nostro vissuto, le nostre speranze e aspettative, che trovano conforto o confronto nella spiritualità e, più nello specifico, nella religiosità. Entriamo nella terza fase, “l’accompagnamento spirituale”, ovvero l’evolversi del servizio di assistenza da parte di chi, avendo ripercorso l’esistenza del morente (“accompagnamento biografico”), avendo portato conforto con la compagnia silenziosa e compenetrata nella drammaticità dell’evento (“accompagnamento culturale”), muove dalle domande emerse in questo percorso, aiutando ad elaborare quel “significato” che può favorire l’accettazione attiva della morte e, di conseguenza, migliorare la fine della vita. Si entra così nell’ambito spirituale che è “quella dimensione interiore dell’uomo che gli consente di dare senso e significato al proprio agire, alle proprie scelte, insomma, alla propria storia, fatta di vissuti, di desideri, di timori, di relazioni. Aiutare la persona a prendere atto della propria dimensione spirituale significa quindi, prima di tutto, aiutarla a interrogarsi sui significati profondi e ultimi dell’esistenza” (6).

 

L’accompagnatore svolge, pertanto, la delicata funzione di indurre l’altro a meditare sugli aspetti che lo aiutino a trovare un suo significato, che può tradursi in tensione religiosa, quindi in un contenuto che si oggettivizza perché fondato su una credenza. Se nel primo caso l’accompagnamento si limita a rinvenire le tracce che compongono un senso, nel secondo l’accompagnamento diventa religioso e propone percorsi ulteriori che approfondiscono le domande sul dopo e sulla speranza di una continuità differente. Si instaura, in entrambi i casi, un rapporto interpersonale in cui accompagnatore e malato ricercano un collegamento tra le loro esistenze e qualcosa che trascende la realtà conosciuta, ed aiuta il morente ad accettare la morte e l’accompagnatore a riconoscerla ed interiorizzarla per raffinare il suo aiuto e prepararsi, a sua volta, ad un passaggio obbligatorio per ogni uomo.

 

Il processo termina quando il morente riconosce nel senso e, quando possibile, nella speranza di una continuità, le basi che giustificano la propria esistenza, il dolore e la morte. Quando questo avviene, “il morente avrà raggiunto la sensazione che il suo destino si stia compiendo e sia inutile resistere all’ordine naturale dell’universo” (7). Ogni area include strumenti d’intervento differenti e personalizzati. La compenetrazione è forse il modo più efficace per generare affidamento vicendevole, l’invito al racconto può aiutare il morente a comprendere se stesso e le domande che richiedono una risposta, la rilettura di alcuni momenti della vita passata può far emergere significati trascurati. In ogni caso, gli strumenti indispensabili per accompagnare verso l’accettazione della morte, sono il silenzio e l’ascolto attivo. Il silenzio e l’ascolto sono gli atti spirituali che consentono la compenetrazione e chiariscono la comprensione del messaggio dell’altro. In una prospettiva religiosa, si elevano a sacramenti liturgici.

 

L’accompagnamento al morente in Hospice. Chi interviene?

La letteratura scientifica e l’esperienza in Hospice convergono nel riconoscere come accompagnatore, ogni operatore socio-sanitario che sappia valorizzare la dimensione umana e spirituale del paziente, sostenendolo nel percorso verso la morte e aiutandolo a considerare la fine come un momento di valore nella sua vita. È una posizione condivisibile che esalta l’umanità dell’operatore e lo aiuta ad osservare non solo la malattia, ma soprattutto il paziente. È, però, utile chiedersi quale caratteristica comune debba avere l’accompagnatore del morente e se è opportuno valutare la presenza in équipe dell’assistente spirituale. L’impressione è che l’accompagnatore spirituale non debba possedere competenze specifiche in ambito tecnico. Anzi, si potrebbe affermare che il suo compito sia di restituire al paziente la sua morte. È un operatore che, pur consapevole dell’importanza del contributo scientifico (medico, psicologico, ecc.), riporta l’attenzione esclusivamente sull’uomo, avanzando una proposta totalmente antropocentrica.

 

Illich, ricorda come, nel mondo moderno esista la tendenza di rendere “la sofferenza, la malattia e la morte da impegno personale a problema tecnico, espropriando così la gente d’ogni capacità di misurarsi autonomamente con la propria condizione umana” (8). La competenza principale dell’accompagnatore non dovrebbe, pertanto, essere di natura psicologica o teologica, ma prettamente umana, poiché il suo compito consiste, innanzitutto, nel sostenere il morente nel suo percorso di riscoperta del proprio vissuto e dei significati ad esso legati.

 

Prevale, quindi, in particolare nelle prime due fasi, la necessità di avere competenze umanistiche, che sappiano offrire una cornice ad uno sfondo di racconti e sentimenti spesso confusi e contraddittori. Occorre un umanista che sappia ritrovare nell’attrattiva della propria umanità il limite che rimanda a qualcosa che trascende l’esistenza umana e che si trasforma, nell’incontro con il morente, in ricerca di un senso il quale, in una prospettiva religiosa, si traduce a sua volta in affidamento a Dio, garanzia di questa intuizione di significato. Di conseguenza, l’operatore o l’assistente “che si fa vero compagno di un morente diventa egli stesso un segno attraverso il quale chi muore può fare un’esperienza del trascendente forse decisiva” (9).

 

Chi accompagna, quindi, è un individuo sempre in ascolto, che si pone il problema della propria esistenza e lavora sui suoi significati. Riflettere e crescere umanamente su questa domanda di senso, aiuta a valorizzare gli strumenti necessari per accompagnare il morente. In particolare, aiuta a perfezionare il silenzio e l’ascolto, a riconoscere il proprio limite, quindi ad accettare la propria impotenza, a non ridurre l’importanza dei sentimenti, anche quelli più strazianti, perché ammettendone il valore, accetta la presenza di un mistero che sconcerta e, infine, a predisporre relazioni autentiche, senza le quali ogni tentativo di accompagnamento sarebbe vanificato. La proposta di una relazione di accompagnamento basata su questi presupposti, determina la riproposizione della seguente domanda: ha senso prevedere la presenza stabile dell’assistente spirituale in équipe?

 

La SICP ricorda che è “auspicabile che ci sia in ogni équipe una sensibilità ed un’apertura ai bisogni spirituali dei malati e, dopo il riconoscimento di tali bisogni, si giunga ad un intervento dell’assistente spirituale. È inoltre augurabile l’inserimento dell’assistente spirituale nell’équipe al fine di realizzare tali potenzialità e rispettare appieno la definizione stessa delle Cure Palliative proposta dall’OMS in cui si fa esplicito riferimento a questa dimensione” (10). Se, pertanto, c’è un impulso ideale ad inserire l’assistente spirituale nell’équipe, d’altro canto, si assiste tuttora ad una bassa presenza e ad un limitato coinvolgimento.

 

Per comprendere tale fenomeno, è bene porre un ulteriore quesito: le cure palliative propongono davvero l’umanizzazione del morire o viceversa si collocano in continuità con la propensione alla medicalizzazione sterilizzante della morte? La medicina palliativa si trova davanti ad una scelta, affidare alla tecnica ogni aspetto della cura e della ricerca (“multidisciplinarietà tecnica”) o riconoscere e diffondere un approccio che includa anche un contributo realmente umanistico (“multidisciplinarietà olistica”).

 

La prima opzione tradisce la storia delle cure palliative, la seconda la valorizza perché produce, oltre all’importante contributo clinico, contributi sociali, spirituali, culturali e tanatologici. La presenza dell’accompagnatore spirituale non può, pertanto, realizzarsi in forme di supporto esterno, ma deve inserirsi nel lavoro dell’équipe (11). Questo gli offrirà un quadro ampio sulla condizione del malato, ma anche sulle direzioni intraprese dai membri nella cura del morente, e, più in generale, sulla dimensione esistenziale dei pazienti in Hospice. Supporterà gli operatori nel loro percorso di accompagnatori umani, oltre che sanitari. Proporrà, inoltre, i riferimenti letterari, filosofici, artistici, spirituali e teologici, necessari per sviluppare una riflessione comune, ricongiungendo gli eventi della malattia e della morte all’umano. Potrà, infine, riflettere costantemente sul suo operato, sull’approccio nei confronti del malato e delle persone a lui care, su storie che, pur non seguendo direttamente, arricchiranno il suo contributo in Hospice. Infine, è un formatore in continua azione, perché aiuta gli operatori a comprendere la sofferenza spirituale e ad accompagnare nel percorso verso la morte. Infatti, se il sistema formativo e l’esperienza sul campo, rafforzano le competenze dei professionisti sanitari, le difficoltà comunicative e relazionali e la poca attenzione formativa ai temi spirituali e filosofici, rendono più complesso il potenziamento delle conoscenze culturali ed esperienziali dei membri dell’équipe.

 

Confidare nel supporto in équipe dell’assistente spirituale facilita la decifrazione di situazioni ed eventi, dispone gli operatori ad affrontare con serenità tematiche complesse, contribuisce ad umanizzare il processo clinico. Quella che emerge, quindi, è l’esigenza di un accompagnatore/assistente spirituale che, formato su aspetti filosofici, sociologici, religiosi, psicologici ed etici, sappia affrontare la drammaticità della malattia e della morte. Sebbene l’accompagnamento possa diventare religioso, includendo un servizio che solo un sacerdote ha il diritto di compiere, le fasi sopra descritte propongono una figura svincolata da un indirizzo tecnico (scientifico, culturale o religioso), e da funzioni che ne limitano l’efficacia.

 

L’assistente spirituale può essere un prete, ma non si può ridurre la categoria a questa figura, perché si limiterebbe la proposta formativa in équipe e rischierebbe di non incidere a causa del più problematico confronto con chi proviene da esperienze diverse. L’assistente spirituale non è, tuttavia, la sintesi sincretista di culture e religioni diverse. È, piuttosto, un individuo con un personale percorso culturale e religioso, che propone un rapporto basato sull’incontro umano e accompagna il morente utilizzando gli strumenti che la sua storia gli offre, ripensandoli sull’altro e lasciandosi provocare positivamente da una diversità che può rappresentare l’occasione per aiutare nel cammino verso la morte e accrescere il proprio bagaglio di conoscenze e credenze umane, culturali e spirituali.

 

Conclusione

Ripensare l’accompagnamento spirituale alla luce di un percorso complesso che affronta le questioni umane e spirituali del morente, agevola il compito della medicina palliativa. Morire in pace, o comunque in ascolto, aiuta a garantire la difesa di tre aspetti indispensabili per l’accettazione della malattia e della morte. In primo luogo, il malato non perde la sua individualità, perché fino all’ultimo istante si lascia sfidare dalla sua storia, dalle sue relazioni e dalle sue domande esistenziali. Ne consegue la tutela della sua dignità, rispettata e valorizzata.

 

Infine, la persona che muore protegge la sua umanità, e di fronte al mistero che lo attende, prova a confrontarsi con un compagno diviaggio, sul senso dell’esistenza, esaltando quel desiderio d’infinito tipico di ogni essere umano. Individualità, dignità e spiritualità sono così celebrate come fondamenti indispensabili per godere attivamente e criticamente dei momenti finali e predisporsi ad una morte, impossibile per noi viventi da definire, ma vissuta coralmente, perché sostenuta da un accompagnamento umano e spirituale responsabile.

Bibliografia

1. Frankl VE. Homo Patiens, soffrire con dignità. Queriniana.1998.

2. Raccomandazioni della SICP sulla Sedazione Terminale/Sedazione Palliativa. 2007.

3. Broyard A. La morte asciutta. Bur. 2008.

4. Brusco A. Quale spiritualità per le cure palliative? www.oasinforma.it

5. Vinco R. “Il poeta di Dio sfida la morte”, intervista a D.M. Turoldo, pubblicata sul Gazzettino, edizione di Verona «Il nuovo Veronese», 1/11/1991.

6. Campanello L, Sala G. La dimensione spirituale e religiosa alla fine della vita, in Migliorare la qualità delle cure di fine vita – Un cambiamento possibile e necessario. Costantini M, Borreani C, Gubrich S. (a cura di), Erikson. 2008.

7. Petrini M, Caretta R, Bernabei R. La cura nella fase terminale della vita: processi di comunicazione e di accompagnamento nel percorso del morire. G Gerontol. 2004;52:465-471.

8. Illich I. Limits to Medicine: Medical Nemesis – The Expropriation of Health, Marion Boyars. London. 1976.

9. Caretta F, Petrini M. Ai confini del dolore. Salute e malattia nelle culture religiose. Città Nuova. 1999.

10. Raccomandazioni della SICP sulla Sedazione Terminale/Sedazione Palliativa. 2007.

11. Kubler-Ross E. La morte e il morire. Edizioni Cittadella. 1970.

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