Negli ultimi 5 anni di pubblicazione della rivista cartacea I luoghi della cura – tra il 2012 ed il 2015 – le problematiche delle RSA trovano un ampio spazio di approfondimento e di discussione. La cosa non sorprende: non solo per la scelta di fondo della rivista di rappresentare “un forum aperto alla ricchezza del dibattito in corso tra gli operatori” dei servizi in tutti i luoghi e i percorsi della cura – e per la larga preponderanza nel nostro Paese dei servizi residenziali su quelli domiciliari; ma anche, data la forte appartenenza lombarda della redazione della rivista, per il ruolo storicamente esercitato nella promozione in Lombardia della cultura e della pratica geriatrica dagli operatori della rete, capillare e consolidata, di servizi residenziali per gli anziani.
I contributi riferiti alle RSA possono essere raggruppati in tre filoni, che saranno trattati in questo e nei prossimi numeri rivista: le problematiche del personale (n. 1/2018); i modelli – organizzativi, operativi, ma anche culturali ed epistemologici – di approccio e di cura (n. 2/2018); la collocazione della RSA nella rete dei servizi e le sue prospettive in un contesto in progressiva evoluzione (n. 3/2018).
Il personale
Le riflessioni sul ruolo e i compiti degli operatori rappresentano la quota predominante dei contributi, ospitati dalla rivista, dedicati alle RSA: segno, a mio avviso, dell’impegno e della passione che continuano a permeare queste strutture, nonostante o forse proprio a ragione delle molteplici difficoltà che sono chiamate ad affrontare.
Due numeri della rivista, il quarto del 2012 ed il primo del 2013, passano in rassegna le molteplici figure professionali che operano nelle RSA. L’editoriale di Marco Trabucchi – “Le professioni di cura per l’anziano: un processo in evoluzione” – propone alle istituzioni formative, l’università in primo luogo, i contenuti imprescindibili della formazione di operatori destinati alla cura ed all’assistenza dell’anziano fragile: la capacità di “ragionare in termini di complessità”, di riconoscere l’influenza continua dell’ambiente “sulla stessa struttura biologica e sulla clinica”; la tensione ad una forte integrazione dei servizi, il coinvolgimento del territorio nel percorso di insegnamento; l’orientamento alla ricerca, capace di coinvolgere tutte le professioni di aiuto, in grado al tempo stesso di “produrre ricadute sulla qualità delle cure” e di “rappresentare una scuola per gli operatori stessi”. “Nei prossimi anni – conclude l’editoriale – su questi temi si giocherà la struttura dell’insegnamento in ambito sanitario; la geriatria potrebbe avere un ruolo centrale perchè possiede strutturalmente una cultura della complessità, che significa multidimensionalità, sintesi tra medicina basata sull’evidenza e medicina narrativa, attenzione all’imprevedibile, valorizzazione dei piccoli guadagni, centralità dell’autonomia e della qualità della vita dell’anziano”.
I contributi che si soffermano sul ruolo delle singole professionalità sono fortemente in linea con le premesse dell’editoriale. Così il contributo su “Il fisioterapista e il paziente anziano”, di Paolo Pillastrini e Matteo Paci, sottolinea le specificità del lavoro di questa figura professionale con il paziente geriatrico: la globalità di un approccio che è fatto contemporaneamente di “interventi di prevenzione, cura e riabilitazione”, l’approccio funzionale centrato sulle “attività semplici” della vita quotidiana, il ruolo educativo nei confronti dei caregiver formali ed informali, la capacità di trasmettere loro “informazioni su un corretto posizionamento, sull’igiene posturale, su spostamenti e trasferimenti, su strategie per l’incremento dell’autonomia, … su eventuali modifiche ambientali … e sull’utilizzo di adeguati ausili per la mobilità”.
Nel delineare il ruolo de “Il medico geriatra” Alberto Cester richiama la necessità per chi si occupa dei più fragili di sapere “ancora emozionarsi”, di “saper combattere tutti i giorni per i piccoli guadagni dei pazienti, per le stabilizzazioni senza guarigioni, per le sconfitte che segnano, ma insegnano, per le difficoltà di relazione e comprensione”. E sottolinea “l’orgoglio” del medico che, chiamato a trattare “un malato difficile”, deve affinare le proprie competenze diagnostiche nella “valutazione delle sfumature dei sintomi” in un malato “spesso paucisintomatico” e nel “riconoscimento della cascata degli eventi”; deve saper “soppesare l’uso dei farmaci e conoscerne sapientemente effetti collaterali e interazioni”; deve “avere manualità, saper toccare, esplorare”; deve “sapere di attività e cure nel territorio, di servizi sociali”; deve in particolare “avere dimestichezza con il lavoro di gruppo, saper partecipare al team di cura senza volontà di sudditanza di altre figure”.
Dalla necessità di recuperare “in tempi rapidissimi”, nella “formazione di base e complementare dell’infermiere … il ritardo con cui nel nostro paese stiamo affrontando i problemi connessi al fenomeno dell’aumento della speranza di vita” prende le mosse il contributo di Ermellina Zanetti e di Nicoletta Nicoletti su “Infermieri: scenari (futuri) di cambiamento”. L’articolo individua nel potenziamento delle competenze della professione infermieristica il presupposto per una riorganizzazione delle cure primarie capace di passare da una medicina d’attesa ad una medicina di iniziativa: ma il cambiamento che le autrici auspicano non risiede nell’ereditare competenze attualmente dei medici, bensì nel valorizzare le specifiche competenze assistenziali degli infermieri, la loro capacità di valutare i bisogni e i rischi della persona fragile, affetta da patologie croniche, di garantirne la presa in carico, di assicurarle la necessaria “continuità delle cure e dell’assistenza”; e nel promuovere una nuova cultura organizzativa che sappia individuare “indicatori di risultato attribuibili all’assistenza infermieristica”, che “privilegi i risultati rispetto ai processi e che valorizzi le abilità e le competenze di tutti i professionisti”.
Alla figura dell’educatore professionale sono dedicati due contributi: di Davide Ceron, Paola Nicoletta Scarpa e Martina Vitillo (“L’educatore professionale nel lavoro di cura con gli anziani”) e di Sergio Tramma (“Educatori professionali: quale formazione per quali competenze?”). Il primo sottolinea come gli interventi di questo operatore nelle RSA – fin dal momento dell’accoglienza e dell’inserimento dell’anziano nella struttura – debbano essere finalizzati non solo al mantenimento e al “potenziamento, quando possibile, delle capacità, anche se residue”, ma soprattutto ad aiutare l’anziano a “dare un senso … alla propria giornata e al tempo”, a favorirne la partecipazione ad una vita attiva, ad accrescerne l’autostima ed il protagonismo: grazie ad una “reazione educativa … voluta, cercata, mirata, non casuale, passeggera” ed alla collaborazione con gli altri professionisti. Anche Tramma sottolinea “la necessità di individuare e costruire alleanze e integrazioni tra i differenti approcci disciplinari e le diverse figure professionali” e di finalizzare gli interventi alla stabilizzazione o al recupero dell’autonomia “intesa come capacità di decidere ed agire all’interno dei vincoli di un contesto e di una storia, non intesa solo, quindi, come autosufficienza rispetto ai compiti quotidiani. Proprio “la collocazione del lavoro educativo nell’orizzonte dell’autonomia” supera una visione riduttiva dell’educatore professionale, spesso “inteso come una sorta di agente anestetizzante impegnato in piccole attività di intrattenimento”. Al contrario l’educatore professionale deve innanzitutto possedere una “meta-competenza squisitamente pedagogica” quale “capacità di promuovere interventi educativi intenzionali con sufficiente dose di consapevolezza” e “capacità di analizzare l’organizzazione in quanto luogo educativo informale … in grado comunque di costruire/decostruire importanti saperi”. Una “meta-competenza progettuale e analitica” cui si affiancano “competenze in grado di dare luogo ad attività modularmente collegabili di tipo ricreativo, motorio, culturali, socializzanti, finalizzate a stimolare/preservare potenzialità motorie, intellettive, relazionali”. Di fronte alla complessità ed all’incertezza del lavoro educativo con gli anziani non è tanto rilevante, per l’autore, la scelta tra i diversi percorsi formativi collocati rispettivamente nelle facoltà-dipartimenti di medicina o nelle facoltà-dipartimenti di scienze dell’educazione quanto la necessità di “ricomporre in un unico percorso la formazione di soggetti che hanno a che fare con la complessità dell’esistenza e non con le sue riduzioni disciplinari e accademiche”.
Ad un’analoga esigenza, quella di rispondere come équipe alla globalità dei bisogni della persona anziana, risponde la presenza dello psicologo nelle RSA. Giorgia Monetti e Marta Zerbinati (“Il ruolo dello psicologo nel processo di cura degli anziani accolti in struttura”) ne delineano la molteplicità delle aree di operatività. L’intervento diretto sulla persona, che deve “tenere conto sia della sfera cognitiva che della sfera emotivo-affettiva”, è centrata su “ciò che la persona è ancora in grado di fare, piuttosto che enfatizzare i deficit” con l’obiettivo di stimolare nell’anziano la motivazione e la consapevolezza di sè aiutandolo a costruire il proprio “progetto di vita”. L’efficacia di tale intervento non può prescindere dalla condivisione di tale modello d’approccio con tutto il gruppo di lavoro e dalla gestione, fin dall’ingresso in struttura, del “sistema anziano-famiglia” e delle relazioni dei familiari, e dal dialogo della famiglia con il gruppo di lavoro. La presenza dello psicologo nell’équipe si concretizza in due aree di intervento: l’affiancamento e la supervisione agli operatori nella conoscenza della persona e nella gestione dei suoi comportamenti “difficili” ed il sostegno al personale assistenziale della struttura “nel contenere situazioni di ansia e stress e prevenire il burn-out del personale attraverso azioni di supervisione”. Una complessità di ruoli che richiede senz’altro una presenza di questa figura professionale ben più consolidata di quella attuale, limitata alle residenze ed alle “zone più virtuose” ma non ancora prevista nè dalla legislazione nazionale nè da molte normative regionali.
Numerosi contributi, sia nei due numeri specificamente dedicati al personale delle RSA che in altri fascicoli della rivista, prendono in esame il ruolo e le problematiche degli operatori socio-sanitari, sottolineando le complessità e le difficoltà del lavoro di cura loro affidato e la conseguente necessità di un continuo sostegno formativo (esigenza purtroppo in contrasto con la non rara precarietà delle loro condizione lavorativa). Così l’articolo di Grazia Colombo – “Gli operatori socio-sanitari di fronte alle cure di fine vita” – rileva, da un’esperienza di formazione-azione, la “solitudine” degli operatori nell’incontro “con la morte delle persone da loro curate”, lo stress, la paura, l’ansia suscitati “dalla morte di una persona che, pur non facendo parte del proprio mondo intimo-personale, tuttavia non è estranea” , il “vuoto di elaborazione socio-culturale rispetto alla morte extra-familiare” ed il “vuoto di ritualità e di partecipazione che rende difficoltoso fornire di senso i gesti e le emozioni”: ma anche la possibilità – grazie ad uno specifico momento di formazione, appunto – di compiere insieme un percorso di consapevolezza e di accettazione della morte (“aprire le porte alla morte, cercando l’essenza”) che si traduce in proposte praticabili, sia “di tipo operativo-relazionale, da mettere in atto da parte degli operatori” stessi, che di tipo organizzativo-strutturale, da consegnare alla Direzione.
Una riflessione di particolare interesse sulla difficoltà del lavoro di cura – e non solo degli OSS – nelle RSA ci è offerta da Achille Orsenigo (“Fatiche e sofferenze nei luoghi di cura per anziani affetti da patologie croniche”): “lavorare, prendersi carico, spostare persone e oggetti, stare vicini, identificarsi, aspettare, costruire, aver cura, cercare d’andar d’accordo, gestire conflitti, sono tutte operazioni che comportano fatiche, stress e a volte anche sofferenze”. “Curare una malattia – scrive l’autore – comporta … misurarsi con il potere di guarire, ma anche, molto spesso, con il non riuscirci”. Se fatiche, stress e sofferenze sono “dimensioni inscritte in qualsiasi lavoro”, ciò è senz’altro più vero in servizi “caratterizzati da continuità ed esclusività del contatto con la cronicità e con soggetti giunti al termine della vita”. E’ essenziale pertanto evitare che le fatiche, fisiche e psichiche, diventino sofferenze. Anzitutto ridando un senso alle fatiche richieste dal lavoro con anziani affetti da patologie croniche: “curare anziani e per di più cronici mette … duramente e a volte drammaticamente di fronte a limiti radicali e in una posizione di scarso riconoscimento professionale. Se non si è in grado di riformulare il senso della cura, in termini del prendersi cura, dell’accompagnare, invece che del guarire, le fatiche diventano sofferenze”. L’arduo percorso per contenere la sofferenza passa attraverso l’accettazione della fatica, evitando obiettivi irrealistici e valorizzando e rendendo visibili “i risultati del proprio lavoro, delle proprie e altrui fatiche”, coltivando “le dimensioni di soddisfazione, di passione per il lavoro”. Si deve valorizzare la capacità dell’équipe “di rendere sostenibile la malattia e la dipendenza agli anziani che ci sono affidati” o di “accompagnare un anziano alla morte, dopo un lungo periodo di malattia” mettendo in luce “come le fatiche anche dure, possano essere la premessa per realizzare un buon servizio per i propri pazienti”.
Alla “fatica” degli operatori fa riferimento anche Giovanna Perucci (“Il tuo corpo è il tuo maestro”. Il corpo degli operatori nel lavoro di cura”): che è certo “fatica emotiva di chi si confronta con il dolore dell’altro” ma anche “il peso che comporta l’entrare anche fisicamente, ‘corpo a corpo’, in rapporto con il corpo sofferente del paziente”. Il lavoro di cura mette in gioco il corpo dell’operatore “tanto da farne uno degli strumenti professionali”: la mano, la pelle, il contatto fisico, “ma anche l’orecchio sensibile che sa ascoltare e l’occhio osservatore che cerca di dissimularsi in uno sguardo pieno di tatto”. Ma l’orecchio trasmette anche lamenti sgradevoli, l’occhio deve indugiare sui segni del degrado fisico, l’olfatto è sovrastato dai cattivi odori: e se non riesce a stabilire la giusta distanza, ad evitare un coinvolgimento eccessivo, l’operatore rischia un sovraccarico emotivo da cui possono scaturire “forme di somatizzazione” o “reazioni di difesa … quali paura di agire, indifferenza, atteggiamenti disinteressati, linguaggi particolarmente volgari, comportamenti aggressivi, frustrazioni che – non potendo rivolgersi verso la causa d’origine – si trasferiscono contro noi stessi producendo fenomeni di autosvalutazione”. Che fare allora? Giovanna Perucci suggerisce di individuare “uno spazio, mentale, relazionale ed organizzativo, dove ricaricarsi, condividere esperienze, riflettere e cercare soluzioni insieme ai colleghi” (la riunione di équipe, la formazione); ma sottolinea come questo spazio abbia bisogno “anche di un luogo fisico: e ci invita a guardare ai momenti di ‘pausa’ in questo luogo (“la ‘guardiola’, la cucina o altri ambienti di servizio”) come ad un’opportunità per gli operatori per prendersi concretamente cura del proprio corpo, “sapendo salvaguardare, nell’arco della giornata, uno spazio-tempo per sè” (suggerendoci implicitamente percorsi di ‘welfare aziendale’ capaci di prendersi carico del corpo dei lavoratori, oltre che del loro disagio emotivo).
L’analisi sintetica dei contributi dedicati da “I luoghi della cura” al personale che opera all’interno delle RSA non può concludersi senza segnalare la riflessione di Adriano Benzoni e Valter Tarchini su “Il coordinamento nei Servizi residenziali per gli anziani”, frutto di un lavoro di ricerca e formazione che ha coinvolto, sotto la guida dello Studio APS, coordinatori e responsabili di alcune residenze del milanese. L’articolo parte dal riconoscimento della peculiarità delle residenze per anziani, servizi “chiamati a coniugare nella quotidianità dimensioni di soggettività con dimensioni di comunità”, a farsi carico della “gestione delle problematiche di salute” e contemporaneamente a garantire continuità, “ per ognuna delle persone ospiti, a forme di relazione con la propria storia, con il proprio patrimonio di esperienze e di identità”. Questa complessità postula per gli autori, come primo obiettivo, “la costruzione dell’oggetto di lavoro del servizio”: è essenziale cioè definire “i riferimenti che si devono tenere nella relazione con gli ospiti e con le loro famiglie, i valori e le ipotesi scientifiche che lo orientano, ma anche come questo lavoro si traduce in modalità e qualità dei processi di lavoro”. Senza una sufficiente definizione dell’oggetto di lavoro “ogni professione segue i propri codici e i propri riferimenti con il determinarsi di una logica di lavoro più ‘istituzionalizzante’ e ‘meccanicistica’ ancorata al rispetto del proprio mansionario”: con una conseguente riduzione degli ospiti a mero oggetto degli interventi ed un aumento delle “microconflittualità tra operatori, con gli ospiti e con le famiglie”. Alla complessità dei ‘contenuti’ del servizio corrisponde la grande variabilità dei modelli di coordinamento in atto (di struttura, reparto, nucleo; con la presenza o meno di figure di supporto/ referenza; …), delle figure professionali impiegate, delle funzioni richieste, dei contesti organizzativi. Due sono i compiti che gli autori considerano comuni a tutte le figure di coordinamento: garantire il funzionamento di tutti i servizi di supporto capaci di garantire l’operatività quotidiana (“il contesto generale del lavoro”) e sostenere il lavoro degli operatori. Quest’ultimo compito – il sostegno ed il controllo del lavoro degli operatori – può, a sua volta, esprimersi attraverso diverse modalità, la cui scelta / prevalenza potrà dipendere dai diversi modelli organizzativi: la supervisione diretta del personale e del loro quotidiano operare; la definizione, possibilmente condivisa con gli operatori stessi, di procedure legate al lavoro specifico della singola realtà ed alla tipologia degli ospiti; la “condivisione di ‘criteri’ e ‘riferimenti’ tecnici e culturali che possono sostenere comportamenti più orientati, responsabili e professionali da parte dei collaboratori”, ne stimolino “un maggiore investimento cognitivo ed emotivo” e ne favoriscano “la fiducia e l’autocontrollo” (“controllo e sostegno attraverso le premesse”). Fondamentale resta comunque la capacità del coordinatore di presidiare la rappresentazione da parte di tutte le figure professionali dell’oggetto di lavoro e la condivisione degli obiettivi e del senso dei propri interventi, orientandoli al processo di cura ed evitando “una loro riduzione all’elenco delle prestazioni”.